Inferno: Riassunto e Critica XIII Canto - Studentville

Inferno: Riassunto e Critica XIII Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di

piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma

se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita,

incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il

suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente

accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà

riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi,

dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie.
Dopo il Giudizio

Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima.
Il discorso

di Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne

fameliche. Mentre uno di questi due dannati . riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio,

ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale

una voce si leva a protestarle contro tanto scernpio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida fiorentino: prega i due

pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi

sulla sua città.

Introduzione critica

La selva deI suicidi è l’espressione tangibile dell’

innaturalezza del loro peccato, dell’empietà, radicata nella superbia, che condusse questi infelici a disprezzare il dolore, a

disperare della giustizia che ripara ogni torto, al di là dell’ingiustizia degli uomini. Per gli antichi il suicidio non

rappresentava un atto moralmente riprovevole; l’uomo era considerato padrone della sua vita fino al punto di potersela

togliere, e responsabile di essa soltanto nei confronti di se stesso. Tutta una tradizione letteraria ha esaltato le figure di

quegli stoici che, ostacolati dalla tirannide nell’esercizio della libertà, preferirono darsi la morte anziché riconoscersi

soggetti ad un’autorità che non fosse quella della loro coscienza. Ma il Cristianesimo ha dato all’idea di libertà una

dimensione ignorata dagli antichi, trasferendola, dal piano esclusivamente umano – sul quale essa finiva per identificarsi con

la libertà politica – al piano dei rapporti dell’uomo con Dio, fonte e fondamento di tutti i valori.
L’uomo, per il

cristiano, deve svolgere nel mondo un compito che non si esaurisce nell’ambito dei doveri verso lo stato. Egli non appartiene

solo a se stesso o alla comunità dei suoi simili, né può disporre a suo piacimento di ciò che non è opera sua, ma dono,

gratuito ed inestimabile, di Dio, la più alta espressione della sua potenza creatrice e del suo spirito d’amore: la

vita.
Nel canto tredicesimo la metamorfosi dell’uomo in pianta, già ampiamente trattata dagli autori latini, diviene, per

Dante, cristiano, consapevole all’estremo della dignità umana, quel qualcosa di tragico e di irrimediabile che è la

degradazione dell’umano nelle forme di un ordine inferiore.
Scrive lo Spitzer: “là dove Ovidio dispiega al nostro sguardo la

ricchezza della natura organica, Dante mostra l’inorganico, l’ibrido… il peccaminoso, il dannato”. E, ancora, precisando:

“Però una metamorfosi di Ovidio, pur essendo presentata come ” naturale “, è forse meno ” reale ” di quella di Dante. Ovidio

tratta una tradizione leggendaria che ripete come se vi credesse; le sue favole si svolgono in un remoto passato ed hanno una

patina di leggenda. Invece i due protagonisti della metamorfosi di Dante, Pier delle Vigne ed il suicida anonimo, erano quasi

contemporanei del Poeta: figurano nel poema in quanto appartengono all’eterno presente ed illustrano il giudizio di Dio che è

universalmente vero: de te fabula narratur”.
Per quel che riguarda lo spunto che il Poeta può aver tratto, nell’immaginare

il bosco dei suicidi, da Virgilio, già il De Sanctis aveva notato come la figurazione dantesca si origini in una disposizione

di spirito che è agli antipodi di quella del suo modello latino. Nessun indugio, in Dante, nell’analisi delle proprie

impressioni; nessuna concessione a quella levigatezza di trapassi che, in Virgilio, riesce a rendere “elegante anche l’orrore”.

Il motivo dell’albero che sanguina – pittoresco prima ancora che tragico nel terzo libro dell’Eneide, subordinato com’è al

flusso ampio della narrazione, confinato nella funzione di illustrare il carattere di un paese inospite, dal quale gli dei

vogliono che Enea si allontani al più presto – si isola, in Dante, come una delle espressioni più vigorose e coerenti di quella

logica del male che è alla base delle figurazioni sia plastiche sia psicologiche dell’Inferno.
Nel bosco lacerato dalle

Arpie, percorso dalla caccia furente e disumana in cui la preda è l’uomo (gli scialacquatori) e gli inseguitori sono animali,

il discorso di Pier delle Vigne sembra riportare la misura dell’umano, creare come un’isola di tregua, trascendere l’orrore di

questa condanna senza appello. Per un attimo dimentichiamo quasi che colui che parla è ridotto a un tronco inerte e trae

faticosamente le sue parole da una sanguinante lacerazione. Ci chiediamo: “e dov’è più l’inferno? dov’è il tronco? noi siamo in

Napoli, nella corte di re Federico, innanzi ad un cancelliere” (De Sanctis).

Ma, a guardar meglio, la rievocazione del

sereno mondo dei vivi ad opera del protonotaro imperiale appare forzata e come costretta anch’essa in forme innaturali. La sua

parola diventa schietta ed esprime una profonda emozione solo quando proclama la propria innocenza, e giura sulle sue radici.

Ma proprio queste, legandolo alla terra – lui così eccitabile nei moti del suo animo (sì col dolce dir m’adeschi … ), così

lontano, nel suo parlare fiorito, da ogni forma di raccordo con il reale -appaiono come il simbolo supremo della sua

estraneazione dall’umano. Il linguaggio di Pier delle Vigne riflette compiutamente – nel compiaciuto gioco di antitesi e

parallelismi, nel gusto per la circonlocuzione studiata, nel “tragico e grottesco grandinar di metafore” (Apollonio) che lo

caratterizza – da un lato quello che doveva essere stato il carattere di questo uomo di corte, tutto inteso, in vita, al suo

glorioso offizio, dall’altro, per contrasto, l’innaturale coercizione della sua condizione attuale, il suo peccato irrigidito e

reso eterno dalla sentenza di quel giudice che egli non seppe considerare come padre e fratello. Non è esatto scorgere, nel

modo di parlare di Pier delle Vigne, soltanto la manifestazione di un carattere debole o vanitoso o insincero, secondo i punti

di vista espressi dal De Sanctis e, recentemente, dall’ApolIonio, e neppure soltanto un ritratto “linguistico” dell’elegante

stilista capuano, secondo la tesi del Novati.

Dante, pur così ricco di determinazioni realistiche, non intende mai darci

una copia di ciò che possiamo vedere coi nostri occhi in terra. La sua non è una poetica naturalistica; i suoi ” ritratti “,

tutti orientati nel senso della caratterizzazione morale, sono in funzione di un significato che li

trascende.

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