Karl Otto Apel - Studentville

Karl Otto Apel

Pensiero e vita del filosofo.

Vita Nato a Dà¼sseldorf nel 1922, Karl Otto Apel si laurea nel 1950 a Bonn. Nel 1960 consegue il dottorato in filosofia all’Università  di Mainz. Come professore ordinario insegna nelle Università  di Kiel (1962-69), Saarbrà¼cken (1969-72) e presso la Goethe-Università¤t di Francoforte (1972-90), di cui ò professore emerito. Ha tenuto lezioni al Collòge International de Philosophie di Parigi, di cui ò membro titolare dal 1972, al Centro de Investigationes Eticas di Buenos Aires, negli Stati Uniti (Center for the Humanities, Wesleyan University; Purdue University, West Lafayette; New School for Social Research, New York; Yale University, New York) e in Italia (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli; Università  di Roma). Ha ricevuto il Premio Internazionale Galileo Galilei del Rotary Club Italiano (1988) e il Premio Internazionale di Filosofia Federico Nietzsche (1989). Opere Transformation der Philosophie, Bd. 1. Sprachanalytik, Semiotik, Hermeneutik, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1973, Bd. 2. Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft, ibid. 1976, trad. it. parz., Comunità  e comunicazione, Torino, 1977; Der Denkweg von Charles Sanders Peirce. Eine Einfà¼hrung in den amerikanischen Pragmatismus, Frankfurt /M., 1975; traduzione e introduzione a Ch. S. Peirce, Zur Entstehung des Pragmatismus, Frankfurt /M., 1967 e ID. Vom Pragmatismus zum Pragmatizismus, ibidem, 1970; Sprachpragmatik und Philosophie, Frankfurt /M., 1976; Neue Versuche à¼ber Erklà¤ren und Verstehen, Frankfurt /M., 1978; Die Erklà¤ren-Verstehen Kontroverse in transzendental-pragmatischer Sicht, Suhrkamp, Frankfurt /M., 1979; Praktische Philosophie- Ethik I. Reader zum Funk-Kolleg, Frankfurt /M., 1980; Funk-kolleg Praktische Philosophie-Ethik: Dialoge, 2 voll., Frankfurt /M., 1984; Funk-Kolleg Praktische Philosophie-Ethik: Studientexte, 3 voll., Basel, 1984; Diskurs und Verantwortung. Das Problem des àœbergangs zur postkonventionellen Moral, Suhrkamp, Frankfurt /M., 1988; Il logos distintivo della lingua umana, Napoli, 1989; Zur Rekonstruktion der praktischen Philosophie, Gedenkschrift fà¼r Karl-Heinz Ilting, Frommann-Holzboog, Stuttgart, 1990; Penser avec Habermas contre Habermas, Paris, 1990; Verità  e comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 1992; Per una ermeneutica critica, Torino, 1992; Zur Anwendung der Diskursethik in Politik, Recht und Wissenschaft, Suhrkamp, Frankfurt /M., 1992. Pensiero Al centro della riflessione di Apel c’ò la “trasformazione semiotica del kantismo”: l’a priori kantiano, quale orizzonte trascendentale di senso e luogo di costituzione dell’esperienza, non va inteso come struttura della mente, ma come linguaggio. Questo, però, non si esaurisce nelle varie lingue storiche, ma può funzionare perchè sottende un a priori che ò la comunità  dialogica dei soggetti parlanti. Esso si mostra nel fatto che nessuno può usare un linguaggio e fare esperienza senza sottostare alle regole sociali della comunicazione. La proposta di Apel, però, assume una precisa connotazione etica: poichè la comunicazione ò spesso impedita da fatti psicologici, ideologici e sociali, si tratta di ampliarla il più possibile con strumenti politici, con la critica dell’ideologia sviluppata dalla Scuola di Francoforte e da Habermas o con la psicoanalisi. Autore di saggi raccolti in Trasformazioni della filosofia (1973) e in Discorso di responsabilità  (1988). Secondo Apel, si tratta di pervenire ad una fondazione universale e razionale dell’agire partendo dall’analisi del linguaggio. In questo senso, egli tenta di coniugare la prospettiva trascendentale, propria della tradizione kantiana, con la cosiddetta svolta linguistica. Secondo Apel, chi parla avanza sempre di fatto pretese di comprensibilità  (sulla base della correttezza grammaticale), di verità  (in base ad un corretto rapporto semantico tra ciò che si dice e la realtà ), di veridicità  (come espressione linguistica non distorta di quello che ò lo stato interno del parlante) e di giustezza (ossia di adeguamento alle norme della comunità  dei parlanti). Queste pretese non possono non essere avanzate, se non altro, implicitamente, in qualunque atto linguistico: infatti, se non fossero avanzate, il parlante cadrebbe in quella che Apel chiama un’autocontraddizione pragmatica o performativa. Tale ò, per esempio, il caso di uno che affermi: “dico che io non esisto”, questo enunciato produce una contraddizione pragmatica, in quanto il contenuto proposizionale di esso (“io non esisto”) contraddice l’atto stesso del dire. Infatti come sarebbe possibile che qualcuno parli senza esistere? L’insieme delle pretese, avanzate in ogni atto linguistico, forniscono dunque, secondo Apel, le condizioni formali minime per garantire, da punto di vista procedurale la comunicazione ideale. Tale comunicazione non ò realizzata di fatto, ma funziona da principio regolativo delle comunicazioni che avvengono realmente: il rispetto di esso garantisce l’imparzialità  della discussione e il raggiungimento di un’intesa e un consenso universali. Infatti, sono validi i princìpi e le norme dell’agire che vengono riconosciuti da chi argomenta in modo imparziale, ossia libero da interessi particolari. L’etica fondata su questi princìpi ò pertanto valida per tutti gli esseri razionali, ma ha un carattere meramente formale, in quanto non descrive quali siano i contenuti della felicità , ma individua soltanto le condizioni formali per realizzare di comune intesa, in modo pacifico, i contenuti di una vita felice. Dante e Vico Karl Otto Apel si ò accostato alla storia del pensiero italiano per ragioni non puramente erudite o storiografiche, ricostruendo la linea di sviluppo della “idea” di lingua da Dante a Vico. Si tratta, come sottolinea Apel stesso, di una prospettiva che comporta l’abbandono o, almeno, la fuoriuscita da quadri storiografici