Riassunto
Dopo essere tornato presso Dante,
Virgilio riacquista la propria serenità e incoraggia il suo discepolo ricordandogli di essere già disceso una volta fino al
fondo dell’inferno. All’improvviso, sull’alto delle mura fortificate di Dite compaiono le tre Furie, mostri con sembianze di
donna e chiome formate da un intrico di serpenti. Esse manifestano la loro ira per la presenza dei due poeti, dilaniandosi con
le unghie, percuotendosi e gridando in maniera terrificante. Ma da sole sono impotenti a punire il vivo che ha osato violare la
dimora della morte; per questo invocano a gran voce Medusa, la Gorgone che ha il potere di trasformare in pietra chiunque la
guardi. Virgilio invita il suo discepolo a volgere le spalle, ed egli stesso gli copre gli occhi con le mani. Ma da lontano si
preannuncia ormai l’arrivo del messo celeste. Lo precede un fragore d’uragano, mentre davanti a lui, che avanza sereno sulla
palude stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi, i dannati, in numero sterminato, si danno alla fuga. Virgilio esorta
Dante ad inginocchiarsi, ma l’angelo non degna i due pellegrini di uno sguardo: altre preoccupazioni sembrano dominare il suo
animo. Giunto davanti alla porta della città di Dite, la tocca con un piccolo scettro ed essa si apre senza difficoltà. Prima
di ripercorrere il cammino per il quale è venuto, il messo rimprovera i diavoli per l’opposizione ai voleri dell’Onnipotente e
ricorda la sorte toccata a Cerbero per aver voluto opporsi ad Ercole che era disceso negli Interi. Allontanatosi l’angelo, i due
viandanti penetrano nell’interno della città: davanti a loro si apre una grande pianura cosparsa di tombe, che richiama alla
memoria di Dante le necropoli romane di Arles e di Pola. Ma qui i sepolcri, tutti aperti, sono arroventati dalle fiamme. In
essi si trovano le anime degli eretici. I due poeti si incamminano lungo un sentiero che corre tra le mura e le tombe
infuocate.
Introduzione critica
I canti ottavo e nono ripropongono le perplessità, i dubbi, i terrori
dell’anima di fronte al peccato, una situazione analoga, cioè, a quella in cui Dante si è trovato alla uscita dalla selva.
Anche qui tema dominante è quello della umana insufficienza; ma, mentre nei due canti iniziali l’aiuto divino si era concretato
in un uomo, Virgilio, poeta e saggio, espressione al tempo stesso di un modello insuperato di civiltà (l’impero romano) e della
ragione eterna, pura di specificazioni storiche, qui l’intervento sovrannaturale è assai più diretto e miracoloso: nella
persona dell’angelo è infatti sensibilmente prefigurata la Grazia. Ora infatti che l’inferno “alto” , luogo di pena per coloro
che peccarono passionalmente, quasi per una sovrabbondanza della forza vitale, ha finito di dare al peregrinante i suoi
insegnamenti, ora che alla vista del Poeta appare la fortezza che racchiude il male più grave, l’umanissimo Virgilio, dolce
padre, amico e maestro premuroso, guida fin qui sicura, rivela egli stesso la propria imperfezione, i limiti da Dio assegnati
all’uomo. Il Vossler ha opportunamente diviso il grande dramma religioso che si svolge dalla metà del canto ottavo fin quasi al
termine del nono in quattro atti. Primo atto: l’anima, in quanto non definitivamente acquisita al male, è respinta dai diavoli
(Dante è ancora in vita, ha la possibilità di redimersi, non è morto al richiamo della Grazia). Secondo atto: la ragione
(Virgilio) tenta di indurre la malizia a riconoscersi sconfitta; ma questa, avvertito il pericolo, fugge. Terzo atto: il male,
al fine di prevalere su colui che vuole smascherarlo, evoca le sue forze più pericolose: non le seduzioni esterne alle quali la
ragione saprebbe resistere, bensì le angosce interne, i rimorsi (le Furie). L’anima, se assistita dalla ragione, non ha motivo
di temerle (Virgilio invita Dante a guardare le Furie e gliele nomina). Essa deve però respingere quella che del male è la
tentazione più nefasta, la disperazione (Medusa). Quarto atto: a sconfiggere il male deve intervenire – dopo che l’anima e la
