John Langshaw Austin - Studentville

John Langshaw Austin

Pensiero e vita.

John Langshaw Austin nasce a Lancaster il 26 marzo 1911. I suoi interessi vanno dalle ricerche di analisi linguistica a quelle sul pensiero antico. Si ò dedicato prevalentemente all’insegnamento al Christ Church College dell’Università  di Oxford dal 1952 fino alla morte, sopraggiunta prematuramente l’8 febbraio 1960. La sua filosofia si inserisce nella tradizione dell’analisi del linguaggio ordinario, prevalente a Oxford e Cambridge tra gli anni ’40 e gli anni ’50. Fondamentali sono le sue ricerche sui cosiddetti ” speech acts ” (“atti linguistici”), esposte in lezioni tenute tra il 1951 e il 1955, pubblicate poi con il titolo ” How to do Things with Words ” ( ” Come fare cose con le parole “), dove viene introdotta la nozione di “enunciato performativo”. La teoria degli atti linguistici (distinti in locutori, illocutori e perlocutori a seconda che l’enunciato sia descrittivo, esprima un’intenzione o un’azione del parlante o infine un’emozione, preghiera o persuasione) fa di Austin uno dei più fini analisti del linguaggio ordinario. Nel saggio ” Altre menti ” (1946) critica la concezione della conoscenza come stato interno del soggetto. In vita pubblicò soltanto articoli, ora raccolti in ” Saggi Filosofici ” (1961), intraduzione italiana di Guerini e associati, Milano 1990. Postumi sono stati pubblicati da colleghi e allievi alcuni importanti corsi e manoscritti: ” Senso e sensibilia “, da un corso del 1947, pubblicato nel 1964 da Warnock, traduzione italiana Lerici, Roma 1968; ” Come fare cose con le parole “, da un corso del 1955, pubblicato nel 1964 da Urmson, traduzione italiana Marietti, Genova 1987. Austin ò originale rappresentante della filosofia analitica, indirizzo di pensiero che si richiama a Moore e alla seconda fase del pensiero di Wittgenstein, ma anche a Russell e a Frege. I suoi principali esponenti fanno capo alle università  inglesi di Cambridge e Oxford e a quella di Harvard, negli Stati Uniti. L’analisi a cui fa riferimento la filosofia analitica ha avuto una pluralità  di significati. Quello prevalente ha identificato la filosofia con una sistematica e minuziosa analisi del linguaggio, volta, da un lato, ad esaminare i problemi posti dal linguaggio, con gli errori e i fraintendimenti che esso comporta, e, dall’altro, a individuare e a risolvere problemi chiarendo il significato delle proposizioni adottate. Anche se continueranno ad esservi sostenitori della necessità  di costruire un “linguaggio perfetto” (i Costruttivisti), la filosofia analitica ha, in larga misura, abbandonato il presupposto dell’assolutezza del linguaggio ideale e della messa in discussione del linguaggio ordinario in nome di un linguaggio ritenuto rigoroso e scientifico. La filosofia analitica svolge soprattutto un’opera di ricerca e di chiarificazione concettuale e linguistica con la quale studia non solo il linguaggio scientifico, ma anche il linguaggio comune tanto da venire designata anche come “filosofia del linguaggio ordinario”. Intende il significato dei termini non come corrispondenza fra essi ed elementi della realtà  (come aveva sostenuto il primo Wittgenstein), ma in riferimento al loro uso e alla correttezza di tale uso rispetto alle regole prescritte dal sistema linguistico di cui essi fanno parte. L’analisi logico-linguistica viene intesa come opera di chiarificazione concettuale volta a risolvere problemi. Se ne mette, perciò, in rilievo la funzione euristica, cioò la capacità  di trovare soluzioni ai problemi teorici ma si punta anche a ricostruire una “geografia dei concetti” del nostro pensiero. Vi ò una costante attenzione verso i più disparati tipi di linguaggio, verso le concrete forme d’uso dei linguaggi, piuttosto che verso i loro princìpi logico-formali. Di qui anche l’interesse per una grande varietà  di discipline, per i loro linguaggi e significati: dall’etica alla politica, dalla psicologia alla matematica, alla storiografia, alla religione. La filosofia analitica esprime anche un interesse positivo per l’uso linguistico dei termini nelle proposizioni della metafisica che non vengono trattate come pseudo-proposizioni, cioò proposizioni prive di senso (come aveva fatto, ad esempio, Carnap) ma solo studiate con lo scopo di comprendere quel particolare “gioco linguistico”, lo specifico uso dei termini e delle proposizioni che esso adotta e che ò determinato dalle regole interne al gioco stesso. Austin insieme a Ryle domina la scena intellettuale di Oxford nel secondo dopoguerra. In lui l’appello al linguaggio ordinario acquista maggior peso. Il linguaggio ordinario va preso in massima considerazione perchè ò “ricco” e quindi può costituire un utile strumento di analisi e paragone per il filosofo che lavora in aree “filosoficamente calde” e che si sono sviluppate magari sotto il segno della super-semplificazione. Austin assume il linguaggio ordinario come oggetto privilegiato dell’analisi filosofica, ponendosi il compito di fare una specie di inventario delle più comuni espressioni che vi sono usate. Il linguaggio ordinario costituisce un oggetto di studio