Riassunto
Dopo aver predetto a Dante la sconfitta dei Bianchi ad opera di Moroello
Malaspina, Vanni Fucci alza le mani in un gesto osceno contro Dio, ma due serpenti si avventano immediatamente contro di lui,
ponendo termine allostentazione di tanta superbia. Il ladro pistoiese, con le braccia e il collo chiusi, nelle loro spire,
fugge inseguito dal centauro Caco, colpevole anche questultimo di furto eseguito con frode. Tre dannati vengono nel frattempo
a fermarsi sotto largine roccioso dal quale i due pellegrini hanno assistito alla trasformazione di Vanni Fucci in cenere,
alla sua riconversione in figura di uomo, alla sua punizione ad opera dei serpenti. Nuove, più allucinanti metamorfosi si
svolgono sotto i loro occhi. Un serpente munito di sei piedi si lancia contro uno di questi ladri e si abbarbica al suo corpo
come ledera ad un albero. Come se fosse di cera la forma umana si trasferisce in quella del serpente, mentre questa, a sua
volta, si perde in quella delluomo. Il risultato di questa innaturale fusione è un mostro dallaspetto indefinibile, che
incomincia a percorrere in silenzio, con lento passo, il fondo della bolgia. Non appena questa metamorfosi si è compiuta, un
serpentello – che è uno dei peccatori già trasformati – con la velocità di un fulmine trafigge lombelico ad un altro dei tre
ladri, ricadendo poi a terra davanti a lui come privo di forze, stregato. Mentre il serpente e luomo si guardano negli occhi
attraverso il fumo che, uscendo dalla bocca del rettile si scontra con quello che si sprigiona dalla ferita delluomo, avviene
la terza delle trasformazioni della settima bolgia, quella che nessuno dei poeti antichi è riuscito ad immaginare: luomo
assume a poco a poco le fattezze del serpente che gli sta davanti, questo si . trasforma nel dannato che ha ferito. La pena di
coloro che in vita privarono il prossimo di beni materiali sui quali non potevano accampare alcun diritto, è di essere privati
del solo bene inalienabile di cui, per legge di natura, un uomo può disporre: la propria figura umana.
Introduzione
critica
Il tratto più saliente della figura di Vanni Fucci non è, come vorrebbero alcuni studiosi, la bestialità
allo stato puro (in altre parole: lassenza in lui di qualsiasi sensibilità morale) quanto piuttosto la consapevolezza
esasperata di questa bestialità, un dolore che non trova misure umane cui adeguarsi, una disperazione che arriva a prescindere
dal mondo, dagli esseri, dai valori, per negare direttamente, in Dio, il loro principio. Poiché la superbia del ladro pistoiese
ricorda al Poeta quella di Capaneo, il parallelo tra il personaggio di Vanni Fucci e quello del grande che cadde a Tebe giù da
muri è divenuto un luogo comune della critica dantesca. Ciò che occorre tuttavia rilevare non sono tanto gli aspetti che
accomunano queste due figure di dannati, quanto i tratti che li distinguono. Capaneo esprime una concezione ancora
fondamentalmente precristiana del senso della nostra presenza nel mondo. Sulla base delle suggestioni classiche (Stazio), Dante
propone nellepisodio del canto XIV, la contrapposizione, tipica della tragedia antica, delleroe al fato, della volontà
cosciente (qual io fui vivo, tal son morto) – che in sé sola trova il proprio sostegno, la propria legittimazione ultima –
allarbitrio del mondo, e degli eventi. Questa contrapposizione, mentre esalta al massimo la grandezza delluomo, finisce col
separarlo dal senso dellessere in generale, ne rende incomprensibíli, assurde, lorigine e la destinazione: tra uomo e mondo,
nella concezione tragica del paganesimo, esiste un divario incolmabile. Capaneo dipinge Giove, Vulcano, i Ciclopi, in chiave
ironica: luniverso intero, campo nel quale agiscono forze smisurate ma cieche, volte alla sopraffazione reciproca più che ad
un armonico coesistere (lOlimpo, come lo vede il grande vinto, somiglia più ad un caos che ad un cosmo), è colto dal panico,
esita, rivela la propria insufficienza (non ne potrebbe aver vendetta allegra) di fronte alla razionalità che nelleroe si
manifesta e lo sottopone a giudizio. In Capaneo non cè scissione interiore, ma limpida coerenza. La sua colpevolezza è tale
soltanto agli occhi di Dante, il quale, dopo essere stato colpito dalla sua statura morale (lessere indomabile, il grande,
colui che non si piega), la nega violentemente, attraverso le parole di Virgilio, in nome di una concezione superiore. Un
cristiano non può vedere infatti nel mondo solo il dispiegarsi dellirrazionale e nelluomo la negazione, intransigente ed
astratta, di questo irrazionale, ma considera mondo e uomo radicati in una stessa sapienza che li trascende e volti a
recuperare, attraverso lerrore e il dolore, il senso della loro perfezione originaria.
