Grandissima risonanza internazionale ha avuto l’opera del filosofo e sociologo ungherese Karl Mannheim (1893-1947). Formatosi intellettualmente in Germania, Mannheim ha tratto i princìpi fondamentali della sua riflessione dalla tradizione storicistica tedesca. Ad essa egli deve soprattutto il distanziamento della concezione fattualistica e oggettivistica del sapere elaborata dai positivisti, l’attenzione per la specificità dei fenomeni umani e sociali, e ancor più una forte sensibilità per la storicità dei criteri e valori che guidano l’agire dell’uomo. E’ per esaminare i motori e le condizioni di tale dinamismo storico che egli si ò consacrato a quella che ha chiamato la ” sociologia del sapere “, (o “sociologia della conoscenza”); un’espressione che oggi designa una branca assai importante della scienza sociologica, ma che per lo studioso ungherese esprimeva qualcosa di molto di più vasto e coinvolgente. In effetti dietro l’elaborazione della sociologia del sapere pulsa una problematica estremamente complessa: Mannheim avverte acutamente di vivere in un’età di profonda crisi spirituale, sociale e politica. In sede teorica, tale crisi si esprime tra l’altro nel definitivo superamento delle grandi concezioni idealistiche della realtà prodotte dalla filosofia ottocentesca. Il pensiero più aggiornato ha mostrato che credenze e valori si formano e trasformano non per effetto di un Logos astratto ma ad opera di uomini concreti, situati in un concreto contesto storico-sociale. Se questo ò vero, solo una “sociologia del sapere” ò in grado di analizzare efficacemente tali credenze e valori: solo essa, infatti, ò in grado di cogliere cause e ragioni pratico-sociali della genesi, dello sviluppo e dell’eventuale scomparsa delle elaborazioni intellettuali e dei principi guida dell’agire umano. Non a caso tale sociologia ha cominciato a dimostrare sul terreno empirico che le concezioni anche più astratte si rapportano regolarmente a interessi e bisogni socialmente determinati. Sul piano teorico, ciò porta ad affermare che il compito primario di un’analisi scientifica dell’universo umano ò quello di accertare le relazioni intercorrenti tra le ‘idee’ e ‘fatti’, tra ‘conoscenze’ e ‘interessi’. Fin dall’inizio Mannheim fu accusato di relativismo. Sembrava in effetti difficile interpretare diversamente la sua teorizzazione non tanto della non-assolutezza dei princìpi intellettuali e morali, quanto della loro irriducibile molteplicità , della loro coincidenza con prospettive, in senso lato, soggettive (di individui e/o di gruppi sociali) e della loro dipendenza da mutevoli e controversi interessi pratici. La prima risposta di Mannheim ò che si può e si deve operare una netta distinzione tra relativismo e “relazionismo”. Se col primo termine si intende l’assenza di criteri controllabili di verifica in sede cognitiva ed etica, allora la sociologia del sapere non ò relativistica. Essa afferma infatti non già l’inesistenza dei criteri di cui sopra abbiamo detto, bensì che essi non sono assoluti in quanto si danno solo (ecco il “relazionismo”) in rapporto a determinati indici: ” Come il fatto che ogni misura nello spazio dipende dalla natura della luce non significa che le nostre misure siano arbitrarie, quanto piuttosto che sono valide in relazione alla luce, così ò il relazionismo, e non giù il relativismo e l’arbitrarietà in esso implicita, che si applica alle nostre discussioni. Il relazionismo non significa che manchino criteri di unità nella discussione. Secondo esso, tuttavia, ò proprio della natura di certe affermazioni il non poter venir formulate in assoluto, ma solo in termini della prospettiva posta da una determinata situazione. ” La seconda risposta mannheimiana al problema del relativismo si connette alla natura e alle possibilità della stessa sociologia del sapere. Per lo studioso ungherese, mentre ò innegabile che le varie concezioni e dottrine umane sono ancorate a “prospettive” parziali, la sociologia del sapere ha la capacità di trascendere gradualmente, cogliendo connessioni e realizzando integrazioni sempre più ampie e oggettive. Essa si avvale infatti di un livello di consapevolezza interpretativa e di un apparato analitico e di controllo i quale le consentono di raggiungere un orizzonte non più definibile e in termini