lungamente invalsi e che hanno incentrato l’interesse sulle grandi problematiche ontologiche e gnoseologiche, relegando il linguaggio in una posizione settoriale – come del resto ò accaduto anche nella filosofia classica tedesca. Ma così non può e non deve più essere dopo l’imponente “svolta linguistica” del nostro secolo che risulta sempre più determinante nel quadro complessivo della discussione filosofica, dal neopositivismo alla filosofia analitica, allo strutturalismo, su su fino all’ontologia e filosofia ermeneutica. Quella che viene messa in questione ò la grande tradizione moderna tanto nel suo versante nominalistico, quanto in quello razionalistico e secondo il quale il linguaggio si riduce a un sistema di segni operativi sia pur nella molteplicità  di varianti e di motivazioni di questa impostazione. Nè d’altra parte, rispetto a questa concezione, si può considerare come alternativa adeguata e convincente la filosofia del linguaggio di carattere mistico- rivelativo che risale a Eckhart e a Bà¶hme e che pure ha fatto sentire la sua presenza negli sviluppi della filosofia del linguaggio tra Sette ed Ottocento specialmente in Germania. L’unica ed autentica mediazione ò invece rappresentata dalla tradizione umanistica del pensiero italiano che ha saputo raccogliere e sviluppare il nucleo centrale e vitale della filosofia del linguaggio classica o, se si preferisce, dell’accentuazione ciceroniana del momento dell’invenzione rispetto a quello del giudizio, sciogliendolo però dall’universalismo del latino a cui per secoli ò apparso inscindibilmente collegato. Di qui la rilevanza dell’opera di Dante nel De vulgari eloquentia come scoperta ed affermazione della lingua nazionale o lingua materna; ma una scoperta che, a differenza di quanto ò avvenuto nella grecità , non ò più sincronica al formarsi del sapere filosofico, alla scoperta del logos, bensì si realizza in tensione rispetto a una cultura derivata e consolidatasi nell’orizzonte delle lingue classiche. Nella complessa traiettoria storica e teorica dell’idea di lingua che da Dante, attraverso umanesimo, rinascimento e barocco, giunge a Vico, spetta un posto centrale e cruciale proprio all’opera che, per un lato mette in luce retrospettivamente le potenzialità  innovatrici di tale traiettoria e, per l’altro, come Apel sottolinea ripetutamente, presenta motivi di attualità  rispetto al nostro tempo. Più esattamente, la posizione di Vico rappresenta la consapevolezza e la valorizzazione di momenti insopprimibili, fondamentali, ed in questo senso “trascendentali” della originaria inventività  della lingua che per troppo tempo sono stati soffocati o emarginati da una concezione puramente “operativa” del linguaggio, le cui propaggini del resto non mancano di operare anche nella filosofia del Novecento. L’importante ò comunque che Vico non deve essere appiattito o risolto in una generica rivalutazione di elementi antiilluministici o preromantici; al contrario, si tratta di cogliere la peculiarità  (ed attualità ) della sua concezione della lingua distinguendola nettamente dalle concezioni lirico- idilliache della lingua originaria come da qualsiasi riduzione del concetto umanistico di lingua al piano puramente estetico- pedagogico. La peculiarità  di Vico ò di aver dischiuso, con la scoperta dell’universale fantastico, quell’orizzonte di comprensione dell’originario mondo mitico del logos arcaico che ò intrinsecamente comunicativo e socializzante poichè si incardina sulla simpatia dell’uomo con l’ambiente e realizza così un tessuto ermeneutico anteriore alla distanza segnata e richiesta dai processi intellettivi e matematizzanti; un tessuto costituito non soltanto da suoni, ma da gesti, da comportamenti rituali e formalizzanti, come si può constatare in molti casi del rituale giuridico religioso. Volendo cercare affinità  storiche non ò a Herder che si deve guardare, quanto piuttosto a Hà¶lderlin con la sua sensibilità  per il carattere mitopoietico della lingua, così come va sottolineato che Vico nella sua concezione della originarietà  della lingua attinge a dimensioni anteriori e diverse da quelle rappresentate dalla tradizione biblica; in questo senso, anzi, per la sua stessa concezione delle età  della lingua e dell’uomo ò essenziale la consapevolezza della distinzione tra storia salvifica e storia profana, pur nel quadro di una visione provvidenzialistica complessiva. Vico dunque non si limita a riprendere, ma radicalizza e porta ad una svolta la tradizione umanistica del primato della topica, la concezione della metafora come chiave della comprensione poetica originaria del mondo, e questo non tanto negli scritti precedenti quanto nella Scienza Nuova dove si ha il superamento della concezione umanistica, in quanto la sapienza poetica originaria viene del tutto sciolta da qualsiasi connessione con le concezioni tradizionali di un semplice adombramento o ornamento di un sapere presupposto e dalla commistione con elementi mistici platonici o cristiani Per questo si può considerare “trascendentale” ed attuale la concezione vichiana che condivide con il soggettivismo moderno l’affrancamento dallo stampo del latino medievale, ma non si chiude nel soggettivismo delle correnti predominanti nel pensiero moderno, bensì risale alle dimensioni intersoggettive della comunicazione linguistica e della sua istituzionalizzazione letteraria. Un trascendentale pertanto che non si contrappone affatto alla storicità  interna del pensiero e del linguaggio, ma, al contrario, la rivendica ed evidenzia con la dottrina della circolarità  tra filosofia e filologia e con la concreta lettura della tipologia ideale della storia dello spirito attraverso l’interpretazione della storia del linguaggio nella sua funzione non settoriale, ma fondativa rispetto al profilarsi delle diverse fasi e figure non solo della comunicazione, ma dell’intero costume e pensiero dell’uomo. La concezione della verità  nella metafisica Poichè quello della