Ciò che distingue in primo luogo
Vanni Fucci da Capaneo è la piena consapevolezza che il primo ha della propria miseria morale: in lui la giustizia divina opera
anzitutto dallinterno, come incancellabile rimprovero della coscienza. La sua sfrontata autoglorificazione iniziale (son Vanni
Fucci bestia..) non è in alcun modo contraddetta dalla vergogna (e di trista vergogna si dipinse) che lo coglie in un secondo
tempo, originandosi entrambe entro uno stesso abisso di disperazione, nel consenso, che il dannato non può rifiutare (se non,
per un attimo – sfuggendo a se stesso – attraverso lirrazionalità della bestemmia), alla giustizia della condanna infertagli
da Dio. Vanni Fucci cerca di evadere dalla prigione della propria coscienza prima attraverso il male che la sua profezia è
destinata ad arrecare a Dante (e detto lho perché doler ti debbia!), poi, con scatto imprevedibile e assurdo, attraverso il
gesto sacrilego delle fiche, accompagnato dalla sua apostrofe a Dio.
Se proprio nellaffermazione che, con parole e con
atti, Vanni Fucci fa della propria natura inumana, lo spirito è continuamente presente a se stesso e i valori etici
dolorosamente illuminano la coscienza di questo peccatore, ai ladri fiorentini, protagonisti del canto XXV, «larte del poeta
ha negato qualsiasi tratto di individuazione umana». Nel ladro pistoiese “lo spirito muore nellabbrutimento dopo essersi
esaltato; qui lo spirito è morto non rimane se non la materia eternamente affaticata da una necessità che pare meccanica”
(Rossì-Frascino).
La tonalità del canto XXV è stata magistralmente additata dal Momigliano – in un suo saggio del 1916 nello
smarrimento del Poeta di fronte al perdersi di ciò che è peculiarmente umano (forma del corpo, capacità di esprimersi,
coscienza) nella materia.
“Sotto la fredda malia della nitida metamorfosi palpita, muto, tremendo, religioso, il dramma
dellanima che si smarrisce nel corpo bruto. La precisa materialità di quelle descrizioni, la mancanza di ogni suggestione
sentimentale, non sono che il mezzo onde si rileva la silenziosa morte dello spirito.”
Ma la religiosità dantesca non è mai
disgiunta dalla fermezza di un lucido possesso intellettuale. Il tema delle metamorfosi cantate da Ovidio e Lucano acquista,
nel canto dei ladri, una dimensione ignorata dagli antichi, non solo per la presenza in esso degli elementi religioso e morale,
ma anche per il fatto di essere ripensato in chiave scientifico-dottrinale. La favola antica perde ogni vaghezza di contorni,
per essere sottoposta al vaglio di una mentalità logica, incurante dello scintillio delle apparenze. Tradotto nei termini della
filosofia aristotelica, il mito si rivela incredibile, fallace (cfr. in particolare i versi 100-102), ma il Poeta – secondo
quanto ha chiaramente mostrato il Mattalia – lo correda “di un nuovo attributo di credibilità o verosimiglianza dedotto dal
postulato teologico che Dio, quei che puote, può realmente, con la sua divina arte, operare infrangendo le barriere delle leggi
naturali. Restando cosi salvo… il valore divinatorio che la cultura medievale… riconosceva alle favole dei grandi poeti
pagani”.
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