Riassunto
I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di
piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma
se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita,
incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita lanima imprigionata nellalbero a rivelare il
suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dellimperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente
accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà
riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi,
dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie.
Dopo il Giudizio
Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno allalbero nel quale è incarcerata la loro anima.
Il discorso
di Pier delle Vigne è interrotto dallapparizione delle ombre di due scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne
fameliche. Mentre uno di questi due dannati . riesce a sottrarsi alla caccia, laltro, esausto, cerca riparo in un cespuglio,
ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale
una voce si leva a protestarle contro tanto scernpio. Quella che adesso parla è lanima di un suicida fiorentino: prega i due
pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi
sulla sua città.
Introduzione critica
La selva deI suicidi è lespressione tangibile dell
innaturalezza del loro peccato, dellempietà, radicata nella superbia, che condusse questi infelici a disprezzare il dolore, a
disperare della giustizia che ripara ogni torto, al di là dellingiustizia degli uomini. Per gli antichi il suicidio non
rappresentava un atto moralmente riprovevole; luomo era considerato padrone della sua vita fino al punto di potersela
togliere, e responsabile di essa soltanto nei confronti di se stesso. Tutta una tradizione letteraria ha esaltato le figure di
quegli stoici che, ostacolati dalla tirannide nellesercizio della libertà, preferirono darsi la morte anziché riconoscersi
soggetti ad unautorità che non fosse quella della loro coscienza. Ma il Cristianesimo ha dato allidea di libertà una
dimensione ignorata dagli antichi, trasferendola, dal piano esclusivamente umano – sul quale essa finiva per identificarsi con
la libertà politica – al piano dei rapporti delluomo con Dio, fonte e fondamento di tutti i valori.
Luomo, per il
cristiano, deve svolgere nel mondo un compito che non si esaurisce nellambito dei doveri verso lo stato. Egli non appartiene
solo a se stesso o alla comunità dei suoi simili, né può disporre a suo piacimento di ciò che non è opera sua, ma dono,
gratuito ed inestimabile, di Dio, la più alta espressione della sua potenza creatrice e del suo spirito damore: la
vita.
Nel canto tredicesimo la metamorfosi delluomo in pianta, già ampiamente trattata dagli autori latini, diviene, per
Dante, cristiano, consapevole allestremo della dignità umana, quel qualcosa di tragico e di irrimediabile che è la
degradazione dellumano nelle forme di un ordine inferiore.
Scrive lo Spitzer: “là dove Ovidio dispiega al nostro sguardo la
ricchezza della natura organica, Dante mostra linorganico, librido… il peccaminoso, il dannato”. E, ancora, precisando:
“Però una metamorfosi di Ovidio, pur essendo presentata come ” naturale “, è forse meno ” reale ” di quella di Dante. Ovidio
tratta una tradizione leggendaria che ripete come se vi credesse; le sue favole si svolgono in un remoto passato ed hanno una
patina di leggenda. Invece i due protagonisti della metamorfosi di Dante, Pier delle Vigne ed il suicida anonimo, erano quasi
contemporanei del Poeta: figurano nel poema in quanto appartengono alleterno presente ed illustrano il giudizio di Dio che è
universalmente vero: de te fabula narratur”.
Per quel che riguarda lo spunto che il Poeta può aver tratto, nellimmaginare
il bosco dei suicidi, da Virgilio, già il De Sanctis aveva notato come la figurazione dantesca si origini in una disposizione
di spirito che è agli antipodi di quella del suo modello latino. Nessun indugio, in Dante, nellanalisi delle proprie
impressioni; nessuna concessione a quella levigatezza di trapassi che, in Virgilio, riesce a rendere “elegante anche lorrore”.
Il motivo dellalbero che sanguina – pittoresco prima ancora che tragico nel terzo libro dellEneide, subordinato comè al
flusso ampio della narrazione, confinato nella funzione di illustrare il carattere di un paese inospite, dal quale gli dei
vogliono che Enea si allontani al più presto – si isola, in Dante, come una delle espressioni più vigorose e coerenti di quella
logica del male che è alla base delle figurazioni sia plastiche sia psicologiche dellInferno.
Nel bosco lacerato dalle
Arpie, percorso dalla caccia furente e disumana in cui la preda è luomo (gli scialacquatori) e gli inseguitori sono animali,
il discorso di Pier delle Vigne sembra riportare la misura dellumano, creare come unisola di tregua, trascendere lorrore di
questa condanna senza appello. Per un attimo dimentichiamo quasi che colui che parla è ridotto a un tronco inerte e trae
faticosamente le sue parole da una sanguinante lacerazione. Ci chiediamo: “e dovè più linferno? dovè il tronco? noi siamo in
Napoli, nella corte di re Federico, innanzi ad un cancelliere” (De Sanctis).
Ma, a guardar meglio, la rievocazione del
sereno mondo dei vivi ad opera del protonotaro imperiale appare forzata e come costretta anchessa in forme innaturali. La sua
parola diventa schietta ed esprime una profonda emozione solo quando proclama la propria innocenza, e giura sulle sue radici.
Ma proprio queste, legandolo alla terra – lui così eccitabile nei moti del suo animo (sì col dolce dir madeschi … ), così
lontano, nel suo parlare fiorito, da ogni forma di raccordo con il reale -appaiono come il simbolo supremo della sua
estraneazione dallumano. Il linguaggio di Pier delle Vigne riflette compiutamente – nel compiaciuto gioco di antitesi e
parallelismi, nel gusto per la circonlocuzione studiata, nel “tragico e grottesco grandinar di metafore” (Apollonio) che lo
caratterizza – da un lato quello che doveva essere stato il carattere di questo uomo di corte, tutto inteso, in vita, al suo
glorioso offizio, dallaltro, per contrasto, linnaturale coercizione della sua condizione attuale, il suo peccato irrigidito e
reso eterno dalla sentenza di quel giudice che egli non seppe considerare come padre e fratello. Non è esatto scorgere, nel
modo di parlare di Pier delle Vigne, soltanto la manifestazione di un carattere debole o vanitoso o insincero, secondo i punti
di vista espressi dal De Sanctis e, recentemente, dallApolIonio, e neppure soltanto un ritratto “linguistico” dellelegante
stilista capuano, secondo la tesi del Novati.
Dante, pur così ricco di determinazioni realistiche, non intende mai darci
una copia di ciò che possiamo vedere coi nostri occhi in terra. La sua non è una poetica naturalistica; i suoi ” ritratti “,
tutti orientati nel senso della caratterizzazione morale, sono in funzione di un significato che li
trascende.
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