verità  è uno dei problemi centrali della riflessione filosofica, Karl Otto Apel ritiene che si possano individuare nella storia del pensiero tre epoche diverse, in relazione a tre diversi paradigmi di verità : la verità  come corrispondenza o adeguazione di conoscenza e mondo, la verità  come certezza soggettiva della coscienza e, infine, la verità  come corrispondenza di ordine semantico. Della dottrina della verità  come “adaequatio” Apel rintraccia la fondazione in Aristotele e lo sviluppo consapevole in Tommaso d’Aquino. Due sono le difficoltà  che ne hanno reso necessario l’abbandono: l’impossibilità  di individuare come qualcosa di osservabile la differenza tra vero e falso e l’impossibilità  da parte del soggetto conoscente di porsi in un terzo luogo, diverso dal soggetto e dall’oggetto, per coglierne la relazione di corrispondenza. Il secondo paradigma, prospettando la verità  come certezza soggettiva, rappresenta, per Apel, la dissoluzione dell’ontologia tradizionale a vantaggio di una indagine gnoseologica. Se Platone rappresenta lo stadio preliminare del primo paradigma di verità  ed elabora la prima dottrina consapevole del giudizio, Aristotele evidenzia una concezione ontologica forte della verità  come corrispondenza. Il secondo modello di verità  ò l’espressione della moderna filosofia della coscienza da Cartesio ad Husserl. Al suo interno Apel distingue una teoria dell’evidenza, una teoria della coerenza e una teoria del verum-factum che da Vico giunge fino a Kant. La verità  da Cartesio a Husserl Nella teoria dell’evidenza – spiega Apel – ciò che conta ò la presenza nella coscienza di dati soggettivi, senza che si possa verificare la loro corrispondenza con dati esterni: vero, in tal senso, ò ciò che, cartesianamente, risulta chiaro e distinto all’io. Il terzo modello di verità , invece, ritiene che non tutto ciò che ò presente alla consapevolezza dell’io risulta vero, ma solo ciò che costruiamo a priori. Secondo Apel, le scienze della natura intrattengono un rapporto privilegiato con la teoria della verità  come corrispondenza, ma ignorano il concetto di verità  che ò in gioco nelle cosiddette “scienze umane”. Secondo Apel, Kant oscilla tra evidenza, coerenza e verità  fattuale, perchè non ò nè un filosofo razionalista, nè un semplice empirista. Per Hegel, invece, la verità  ò la coerenza delle determinazioni all’interno della totalità  dell’Idea. Con la crisi della filosofia teoretica determinata da Nietzsche, dal pragmatismo americano e dai filosofi postmoderni, tra cui Rorty e Feyerabend, entra in crisi anche l’idea di verità , ridotta, tra l’altro, a volontà  di potenza. Husserl, per Apel, ò stato l’ultimo rappresentante classico della filosofia della coscienza ed ha cercato di conciliare nell’idea di intenzionalità  quale certificazione soggettiva di un dato oggettivo la teoria classica della corrispondenza e la teoria moderna dell’evidenza. Eppure, secondo Apel, la constatazione apparentemente pacifica di un dato di fatto presuppone sempre una interpretazione linguistica del mondo. La verità  nella semiotica trascendentale Apel analizza il terzo paradigma delle teorie della verità , quello che prende atto della svolta linguistica operata dalla filosofia analitica. Per illustrare questo nuovo paradigma di verità , Apel istituisce un confronto tra Husserl, l’ultimo esponente della teoria dell’evidenza, e Tarski, il primo e più importante teorico della verità  come coerenza semantica. Per conciliare queste due opposte esigenze e fondare una teoria trascendental-semantica della verità , secondo Apel, si tratta di prendere le mosse da Peirce. Questi, respingendo tutti gli esiti soggettivistici della teoria pragmatistica della verità , ha cercato di rintracciare un contesto a cui sia assicurata una validità  pubblica non di tipo utilitaristico, ma accettata dalla comunità  degli scienziati. Illustrando la teoria della verità  come consenso quale si trova in Peirce e che anticipa la sua teoria trascendental-semeiotica o trascendental-pragmatica, Karl Otto Apel ne rintraccia delle anticipazioni in Aristotele, negli stoici e in Kant. Questo nuovo modello trascendental-semeiotico di verità , per Apel, deve costituire una sintesi tra la teoria della verità  come evidenza soggettiva e la teoria della verità  come coerenza e, soprattutto, deve difendersi dall’accusa di relativismo o da quella di ridurre il vero al consenso fattuale: essa, infatti, secondo Apel, concilia la coerenza dei concetti e l’evidenza dell’esperienza, all’interno di un processo di ricerca che regolativamente si approssima al consenso dei parlanti. Per replicare all’accusa di soggettivismo e relativismo formulata da Hoesle, secondo cui in questo paradigma la verità  verrebbe ridotta ad un accordo, mentre dovrebbe accadere il contrario, Apel fa notare che la verità  non ò un possesso metafisico stabile o definitivo, ma un termine a cui la ricerca tende. Sulla linea di Peirce si colloca l’ “etica del discorso” di Habermas, con la differenza che Apel concepisce le precedenti teorie della verità  come integrabili all’interno del paradigma consensuale. Infatti l’idea kantiana di una sintesi unificatrice della conoscenza può valere solo per il singolo individuo mentre tutto ciò che aspira ad essere vero in termini di coerenza, evidenza od esperimento deve attingere il consenso della comunità  dei ricercatori. La teoria consensuale della verità , secondo Apel, trova applicabilità  in tutte le forme del sapere filosofico e scientifico, anche in quelle conoscenze a priori che, come tali, non dovrebbero aver bisogno del consenso fattuale. Così la stessa teoria filosofica della verità  come consenso deve poter essere vera a priori, prima e indipendentemente da ogni consenso, eppure deve essere sottoposta alla verifica del discorso e della critica. Essa non ha nulla di relativistico, in quanto ammette alcuni principi incontrovertibili, la cui negazione porterebbe ad una contraddizione. Etica