molto più ricco e significativo di quelli offerti dai saperi altamente formalizzati. Mentre, infatti, i filosofi studiano concetti astratti e perciò generalissimi e semplificatori, gli analisti devono concentrarsi sui concetti del linguaggio ordinario, in quanto ricchi di sfumature e di una vasta gamma di significati che solitamente vengono trascurati dal filosofo tradizionale. Per Austin bisogna dedicarsi all’analisi linguistica in filosofia, perchè le parole, che sono uno strumento per noi importantissimo, non ci inducano in inganno. Occorre fare attenzione, dunque, alle ” trappole che il linguaggio ci prepara “, perchè il mondo delle parole ò caratterizzato da arbitrarietà  e da inadeguatezza rispetto al mondo delle cose. L’analisi del linguaggio, delle parole, delle loro definizioni, delle loro etimologie, ò un lavoro preliminare essenziale per impostare bene le questioni teoriche e avviarne la soluzione. Il filosofo inglese non considera questo lavoro sul linguaggio come sostitutivo e alternativo rispetto ad altri metodi filosofici, ma come un’attività  preliminare all’indagine filosofica e, più in generale, a quella teorica. Naturalmente, fa presente Austin, quest’appello al linguaggio comune non ò l’ultima parola in filosofia; ma, si noti, essa ò la prima. Scrive Austin in ” Una difesa per le scuse ” (1956): ” noi adoperiamo una raffinata consapevolezza dei termini per affinare la nostra percezione dei fenomeni “. In ” Come far cose con parole ” (1962) esamina quelle espressioni (enunciati performativi) con le quali noi non tanto parliamo di cose quanto piuttosto facciamo cose. Filosofi del linguaggio ordinario, nel senso prima precisato, i filosofi di Oxford hanno prestato particolarmente attenzione al linguaggio: etico-giuridico ( ” Il linguaggio della morale ” di Hare; ” Filosofia morale contemporanea ” di Warnock); storiografico (Gardiner, ” La natura della spiegazione storica “; Dray, ” Leggi e spiegazione in storia “; religioso (Flew, Hare, Hich, Mitchell); metafisico (Strawson, Hare, Hampshire, Waismann). Austin ò noto come l’autore della teoria degli atti linguistici. Più che l’aspetto descrittivo del linguaggio, a cui la filosofia ha dato molto spazio, essenziale ò lo studio delle funzioni, cioò degli usi linguistici. Ogni parola o proposizione ha, infatti, più usi, ciascuno dei quali va considerato distintamente. La tesi di Austin ò che si debba evidenziare non solo il carattere descrittivo del linguaggio, ma anche quello operativo. Egli parla, quindi, della necessità  di valorizzare adeguatamente la funzione di prestazione (“performance”) del linguaggio, quella, cioò, nella quale esso si configura come un fare, legato all’azione, all’esecuzione di atti. Austin distingue, così, gli “enunciati constativi” dagli “enunciati performativi” o operativi: gli enunciati constativi constatano dei fatti e come tali li descrivono; gli enunciati performativi compiono azioni e, in tal modo, tendono a realizzare modifiche nella situazione esistente. I primi possono essere veri o falsi, i secondi possono essere efficaci o inefficaci, cioò avere o non avere successo, realizzarsi o meno, senza che ci si debba chiedere se siano veri o falsi. Essi non descrivono un evento o un’azione, ma servono proprio a compiere quell’azione. Successivamente, Austin accantona tale distinzione e sviluppa la tesi della funzione operativa, attiva, del linguaggio mediante una teoria degli atti linguistici, secondo la quale ogni espressione linguistica ò un atto: anche l’enunciato ritenuto constativo ò un’azione (ad esempio, dire “domani vado a…” equivale a un impegno, a un atto, ò enunciazione performativa e non solo indicativa e descrittiva). Così, egli distingue tre possibili e distinti aspetti di un atto linguistico, entro i quali classifica gli enunciati inizialmente descritti come constativi e performativi: l’ atto locativo ò quello con cui si dice qualcosa dotato di significato (ad esempio, “quella porta ò aperta”) e può essere studiato dal punto di vista fonetico, lessicale o grammaticale; l’ atto illocutivo ò un atto effettuato col dire qualcosa: esso, oltre a informare, constatando una data realtà  (ad esempio, il fatto che quella porta sia effettivamente aperta), può contenere un’esclamazione, una preghiera o un suggerimento (ad esempio, l’invito a chiudere quella porta aperta). L’atto illocutivo ha quindi una forza collegata alla reale intenzione di chi compie quell’atto linguistico. L’ atto perlocutivo ò l’atto compiuto per il fatto di dire qualcosa: quello per cui si raccoglie il suggerimento (o comando, invito, ecc. ) implicito in quell’atto “illocutorio” e si esegue ciò che viene suggerito (si chiude, cioò, la porta). Mette in evidenza l’interattività  costitutiva del linguaggio, cioò gli effetti sugli interlocutori che l’atto linguistico determina. Queste distinzioni sono ormai patrimonio comune della Filosofia analitica, così come lo ò il senso del suo appello al linguaggio ordinario e la visione della finalità  dell’analisi.

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  • Filosofia - 1900

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