Inferno: Riassunto e Critica XXVI Canto - Studentville

Inferno: Riassunto e Critica XXVI Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

I due pellegrini lasciano la bolgia dei ladri e

riprendono il faticoso cammino. Dall’alto del ponte che sovrasta l’ottava bolgia questa appare loro percorsa da fiamme simili

alle lucciole che il contadino vede nella valle quando si riposa, alla sera, sulla sommità della collina. Ogni fiamma nasconde

un peccatore. In una di esse, che si distingue dalle altre per il fatto di terminare con due punte, scontano le loro colpe –

l’inganno che costrinse Achille a partecipare alla guerra di Troia, il ratto fraudolento del Palladio, lo stratagemma che causò

la rovina del regno di Priamo – due Greci: Ulisse e Diomede. Poiché Dante ha manifestato il desiderio di udirli parlare,

Virgilio si rivolge alla fiamma biforcuta pregando affinché uno dei due eroi riveli il luogo della sua morte. Dalla punta più

alta esce allora la voce di Ulisse. Egli racconta che, dopo la sosta presso la maga Circe, nulla poté trattenerlo dall’

esplorare il Mediterraneo occidentale fino alle colonne d’Ercole, limite del mondo conoscibile. Qui giunto, si rivolse ai

fedeli compagni, come lui invecchiati nelle fatiche e nei rischi: “Fratelli, nel poco tempo che ci rimane da vivere, non

vogliate che ci resti preclusa la possibilità di conoscere il mondo disabitato. Seguiamo il sole nel suo cammino. La vita non

ci fu data perché fosse da noi consumata nell’inerzia, ma perché l’arricchissimo attraverso la validità delle nostre azioni e

delle conoscenze da noi raggiunte”. Questo breve discorso infiammò a tal punto i membri dell’equipaggio, che i remi parvero

trasformarsi in ali e la nave volare sulla superficie dell’oceano inesplorato. Cinque mesi dopo il passaggio attraverso lo

stretto di Gibilterra una montagna altissima si mostrò all’orizzonte. Da questa ebbe origine un turbine; la nave girò tre volte

nel vortice delle onde, poi si inabissò; il mare si chiuse sopra di essa.

Introduzione critica

Quasi

tutti i personaggi della prima cantica appaiono consapevoli, in forme più o meno esplicite, del male compiuto: il rimorso è

alla radice del loro modo di manifestarsi anche là dove, disperatamente, cercano di soffocarne la voce. Nell’episodio di Ulisse

tuttavia l’elemento tragico non è rappresentato dal peccato. Per quanto gravi siano infatti le colpe che condannano, nella

bolgia dei consiglieri fraudolenti, l’ideatore dell’agguato che pose termine all’orgoglioso dominio dei Troiani, ad esse il

Poeta dedica appena un cenno di carattere informativo (versi 58-63), destinato a non riproporsi, nemmeno come motivo marginale,

nel racconto della corsa disperata di questo peccatore di retro al sol. Vigorosamente emblematica, questa espressione riassume

il senso dell’intero episodio. Essa non si limita ad indicare una direzione nell’universo fisico (uno dei quattro punti

cardinali); proclama, oltre il suo orizzonte più immediato, l’ineluttabilità dell’imperativo morale, additando «una via

tracciata nel cielo, che invita l’uomo a percorrerne una parallela sulla terra» (Fattori).I peccati che Ulisse sconta – immune,

nel suo involucro di fuoco, da ogni contatto con la cronaca dei tempi non eroici (in più di un luogo del suo poema Dante

contrappone il Medioevo all’antichità classica, oggettivandolo in aspra «commedia» ) e da tale cronaca appartato anche per il

fatto che ignora il « volgare » in cui essa si esprime – sono presentati in modo generico, inquadrati in uno schema astratto e

come distaccati dalla volontà viva e personale dell’eroe. “E se il Poeta non può non far menzione della pena di questo suo

personaggio e sembra anzi insistere su di essa, quell’insistenza non è se non una retorica variatio… che non importa una

maggiore intensità di sentimento, poiché il si martire, il si geme, il piangevisi, il pena vi si porta sono dei semplici

sinonimi di un « è punito », e sarà anche da osservare la forma passiva, per cui non l’eroe sofferente è presentato nel