della comunicazione Apel illustra la problematica all’interno della quale ha elaborato un'”etica della comunicazione”, di cui ò considerato il fondatore; egli nota come la scienza, da un lato, con le sue applicazioni tecniche, mette in campo questioni morali circa la valutazione delle conseguenze di azioni collettive, dall’altro lato, in quanto sapere avalutativo, esclude una fondazione razionale dell’etica. Nella situazione attuale, secondo Apel, di fronte alle sfide della crisi ecologica ed economica una macroetica che sappia fondare la responsabilità  delle azioni si rende ancora più auspicabile. Se il singolo, oggi, ò impotente di fronte ai problemi dell’umanità  e si impone un’etica del discorso che sappia rendere consapevole la corresponsabilità  degli uomini; se ò necessario organizzare in discorsi le divergenze di opinione, per approssimarsi all’interesse generale e mettere a frutto il sapere degli esperti, diventa decisivo il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, che sottopongono all’attenzione dell’opinione pubblica soluzioni e idee, sviluppando in essa una coscienza critica mondiale. Apel non ignora l’uso distorto e strumentale dei mezzi di informazione, che, tra l’altro, esercitano un’influenza negativa sui paesi del Terzo mondo esaltando la violenza o il consumismo. Oggi la fondazione razionale di una “macroetica” universale ò respinta non dal positivismo e dall’esistenzialismo ma da pensatori che si sono fatti fautori di un’etica particolare e storica, secondo la quale le norme sono sempre criteri storicamente determinati, che si inscrivono in tradizioni e culture particolari. Brani antologici e interviste L’ETICA NELL’EPOCA DELLA SCIENZA Negli anni sessanta scrissi per la prima volta un saggio sull’etica pubblicato più tardi con il titolo “Trasformazione della filosofia”. Il tema era quello della fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza. Il problema per me era che da un lato l’epoca della scienza e della tecnica aveva accresciuto smisuratamente la responsabilità  degli uomini e reso per così dire a portata di mano la necessità  di una nuova etica. Dall’altro, però, la scienza stessa faceva sembrare impossibile una fondazione razionale dell’etica, in primo luogo la scienza viene considerata come avalutativa; in secondo luogo la razionalità  ò determinata dalla scienza, la scienza ha per così dire colonizzato il concetto di razionalità . E dunque, poichò la razionalità  stessa deve essere avalutativa, diventava impossibile dare una fondazione razionale della scienza e delle sue conseguenze. Ne risultava un paradosso: mentre da un lato la scienza con la sua applicazione tecnica aveva messo al mondo nuovi problemi enormi e in particolare quello di una etica delle conseguenze delle azioni collettive, dall’altro una fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza non sembrava più possibile. Questa ò stata per me la sfida paradossale che mi ha spinto a fondare una etica della comunicazione. Il concetto decisivo per me allora ò stato il seguente: certamente ò corretto affermare che la scienza in rapporto al suo oggetto, sia necessariamente avalutativa – in questo senso almeno le scienze della natura sono necessariamente avalutative. Ma ò falso pensare che gli scienziati nei rapporti tra loro – soggetti della scienza in rapporto ad altri soggetti della conoscenza scientifica- abbiano anch’essi necessariamente un atteggiamento avalutativo. Questo ò del tutto sbagliato; al contrario, una condizione della possibilità  della scienza ò che vi sia almeno per la comunità  degli scienziati una etica minima, fondamentale. Con questo non ò naturalmente ancora data la base per una etica della comunicazione umana, però ò possibile generalizzare questa impostazione, che muove dal modello della comunità  della comunicazione tra gli scienziati, riflettendo sul fatto che la cosa ultima, ciò che nella filosofia non possiamo eludere, ò il pensiero o l’argomentare. Ora se si considera il pensiero non come pensiero solitario, ma come argomentare – e questa mi sembra che sia la concezione che se ne ha nel nostro secolo – si vedrà  che chiunque pensi seriamente fa già  parte di una comunità  della argomentazione; più in particolare, fa parte sia di una comunità  di comunicazione, reale, sia di una comunità  ideale, anticipata in modo controfattuale: se egli argomenta seriamente, deve rivolgersi per così dire continuamente ad una comunità  ideale della comunicazione in grado di controllare la validità  dei suoi argomenti e in grado di fornire il consenso alle sue pretese di validità . Sotto questo profilo, sul piano di questa comunità  della argomentazione, dobbiamo già  sempre avere riconosciuto una etica: l’esistenza di determinate norme fondamentali della parità  e della corresponsabilità  di tutti i membri di questa comunità  dell’argomentazione. Questo fu il modo in cui io allora trovai nel concetto della comunicazione o della comunità  della comunicazione la via per uscire dal paradosso, dall’apparente impossibilità  di fondare razionalmente l’etica nell’epoca della scienza. [Tratto dall’intervista “Etica della Comunicazione”, 24 aprile 1991, Napoli Vivarium] TRADIZIONE E CONOSCENZA In Essere e Tempo non si parla così tanto di linguaggio come nel secondo Heidegger, diciamo ad esempio nella Lettera sull’umanismo, dove Heidegger dice che il linguaggio ò la casa dell’Essere e la dimora dell’essenza umana e dove egli si richiama anche a Humboldt. Però mi sembra che Heidegger già  in Essere e tempo ha parlato della esplicazione pubblica della nostra comprensione del mondo ed abbia con questo inteso l’esplicazione linguistica e che in questo modo abbia già  superato la fenomenologia eidetica del suo maestro Husserl che era orientata prelinguisticamente. Direi perciò che la fenomenologia in Essere e Tempo subisce una svolta ermeneutico-linguistica. Con questa svolta Heidegger per così dire si incontra per così dire con la svolta