relativistici. Il compito di elaborare questa crescente integrazione in qualche modo anti-relativista ò affidato da Mannheim agli intellettuali. Per quanto situati anch’essi entro un orizzonte storico-sociale determinato, gli intellettuali appaiono al nostro autore più autonomi degli altri uomini da “punti di vista” di parte. E’ insomma all’ intellighentsia e alla sua consapevolezza filosofico-sociologica che Mannheim affida la possibilità del pensiero e della stessa società di sfuggire alle insidie del relativismo. Idealmente congiunta a tale prospettiva ò anche la riflessione sociologico-politica dell’ultimo Mannheim, consegnata soprattutto ai volumi Uomo e società in un’età di ricostruzione (1940) e Diagnosi del nostro tempo (1944). Essa ò centrata sull’importante concetto di ” pianificazione “, ossia sulla possibilità /necessità dello stato di organizzare in modo meta-individuale e coordinato tutte le strategie indispensabili per fronteggiare le spinte disgregatrici operanti nella società contemporanea. Se nella pianificazione Mannheim vedeva la valorizzazione delle più diverse competenze scientifico-razionali (quasi l’azione del superiore “punto di vista” della Ragione), d’altro lato non se ne nascondeva certe possibili implicazioni autoritarie. E’ anche per questo che nelle opere citate sopra egli insisterà sull’assoluta centralità della prospettiva e dei valori democratici nel processo di “ricostruzione” del sistema socio-politico. Nel corso della sua riflessione Mannheim ha molto approfondito alcuni concetti destinati ad assumere un particolare rilievo nella sociologia contemporanea. Quello più significativo ò il concetto di ideologia, esaminato nel celebre volume Ideologia e utopia (1929). Nell’analizzarlo, lo studioso ungherese riattualizza e sviluppa una precisa tradizione intellettuale: il pensiero baconiano e la teoria degli “idola” della coscienza (ossia degli errori che ostacolano il retto sapere), il pensiero illuministico e il suo proposito di denunciare i pregiudizi che velano la comprensione della realtà , e soprattutto il pensiero marxiano e il suo assunto che la visione borghese del mondo ò “mistificata” per effetto di precisi interessi di classe. La differenza tra questa tradizione e Mannheim ò che mentre per Bacone, per gli illuministi e per Marx certe idee e certe credenze sono oggettivamente false (e c’ò un punto di vista in qualche modo assoluto dal quale emettere tal e giudizio), per Mannheim la questione ò più complessa. Da un lato, determinate elaborazioni ideali sono effettivamente erronee – e sono tali perchè prodotte da fattori (spesso inconsci) i quali “nascondono” lo “stato reale” delle cose; dall’altro, l’erroneità di cui sopra ò il prodotto non banalmente irrazionale e superficiale dei giudizi formulati da certi uomini e/o gruppi sociali. Correlativamente l’ambizione di Mannheim ò di studiare tali giudizi (ossia le “ideologie”), con una particolare attenzione per la dimensione, in senso lato, mentale-soggettiva della loro genesi e della loro azione. A questo proposito egli offre alcuni preziosi contributi teorici per realizzare tale indagine. Assai nota ò in particolare, la sua distinzione tra “ideologia particolare” e “ideologia generale”. La prima si riferisce alle idee e alle credenze di un singolo individuo. In questo caso, quando parliamo di ideologia intendiamo sottolineare soprattutto la natura menzognera e fuorviante di certe concezioni soggettive, nonchè le deformazioni che una certa persona produce della realtà effettiva. Le idee di tale persona ” sono allora considerate come delle contraffazioni più o meno deliberate di una situazione reale [â¦]. Queste deformazioni si manifestano sotto forma di menzogne consapevoli o semicoscienti, di inganni calcolati verso gli altri, o di autoillusioni “. L’analisi di tali idee implica il coglimento di certe falsità essenzialmente nella sfera psicologica, interiore, talvolta perfino inconscia. Coloro che si arrestano a tale livello compiono però un errore: un errore, spiega Mannheim, connesso alla mancata percezione che la produzione delle idee non ò mai un fatto esclusivamente individuale: c’ò sempre una componente o matrice sociale. Orbene, il concetto di “ideologia generale” allude appunto a questa nuova e più ampia dimensione. Essa si configura