ragione si sono impegnate ed hanno compiuto i loro tentativi di resistenza – la grazia divina (il messo celeste).Il nono è fra
i canti più ricchi di riferimenti a simboli, leggende e figurazioni della mitologia pagana. Il De Sanctis ha detto che Dante se
ne serve come di “materiale di costruzione”, nello stesso modo in cui i cristiani del Medioevo si servivano di colonne e ruderi
romani per le loro chiese. Ma questa affermazione va in parte corretta: non si tratta di semplice “materiale”. Sia pure
strappati dal loro contesto storico, gli elementi della cultura pagana conservano nella Commedia qualcosa dei loro antichi
significati. In tutto il poema è, infatti, continuamente ribadita la continuità etica e culturale fra mondo precristiano e
mondo cristiano, non diversamente da come in San Tommaso e in Sant’Alberto Magno una medesima linea di pensiero congiunge,
gerarchicamente graduandole, natura e rivelazione, filosofia greca e Sacra Scrittura, vita morale e santità. Questa fortissima
esigenza unitaria, per la quale nessun aspetto del reale viene respinto (la gloria di Dio risplende, per quanto in una parte
più e meno altrove, ovunque nell’universo, come è detto nella terzina di apertura del Paradiso), spiega come, per Dante, anche
negli dei falsi e bugiardi, assunti in funzione simbolica, brilli qualche idea del divino.La riabilitazione del mondo classico
sarà compiuta esplicitamente, senza giustificazioni religiose, dagli umanisti del Quattrocento, ma qualcosa del loro sentire si
è voluto scorgere anche in Dante e si è parlato (Sapegno) della “fiducia ingenuamente preumanistica dello scrittore nella
validità poetica, e quindi anche simbolica e immediatamente persuasiva, della cultura letteraria consegnata ai grandi poemi
classici”. Ma il richiamo alle favole mitologiche nella Commedia ha una funzione opposta a quella che svolgerà nella cultura
umanistica: la mitologia non viene infatti accolta nell’universo poetico di Dante in quanto elemento evasivo, di fuga dal
reale, di nobile distacco dalla condizione del dolore, ma dal Poeta è volta a confermare, oltre ogni differenza di linguaggio e
cultura, una verità che non ammette né restrizioni né deroghe né accomodamenti: quella dell’impegno totale e responsabile
dell’uomo nel mondo. Tuttavia, se la grande rappresentazione drammatica davanti alla porta di Dite riflette indubbiamente una
concezione allegorica, essa la traduce poi in scenografia ed azione. Come le due distese orizzontali, la nera maremma del fango
e la fiammeggiante necropoli dell’eresia, ingigantiscono la verticalità delle mura – enormi nel desolato riverbero, quasi di
ferro appena uscito dal fuoco – della città del male (un dato reale, un paesaggio medievale urbano, vallo, torri, porte,
sentinelle, su cui l’anima fa incombere l’ombra del giudizio di Dio), così due zone di silenzio (i dannati, le loro pene, le
loro espressioni di dolore sono passati in secondo piano; l’attenzione del Poeta si volge tutta al “mistero” che ha luogo
davanti ai suoi occhi e ha per oggetto il suo stesso destino) isolano nella sua unicità esemplare la scena del decisivo
confronto tra le forze del male e il ministro del volere di Dio. L’arrivo del messo si preannuncia sul piano dell’analogia fin
dagli inizi del canto ottavo, allorché fuochi nella notte, improvvisi segnali di guerra, introducono una nuova dimensione,
allucinata e febbrile, nel poema. Ma, nella sua compostezza plastica e morale, l’angelo mostra di sdegnare le umane
trepidazioni. Mentre infatti le forze del bene si misurano con quelle del male in un clima di epopea e intorno all’anima umana
si affrontano come eroi dei poemi dell’antichità, Dante nei suoi dialoghi con Virgilio, pieni di reticenze, di curiosità
impacciata, dà voce all’umana viltà, nota ai confini del comico, sempre presente, anche nel cuore della tragedia, nella
complessità della vita.
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