pragmatica della filosofia analitica del linguaggio e quindi con il secondo Wittgenstein, come ho già  avuto modo di accennare. Lo si vede da alcuni passi che io ho già  richiamato, quelli in cui Heidegger in riferimento al problema del mondo esterno perviene agli stessi risultati di Wittgenstein, quelli in cui egli rigetta il problema se c’ò effettivamente un mondo esterno e la necessità  di una prova del mondo esterno, perchè la stessa domanda ò mal posta, da cui risulta che egli si lascia guidare dalla esplicazione linguistica della nostra comprensione del mondo, proprio come il secondo Wittgenstein. Lo stesso si vede quando Heidegger dice che non ò adeguato dire che noi percepiamo dei rumori, piuttosto noi percepiamo la motocicletta che passa o il picchio che batte. Egli ci vuole dire che tematizzare qualcosa nella nostra coscienza, poniamo rumori, dati di senso oppure rappresentazioni, ò cosa che richide uno sforzo particolare, perchè in questo caso dobbiamo oggettivare un oggetto particolare che ò diverso dall’oggetto che noi oggettiviamo normalmente. Questo oggetto che noi oggettiviamo normalmente non ò una semplice presenza nel mondo, ma, come dice Heidegger, qualcosa che ò alla portata di mano, cioè che si incontra in un contesto pratico del mondo della vita, in una significatività  e in una determinata appagatività . Qui Heidegger si incontra à ncora una volta con l’analisi dei giochi linguistici di Wittgenstein. Ciò lo si può mostrare in concreto, direi però che tendenzialmente tra l’analisi linguistica di Wittgenstein e l’ermeneutica del linguaggio di Heidegger si rileva una certa differenza. Wittgenstein ò sempre sulle tracce della mancanza di senso, delle insensatezze della filosofia tradizionale. A lui interessa sempre in primo luogo smascherare le questioni insensate della filosofia, per mostrare alla mosca la via per uscire dalla bottiglia. In Heidegger piuttosto l’accento ò posto sul mostrare che si vive già  sempre in un mondo interpretato, che c’ò un mondo che ò già  determinato dalla tradizione e, come poi dirà , dalla storia dell’Essere. Su questo punto Heidegger compie una trasformazione del suo concetto di verità . In Essere e Tempo egli ha detto che noi ci troviamo già  sempre in un mondo della vita che ò aperto dall’essere-nel-mondo. In seguito egli può dire che il fatto di questa apertura del mondo proviene da una illuminazione, da uno svelamento del senso che ò sempre al contempo anche nascondimento di senso e che lo svelamento ò un evento nella storia dell’essere. Quindi ora per Heidegger l’accesso al mondo viene a dipendere dalla storia dell’Essere e questa accesso, questa illuminazione del senso dell’Essere nella storia dell’Essere si articola poi per Heidegger nei linguaggi concreti della nostra storia. L’accento giace per lui nel fatto che noi da questo punto di vista siamo dipendenti dalla tradizione e dal linguaggio alto, i quali hanno reso possibile la nostra comprensione del mondo. LA RIFONDAZIONE DELLA MORALE Partendo dalla constatazione che qualsiasi contestazione razionale presuppone “l’inaggirabilità  della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso”, Apel arriva a concludere che la fondazione ultima in filosofia ò possibile tutte le volte che altrimenti “il gioco linguistico dell’argomentazione” risulterebbe impossibile. E questo ò il caso della fondazione riflessivo-trascendentale a cui Apel fa riferimento come modello specifico della filosofia: Su questo riconoscimento riflessivo dell’inaggirabilità  del punto di vista della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso, poggia la possibilità  di rispondere non solo alla domanda iniziale “perchè mai essere razionali? “, ma anche alla nostra domanda iniziale “perchè mai essere morali? “. Se si condivide un concetto di fondazione orientato in senso logico-formale, risulta, come noto, impossibile offrire a questi due interrogativi una valida risposta – interrogativi affatto cruciali per la questione relativa alla possibilità  di una morale post-convenzionale nella moderna crisi adolescenziale (Dostoevskij e Nietzsche). Come si afferma a ragione, presupponendo la logica apodittica obiettivabile e formalizzabile, ogni risposta dovrebbe già  presupporre ciò che deve venir fondato (il riconoscimento delle norme di ragione) e finirebbe cosà­ in una petitio principii. Perchè, al contrario, in ogni fondazione intesa in senso logico-apodittico, si deve già  presupporre proprio la ragione sotto forma di norme del discorso? A questa domanda la fondazione ultima pragmatico-trascendentale risponde tramite stretta riflessione sulle condizioni inaggirabili di possibilità  della validità  dell’argomentare (del pensiero!). Per questa ragione, confrontandomi con il “razionalismo critico”, che dichiara impossibile in linea di principio ogni “fondazione ultima” in filosofia, formulai il criterio per una fondazione ultima nel modo seguente: “Se non posso contestare qualcosa senza cadere in una auto-contraddizione attuale [= performativa] ed insieme non posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-formale, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali dell’argomentazione, che devono esser state già  sempre riconosciute, affinchè il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso” (Apel 1975a; v. anche Kuhlmann 1985). La mia formulazione dimostra chiaramente che il metodo riflessivo-trascendentale della fondazione ultima, specifico a mio parere della filosofia, tiene conto fin dall’inizio dell’aporia in cui si incorre muovendo dal concetto, improntato sulla logica formale, dell’argomentazione come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (deduzione, induzione o abduzione). Non le incombe quindi obbligo alcuno di confutare il cosiddetto “trilemma di Mà¼nchhausen” (o regresso all’infinito o petitio principii o dogmatizzazione di una premessa assiomatica), in cui cadrebbe ad avviso di Hans Albert (Albert 1968, pp. 11 ss. ) ogni