come l’insieme delle idee e delle credenze elaborate non da un singolo individuo ma da un intero gruppo (o ceto, o classe), e/o una determinata era. E’ così che si usa (non a torto) parlare di un’ideologia dei proprietari terrieri, o della borghesia, o dell’illuminismo. Anche se l’esame dell’ “ideologia particolare” non ò privo di una sua specificità , ò chiaro che Mannheim privilegia quello della “ideologia generale”: lo studio in grado di pervenire alle radici più profonde e rilevanti di determinate idee e credenze ò quello che ne coglie le scaturigini sociali e storiche. Si inserisce idealmente qui la caratterizzazione di vari altri concetti, a cominciare da quello di ” falsa coscienza “: un’espressione destinata a una grande fortuna in seno a una certa sociologia novecentesca, “deformazione” della realtà (sia oggettiva che soggettiva) prodotto da un determinato insieme di condizioni e di interessi sociali introiettato nella mentalità individuale o collettiva. Molta attenzione Mannheim ha prestato anche, nel volume ricordato sopra, al concetto di utopia. Coniato nel secolo XVI da Tommaso Moro, sia nell’età rinascimentale che in quella illuministica questo termine/concetto aveva in genere serbato un significato positivo: indicava, in sostanza, una situazione o un insieme di valori non esistenti nella realtà presente ed effettuale ma considerati validi e realizzabili in un ‘altro’ spazio o luogo. Nel secolo XIX, mentre Fourier e un Saint-Simon avevano in qualche misura ripreso questa accezione dell’utopia, le componenti egemoni del pensiero europeo avevano in genere connotato in modo assai negativo tale ‘figura’ teorica. Ora, invece, Mannheim assume nei confronti del pensiero utopico un atteggiamento per molti versi nuovo. Da un lato egli riconosce che gli utopisti sono individui e gruppi scarsamente ‘concreti’, poco rispettosi della realtà effettuale e in genere incapaci di “diagnosi corrette” relativamente al mondo in cui vivono. Dall’altro, però, sottolinea che il loro proiettarsi verso situazioni o idealità nuove ha una considerevole valenza positiva. In effetti, mentre il pensiero ‘ideologico’ ò essenzialmente quello dei “gruppi dominanti”, che tendono a nascondere lo stato reale della società allo scopo di mantenerlo così com’ò (e pertanto ” esercitano su di esso una funzione conservatrice “), il pensiero “utopico” assume un atteggiamento risolutamente critico nei confronti di tale società e tende a elaborare una nuova “direttiva” per un’azione trasformatrice della realtà . L’utopia si configura così come una realtà che non c’ò ma che può essere realizzata: una verità forse prematura ma ricca di un suo irriducibile valore, alla quale mette conto tendere fin d’ora. Delle principali utopie della storia d’occidente Mannheim esamina alcuni esempi concreti: la prospettiva chiliastica degli anabbattisti, il liberalismo/umanitarismo settecentesco, il socialismo/comunismo del secolo successivo. Di maggiore rilievo ò però la vigorosa difesa finale dello spirito utopico nel mondo contemporaneo. Mannheim conosce bene le cause, anche assai fondate, che hanno condotto la moderna civiltà d’Occidente a diffidare dei movimenti utopici, così spesso emotivi e ‘irrazionali’, ma ò anche convinto che la passionalità e la fede degli utopisti sono dei valori da non perdere: soprattutto in un’epoca caratterizzata dal crescente successo di una mentalità “prosaica”, razionalistica nel senso più ristretto del termine, privilegiante il mero funzionamento meccanico dell’esistente. Di qui il vivo elogio mannheimiano della dimensione intellettuale dell’utopia: la sola in grado di rilanciare quella tensione spirituale (trasformatrice ed emancipatrice della realtà ) che appare oggi più che mai indispensabile: ” La completa sparizione dell’elemento utopico del pensiero e della prassi dell’individuo verrebbe a dare alla natura e allo sviluppo dell’uomo un carattere radicalmente nuovo. La scomparsa dell’utopia porta a una condizione statica in cui l’uomo non ò più che una cosa. Ci troveremmo allora dinanzi al più grande paradosso immaginabile: al paradosso, cioò, che l’individuo proprio in quanto ha conseguito il massimo livello di razionalità nel controllo della realtà , resta senza ideali e diviene una pura creatura impulsiva. “
- 1900
- Filosofia - 1900