discorso come soggetto, bensì il peccato di cui il discorso deve dar notizia. L’eroe, questo importa, pur dannato, rimane non

tocco nel suo intimo dalla dannazione.” (Fubini) La tragedia di Ulisse è nel suo naufragio, incidente ai suoi occhi fortuito,

dato di fatto nel quale sembra, inspiegabilmente, incarnarsi una volontà tesa a negare l’ideale da lui perseguito oltre i

limiti per tradizione assegnati alle capacità umane. “Nell’istante medesimo in cui la incoercibile potenza dell’umana attività,

vicina ormai e quasi già tocca la meta, risplende con tutta la sua luce, Iddio respinge duramente da sé la grandezza e la

passione dell’uomo, per travolgerle con impeto d’uragano nell’abisso del nulla.” (M. Rossi)Per un cristiano non c’è evento, per

quanto doloroso o ingiusto appaia, in cui non rifulga la razionalità del divino: razionalità che guida e giudica quella degli

uomini e nella quale occorre credere, prima di poterla interrogare. Ulisse non ha questa fede. Crudelmente enigmatico, nodo che

la ragione non sa sciogliere, «bruno» come il purgatorio intravisto sulle soglie della morte, Dio appare ad Ulisse una forza

destituita di qualsiasi significato, oceano inconsapevole che turbina e semina morte per poi placarsi in una inerzia remota da

ogni dolore (infin che ‘I mar fu sopra noi richiuso), arbitrio che opprime, attraverso la distruzione della vita, l’insorgere

nella coscienza del richiamo del dovere (seguir virtute e canoscenza). Nella dedizione a questo dovere ogni barriera che

opponga l’uomo all’uomo, chiudendolo nei termini aridi del suo sopravvivere animale (il prosperare dei bruti), si rivela

fallace, indegna di esistere: la cortesia e il rispetto (o frati… non vogliate…) contraddistinguono l’orazion picciola che

l’eroe rivolge ai vecchi marinai nel momento in cui sta per decidersi il loro destino. Ulisse costata il reciso, brutale

divieto opposto da « qualcuno » – essere senza nome né volto né anima – all’ardore di conoscenza che lo ha portato lontano da

Circe, dal riposo negli itinerari noti, dal consenso di affetti che rende sopportabile il tempo che conduce alla morte, senza

mai scorgere in questo « qualcuno » Dio, in questo essere la fonte di ogni essere, in quella che può apparire crudeltà una

sapienza e una carità insondabili. Proprio perché Dio è, nelle parole di Ulisse, ignorato in quanto tale, nessun accento di

sfida intorbida la semplicità del suo dire (quale contrasto fra il pudore del suo resoconto e il turgido proporsi della

superbia in Capaneo, adulatrice di se stessa, interpretante se stessa s’il piano compiacente delle ipotesi!), impaziente, fin

dal le prime parole, di consumarsi in epilogo implacabile, sdegnoso dell’indugio nell’inessenziale (tappe di un itinerario

etico, i luoghi visitati dalla compagna picciola non propongono al navigatore il tema delle lusinghe e della curiosità

vagabonda) In una penetrante analisi di quest’episodio M. Rossi scrive che nella Commedia “dove l’offesa a Dio è anche sentita,

insieme, come offesa alla propria umana dignità… la voce della coscienza e la voce di Dio paiono levarsi insieme concordi,

come un’unica voce, alla condanna dal cuore del colpevole… Ma qui Dio è nella coscienza solo come imperscrutabile ed

inattingibile da essa, ed è sentito dallo spirito non… nella infinita ricchezza spirituale del concetto di assoluto, nel

quale lo spirito finito conquista la sua verità e la sua pace… Qui il Dio della speculazione cristiana sembra assumere per un

istante innanzi allo spirito del Poeta la cupa e chiusa terribilità del Fato». Queste osservazioni appaiono giustissime, ove si

prescinda dal fatto che ogni episodio della Commedia tende a risolversi entro una prospettiva simbolica o più precisamente,

secondo la definizione proposta dall’Auerbach, «figurale», nel cui ambito ogni dubbio o inquietudine in materia di fede si

definisce e si placa.

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