tentativo di fondazione ultima. Inoltre, andrebbe sottolineato che il metodo riflessivo- trascendentale, in quanto linguistico-pragmatico, non fa neppure ricorso, nel senso della classica filosofia trascendentale, ad una evidenza, esente da interpretazione, della coscienza dell’io. Essa risale piuttosto all’evidenza paradigmatica del gioco linguistico, nel quale può venir costruita l’auto-contraddizione performativa insita nella contestazione dei presupposti in questione; come ad esempio quella seguente: “io asserisco con ciò come intersoggettivamente valido (ovvero, come liberamente accettabile da ogni partner del discorso) il fatto che io non debba riconoscere la norma della libera accettabilità  delle asserzioni”. [… ] àˆ chiaro quindi che anche noi intendiamo questa forma della fondazione ultima come alternativa alla derivazione delle norme fondamentali dell’etica da qualsivoglia fatti. Non si tratta qui di esibire un fatto nel mondo, per derivare da esso qualcos’altro – una norma fondamentale – tramite obiettivabili operazioni logiche; si tratta bensà­ di un ricorso riflessivo al riconoscimento già  sempre avvenuto di norme fondamentali in quanto tali (quindi in quanto dover-essere!). Detto altrimenti, nella fondazione ultima pragmatico-trascendentale (della filosofia tanto teoretica quanto pratica) non ha luogo nessun ricorso fondativo a fatti fondamentali nè ontologici nè antropologici (come spesso viene ipotizzato), tali fitti vengono bensà­ introdotti in modo euristico, quali candidati per il test riflessivo della fondazione ultima. Il test consiste tuttavia in un esperimento di pensiero, con cui viene dimostrata – in modo strettamente riflessivo – l’incontestabilità  senza auto-contraddizione performativa. [Etica della comunicazione] L’ETICA DEL DISCORSO E LE SUE NORME Apel contrappone al relativismo la convinzione che per poter esprimere qualsiasi tesi, compresa quella relativista, sia necessario riconoscere e accettare le norme del discorso. Su di esse poi ò possibile fondare un’etica razionale. Ma alla fine egli deve ammettere che fondare una scelta per il bene sulla sola forza della ragione rimane una tesi problematica e difficile da sostenere: L’idea stessa di una decisione fra le due alternative di fondo [… ] risulta in vero intelligibile solo presupponendo che già  si possa argomentare (pensare!). Ma ciò presuppone a sua volta il già  avvenuto riconoscimento delle norme del discorso (Apel 1973, pp. 31l ss. ). Su questo riconoscimento riflessivo dell’inaggirabilità  del punto di vista della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso, poggia la possibilità  di rispondere non solo alla domanda iniziale “perchè mai essere razionali? “, ma anche alla nostra domanda iniziale “perchè mai essere morali? “. Se si condivide un concetto di fondazione orientato in senso logico-formale, risulta, come noto, impossibile offrire a questi due interrogativi una valida risposta – interrogativi affatto cruciali per la questione relativa alla possibilità  di una morale post-convenzionale nella moderna crisi adolescenziale (Dostoevskij e Nietzsche). Come si afferma a ragione, presupponendo la logica apodittica obiettivabile e formalizzabile, ogni risposta dovrebbe già  presupporre ciò che deve venir fondato (il riconoscimento delle norme di ragione) e finirebbe cosà­ in una petitio principii. Perchè, al contrario, in ogni fondazione intesa in senso logico-apodittico, si deve già  presupporre proprio la ragione sotto forma di norme del discorso? A questa domanda la fondazione ultima pragmatico-trascendentale risponde tramite stretta riflessione sulle condizioni inaggirabili di possibilità  della validità  dell’argomentare (del pensiero!). Per questa ragione, confrontandomi con il “razionalismo critico”, che dichiara impossibile in linea di principio ogni “fondazione ultima” in filosofia, formulai il criterio per una fondazione ultima nel modo seguente: “Se non posso contestare qualcosa senza cadere in una auto-contraddizione attuale [= performativa] ed insieme non posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-formale, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali dell’argomentazione, che devono esser state già  sempre riconosciute, affinchè il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso” (Apel 1975a; v. anche Kuhlmann 1985). La mia formulazione dimostra chiaramente che il metodo riflessivo-trascendentale della fondazione ultima, specifico a mio parere della filosofia, tiene conto fin dall’inizio dell’aporia in cui si incorre muovendo dal concetto, improntato sulla logica formale, dell’argomentazione come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (deduzione, induzione o abduzione). Non le incombe quindi obbligo alcuno di confutare il cosiddetto “trilemma di Mà¼nchhausen” (o regresso all’infinito o petitio principii o dogmatizzazione di una premessa assiomatica), in cui cadrebbe, ad avviso di Hans Albert (Albert 1968, pp. 11 ss. ) ogni tentativo di fondazione ultima. Inoltre, andrebbe sottolineato che il metodo riflessivo- trascendentale, in quanto linguistico-pragmatico, non fa neppure ricorso, nel senso della classica filosofia trascendentale, ad una evidenza, esente da interpretazione, della coscienza dell’io. Essa risale piuttosto all’evidenza paradigmatica del gioco linguistico, nel quale può venir costruita l’auto-contraddizione performativa insita nella contestazione dei presupposti in questione; come ad esempio quella seguente: “io asserisco con ciò come intersoggettivamente valido (ovvero, come liberamente accettabile da ogni partner del discorso) il fatto che io non debba riconoscere la norma della libera accettabilità  delle asserzioni”. La struttura riflessiva della fondazione, ora schizzata, in quanto relativa all’inaggirabile riconoscimento già  sempre avvenuto delle presupposizioni dell’argomentazione, offre anche la possibilità  di decifrare il richiamo di Kant all’”evidenza” del “fatto [non