Il Tractatus logico-philosophicus ò una delle opere più complesse e importanti del pensiero novecentesco, e anche una delle più enigmatiche e controverse: assunta in un primo tempo come uno dei principali testi ispiratori del movimento neopositivistico (e di quanti coltivavano, in generale, un ideale di “filosofia scientifica”), in anni successivi ò stata letta in modi molto diversi, ora come un testo sostanzialmente kantiano (poichè volto alla ricerca delle condizioni di possibilità e di dicibilità delle cose), ora come una riflessione anti-razionalistica e a suo modo perfino mistica (poichè si sottolineano soprattutto i limiti del dicibile e il rilievo di ciò che sta oltre tali limiti, rilievo che non ò razional-scientifico, ma etico). Lo stesso Wittgenstein non ha mai fatto granchò per facilitare la comprensione del suo testo: da un lato egli sembra incoraggiarne una lettura in chiave spiccatamente logico-epistemologico-scientifica; anzi, il modello di sapere valorizzato da certe sue dichiarazioni appare di tipo molto forte, oggettivo, assolutizzante (come quando, nella prefazione del Tractatus, asserisce che ” la verità dei pensieri qui comunicati ” ò ” intoccabile e definitiva ” e che ritiene ” d’aver definitivamente risolto i problemi affrontati “). Da un altro lato stanno invece considerazioni di natura molto diversa, che enfatizzano la ristrettezza dell’ambito di praticabilità del pensare/parlare rigoroso e il peso di quanto si dà fuori di tale ambito. Ma questo non basta: in una famosa lettera a Ludwig von Ficker, Wittgenstein volle una volta sottolineare la natura fondamentalmente morale del Tractatus: scriveva che ” il senso del libro ò un senso etico “. E più avanti aggiungeva: ” il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte ò quella importante “. La dichiarazione ò indubbiamente sconcertante: ma l’apparente paradosso che contiene si scioglie se la si interpreta come un riferimento a tutto quel mondo di vita e di esperienza di cui il Tractatus non aveva parlato perchè situato fuori da ben precise coordinate logico-linguistiche (e che invece era quello davvero “importante”). Al di là delle auto-interpretazioni di Wittgenstein, riconosciuta l’esistenza di svariati significati (e per di più non univoci) della sua opera, resta certo un fatto: il Tractatus si inserisce a pieno titolo in quell’intensa stagione di riflessioni e ricerche primo-novecentesche nella quale filosofi di diversa provenienza teorica si posero il problema di una rifondazione della conoscenza e del sapere. In quest’ottica, il lavoro wittgensteiniano, se certo preannuncia e prepara le grandi investigazioni neopositivistiche, ò anche meno lontano di quanto si possa comunemente immaginare dai testi del primo Husserl: di quell’Husserl che a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento si era cimentato nella ricerca dei fondamenti dell’aritmetica, nella riflessione su una logica “pura” e nella costituzione della filosofia come “scienza rigorosa”. Gli antecedenti più prossimi di Wittgenstein sono però altri: Frege, Mach e, in misura ancora maggiore, Russell. Anche indipendentemente dai temi particolari che legarono il giovane pensatore austriaco al più maturo filosofo inglese, ciò che ò bene sottolineare ò la sostanziale sintonia tra molti loro presupposti e ambizioni generali. A tal proposito, le caratteristiche e i propositi che accomunano i due filosofi (pur tenendo presenti le differenze, in primis l’attenzione wittgensteniana per quanto sta oltre le strutture logico-linguistiche del sapere rigoroso) sono i seguenti: 1) il progetto di rifondare il sapere, con l’ambizione di indicarne le strutture universali e oggettive; 2) la credenza nella validità esemplare e paradigmatica della scienza (per l’esattezza, della scienza formale) per ogni conoscenza che ambisca ad essere veritiera e rigorosa; 3) il correlativo atteggiamento ambivalente nei confronti della filosofia: per un verso praticata come indispensabile strumento della riflessione critico-rifondatrice del sapere, per un altro considerata una disciplina impura, non rigorosa, richiedente una specie di inveramento scientifico; 4) il convincimento che si danno “fondamenti” del sapere, o almeno dei princìpi meta-empirici generali, che ò necessario cogliere al di là della molteplicità delle esperienze cognitive; 5) l’ulteriore convincimento che tale traguardo sia raggiungibile solo attraverso l’impiego di una complessa indagine logica; 6) l’assunto che il sapere si configura essenzialmente come un sistema di enunciati linguistici; 7) il principio che un’analisi del “sapere come linguaggio” ò, insieme, un’analisi della realtà dal punto di vista gnoseologico, poichè quest’ultima si dà solo in quanto “detta” da uno strumento espressivo adeguato; 8) la correlativa tesi tra linguaggio e mondo vige una relazione di corrispondenza o isomorfismo; 9)l’ulteriore tesi che sia il linguaggio sia il mondo sono degli aggregati composti riducibili a determinazioni semplici e che su tali determinazioni ò possibile (almeno idealmente) riconoscere un sapere rigoroso.
- 1900
- Filosofia - 1900