empirico] della ragione [pratica]”, con cui Kant, nella sua seconda Critica, suggella l’ impossibilità , precedentemente ammessa, di una deduzione trascendentale della validità  dell’imperativo categorico. Se infatti fosse possibile interpretare nel senso di un perfetto apriorico la struttura profonda della grammatica del discorso kantiano a riguardo di un “fatto” non empirico, allora non vi leggeremmo – come invece da altri affermato (Ilting 1972) – una variante della “fallacia naturalistica”, bensà­ un rinvio alla possibilità  della fondazione ultima riflessivo-trascendentale. àˆ chiaro quindi che anche noi intendiamo questa forma della fondazione ultima come alternativa alla derivazione delle norme fondamentali dell’etica da qualsivoglia fatti. Non si tratta qui di esibire un fatto nel mondo, per derivare da esso qualcos’altro – una norma fondamentale – tramite obiettivabili operazioni logiche; si tratta bensà­ di un ricorso riflessivo al riconoscimento già  sempre avvenuto di norme fondamentali in quanto tali (quindi in quanto dover-essere!). Detto altrimenti, nella fondazione ultima pragmatico-trascendentale (della filosofia tanto teoretica quanto pratica) non ha luogo nessun ricorso fondativo a fatti fondamentali nè ontologici nè antropologici (come spesso viene ipotizzato), tali fatti vengono bensà­ introdotti in modo euristico, quali candidati per il test riflessivo della fondazione ultima. Il test consiste tuttavia in un esperimento di pensiero, con cui viene dimostrata – in modo strettamente riflessivo – l’incontestabilità  senza auto-contraddizione performativa. Pur avendo risolto la questione filosofica della fondazione ultima in forza di un atto di conoscenza riflessivo, non si ò ancora risposto alla domanda seguente: chi ha raggiunto tale cognizione (il che non vale per tutti, dato che ò indispensabile aprirsi a tale riflessione trascendentale), come ad esempio la cognizione che egli ha l’obbligo di agire moralmente, cioò che egli ha già  sempre riconosciuto come moralmente vincolanti le norme fondamentali della giustizia, della solidarietà  e della co-responsabilità  in quanto norme fondamentali del discorso – questa persona filosoficamente avveduta tradurrà  anche, in forza di una volontà  buona, la conoscenza da lui cosà­ conseguita in decisioni pratiche (sia a livello di discorso argomentativo, sia anche a livello della prassi di vita)? A me sembra che solo con questo interrogativo si sia toccato il problema davvero inteso da Popper, quando egli parla della necessità  di una decisione “irrazionale”, ma “morale”, a favore della ragione in forza di un “atto di fede” (Popper 1958, vol. 2, pp. 284 ss); e che qui l’etica del discorso giunga a toccare il limite del cognitivismo (Apel 1986b). àˆ in effetti difficile guadagnare in etica un aspetto razionale alla questione della motivazione, almeno nel caso in cui, diversamente dal Socrate dell’antichità  classica e piuttosto nel senso del cristianesimo e di un Kant, si muova dalla convinzione che qualcuno possa compiere volontariamente e consapevolmente ciò che egli stesso ò in grado di riconoscere come male. Qui, come parrebbe, rimane soltanto la possibilità  di domandarsi, in termini di psicologia empirica, quale forza motivazionale abbiano davvero gli atti cognitivi etico-filosofici per la prassi comportamentale. Osserverei tra parentesi che il noto psicologo evolutivo e filosofo morale Lawrence Kohlberg ò giunto a tal riguardo ad un risultato degno di nota. In base ai risultati dell’esperimento Milgram (in cui alcuni vennero invitati, in nome della scienza e della sua autorità , a somministrare ad altre persone scosse elettriche e, su comando, ad aumentarne vieppiຠl’ intensità , nonostante le simulate urla di dolore delle “vittime”), coloro i quali possedevano una competenza di giudizio morale di livello post-convenzionale si sarebbero dimostrati, secondo Kohlberg, piຠpronti degli altri ad opporsi all’ordine impartito in base a ragioni di ordine morale. Anche da un punto di vista filosofico, comunque, sembra intuitivamente poco plausibile supporre che chi, ad esempio durante la crisi adolescenziale, si ponga seriamente la questione di una possibile giustificazione del dovere morale, comprenda ed accetti in termini cognitivi la risposta da noi sopra schizzata, non debba risultarne motivato anche nelle sue decisioni di rilievo pratico – sebbene ciò non garantisca una volontaria messa in atto di queste sue cognizioni. [Etica della comunicazione] RAPPORTO FRA PRIMO E TERZO MONDO Da una parte il primo mondo deve addossarsi la responsabilità  anche degli altri, dall’altra esso deve evitare ogni forma di paternalismo e valorizzare le altre culture all’ interno di norme di convivenza accettate da tutti e della necessità  di cooperazione: Nei tentativi volti a superare le barriere comunicative, che soprattutto i privilegiati sarebbero tenuti a compiere, si dovrebbe evitare di assumere un atteggiamento di tutela paternalistica. Sebbene l’etica del discorso consideri moralmente doveroso per i partecipanti alla comunicazione che essi difendano in modo avvocatorio anche gli interessi di coloro che ne sono esclusi, tuttavia gli interessi di questi ultimi andrebbero dapprima ermeneuticamente compresi; ed in tale sforzo ermeneutico i membri adulti di un altro mondo culturale non possono venir considerati come individui in stato di minore età  e neppure come i futuri nati delle prossime generazioni. Nè la pretesa di validità  universale avanzata dall’etica del discorso esige in qualche modo che le varie forme di valutazione del mondo quotidiano, connesse con ideali di realizzazione della vita buona diversi da cultura a cultura, vengano livellate in un’unica gerarchia di valori valida per tutti gli uomini e teleologicamente orientata. Si tratta piuttosto, tramite regolazione discorsiva anche dei conflitti di valutazione a livello inter-culturale, di proteggere la specificità  e pluralità  delle forme di vita socio-culturali: di dare a tale pluralità  tanto spazio quanto (e non piຠdi quanto) sia conciliabile con le norme di convivenza capaci di consenso e, al presente, anche con la cooperazione co-responsabile nella soluzione dei problemi dell’umanità . [Etica della comunicazione] SUL FALLIBILISMO Confrontandosi con le posizioni di altri filosofi tedeschi contemporanei, Apel si impegna in una forte confutazione del relativismo assoluto. Egli imposta il rapporto certezza-dubbio alla maniera di Agostino e insiste sulla possibilità  di una “fondazione pragmatico-trascendentale” della morale (influenza di Kant), che parte dal diritto di tutti alla dignità  dialogica, fondato sulla ragione. [Rorty ò un filosofo americano di orientamento postmoderno, noto esponente di un relativismo molto accentuato, legato all’ermeneutica]: Dagli anni 70 ho sostenuto che una fondazione ultima – una fondazione pragmatico-trascendentale della filosofia pratica e teorica – ò possibile. Habermas ò molto distante da tutto questo. Negli ultimi anni egli sostiene un principio senza restrizioni secondo cui “tutto ò fallibile”. Da qui la nostra principale divergenza. Anch’io sono un fallibilista. Ma ad Habermas dico: il significato profondo del fallibilismo non può essere compreso se non si presume che almeno qualcosa non sia fallibile. Tra i giochi linguistici immaginati da Wittgenstein ve n’ò anche uno in cui parliamo dei giochi linguistici in generale. Questo ò il gioco linguistico trascendentale. Chi dice “Tutto ò fallibile” rientra in questo gioco. Ma che cosa significa l’espressione “Tutto ò fallibile”? Se non ci sono verità  a cui si possano contrapporre delle falsità , non sarà  possibile nessun discorso, nessun’affermazione, compresa quella secondo cui “tutto ò fallibile”. Non posso dubitare se non presuppongo qualche certezza, qualche cosa che non può essere messo in dubbio. Tutti i giochi linguistici poggiano su paradigmi di certezza. Anzi, direi che ò soprattutto il gioco del dubbio a presupporre certezze. Altrimenti il dubbio stesso diventa impossibile. Tra i presupposti dei giochi linguistici ce ne sono alcuni molto importanti che non possono essere negati senza cadere in gravi auto-contraddizioni performative. Per esempio, non posso dire, come fa Rorty, “non ho pretese di verità “, perchè anche la sua ò una pretesa di verità . Rorty risponde che non ò vero, che la sua ò solo conversazione. Mi spiace per Rorty, perchè in questo modo sarà  impossibile parlare e argomentare con lui. Visto che non ha nessuna pretesa di verità , sarà  impossibile criticarlo. E sottrarsi alla critica ò sleale. Cosà­ come ò scorretto, invece di parlare con frasi compiute, rivolgersi a qualcuno con un “lalalà “: che senso ha parlare e discutere con lui? Se io chiedo a Rorty: “Di che cosa mi vuoi convincere? quale ò la tua pretesa? ” e lui risponde: “Non ho nessuna pretesa”, non vedo perchè dovrei discutere con lui. Popper ha detto giustamente che la piຠgrande colpa di un filosofo ò quella di non essere criticabile. Rorty ò assolutamente impossibile da criticare. Per lui tutto ò conversazione, non ci sono criteri, ragioni, pretese di verità . [… ] Tra le cose che non si possono negare, pena il cadere in una autocontraddizione performativa come quella appena descritta, ci sono alcune norme etiche fondamentali. Una di queste ò quella secondo cui esiste un eguale diritto per tutti a poter comunicare e argomentare. Non ci devono essere restrizioni a questa norma: tutti abbiamo un identico diritto di parlare su ogni singolo problema. Un’altra norma ò quella della eguale corresponsabilità  nell’affrontare e risolvere i problemi. Io credo che esista una fondazione pragmatico-trascendentale che renda possibile l’etica. Questa ò sempre stata la principale differenza tra Habermas e me. Nel suo ultimo grande lavoro Fatti e norme emergono però nuovi problemi e nuove divergenze. Io non posso essere d’accordo con la sua strategia di differenziazione dei discorsi (morale, giuridico e democratico), nè con l’idea secondo cui il principio del discorso ò moralmente neutrale: in questo modo egli distrugge l’”etica del discorso” che avevamo condiviso. Io continuo ad essere convinto – e non vedo buone ragioni per negarlo – che l’etica del discorso sia quella che informa le norme etiche fondamentali: chiunque sia impegnato in un’argomentazione deve avere dei principi e conoscere certe norme fondamentali, basate sugli eguali diritti e responsabilità  di cui dicevo. In Fatti e norme, inoltre, Habermas pone il diritto allo stesso livello della morale. Non ci sarebbe un fondamento morale del diritto, perchè entrambi starebbero allo stesso livello originario. Ancora. Per Habermas il principio del diritto sarebbe identico al principio della democrazia. Non sono d’accordo. Anch’io sono favorevolissimo alla democrazia, ovviamente. Ma non credo che la si possa porre allo stesso livello di originarietà  e di universalità  del diritto e della morale. Alcuni principi di fondo su cui si basa la democrazia possono essere criticati: per esempio, il principio maggioritario. àˆ vero che ciò che oggi abbiamo di meglio ò la democrazia. Ma che il principio maggioritario sia sempre giustificato ò una questione aperta. Quanto all’etica, bisogna dire che ci sono due prospettive che non possono essere separate completamente, ma che comunque vanno distinte. Da una parte vi ò la domanda relativa al come e al perchè possiamo avere una vita buona o una vita felice. Dall’altra invece abbiamo un’etica della giustizia, il cui principio fondamentale afferma che tutti gli individui hanno lo stesso diritto di scegliere il proprio ideale di vita. àˆ questo il livello dei diritti umani universali, che ci evita di cadere nello storicismo e nel relativismo: si tratta di accettare l’ineliminabile pluralità  e differenza delle visioni morali garantendo a tutti il diritto alla libera scelta. [Il paradosso del fallibilista]

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