"La Battaglia di Waterloo" è un estratto dal romanzo "i Miserabili" di Victor Hugo, preceduto da un’introduzione di Francesca Sanvitale. Approfondendo la descrizione delle varie fasi della battaglia si è reso evidente il fatto che che non coincidesse esattamente con la ricostruzione fatta da Hugo; non si tratta, però, di divergenze inappianabili, ma piuttosto di episodi che Hugo ha enfatizzato ed esaltato in modo particolare, contrapposti ad altri che sono stati trascurati o appena accennati.
La spiegazione di tutto ciò è senz’altro molteplice: in primo luogo l’autore è un francese, e, soprattutto nella descrizione della rotta, cede all’amor patrio nell’esaltare l’eroismo di Cambronne e nel giudicare "il disonore di Blucher"; in secondo luogo l’autore è un romanziere del Romanticismo, ed è maggiormente propenso alla narrazione epica che non alla minuziosa descrizione storica (del resto lo riconosce egli stesso: "non pretendiamo far qui la storia di Waterloo… siamo solo un viandante nella pianura, un cercatore…); in terzo luogo l’autore è un politico, e nella realtà in cui cerca di operare deve necessariamente fare i conti con la figura di Napoleone. Ma forse c’è dell’altro, qualcosa di ancora più importante dei motivi precedenti.
F. Sanvitale ricorda che questa digressione di un’ottantina di pagine, anche se collocata alla fine del secondo libro, venne scritta al termine della composizione dei Miserabili, quindi anche al culmine dell’evoluzione del pensiero di Victor Hugo. Durante tutta la prima parte dei Miserabili vediamo l’autore scosso dall’ingiustizia e dal dolore che accomunano gli umili e gli innocenti: egli si chiede "perché?" Oscilla tra il terribile dubbio del credere ad un disegno cosmico di Dio o al dominio del caso, ma vediamo come nella battaglia di Waterloo questo dubbio si sia ormai risolto: l’agire dell’uomo è condizionato dalla casualità, e l’insieme di tante casualità negative costituisce il destino che condannò Napoleone a sant’Elena.
Tutto il libro è pervaso di espliciti riferimenti al caso, a cominciare dalla presentazione ("se non fosse piovuto nella notte dal 17 al 18 giugno 1815, l’avvenire dell’Europa sarebbe stato diverso. Poche gocce di pioggia in più o in meno hanno messo in bilico Napoleone.") per finire con l’emblematica analisi su cos’è stato Waterloo, con la consapevolezza che "queste cose si fecero…solo perché, nel pomeriggio di un giorno estivo, un pastore disse ad un prussiano ’passate di qua, non di là!’" e con il rimpianto di aver perso "una luce scura, la cui scomparsa fece l’effetto di un’eclisse". Ma ora esaminiamo la grandiosa descrizione della "sconfitta delle sconfitte".
L’autore si trova per caso sulla strada di Nivelles, quando giunge davanti a una vecchia porta. Essa era l’entrata di un castello del 1600. Subito la sua vista viene catturata da dei buchi semicircolari all’estremità sinistra. Una contadina gli riferisce che sono stati provocati da colpi di cannone francesi e gli annuncia che si trova ad Hougomont. Da questo punto in poi comincia la narrazione della battaglia di Waterloo avvenuta il 18 giugno del 1815.
La prima parte è incentrata sullo scontro sanguinoso che si svolse all’interno della masseria tra le quattro compagnie delle guardie di Cooke (inglesi) e l’intero corpo di Reille (francesi). Colpisce molto la cura meticolosa dei particolari simile a una radiocronaca; in ogni settore del fabbricato l’autore descrive lo stato dei ruderi, indica le posizioni tenute dai due schieramenti. Molto toccante è la descrizione del pozzo nel quale furono accumulati centinai di corpi; la leggenda narra che la notte seguente si sentirono i gemiti di quelli che erano ancora vivi. Ci ha stupito molto come l’autore si sia soffermato sullo stato del frutteto limitrofo al castello: tutti i tronchi dei meli portavano le cicatrici di quel drammatico giorno.
Come molti storici, anche Hugo si pose la domanda del perché Napoleone capitolò in quel giorno; l’unica risposta che fu in grado di dare la ritroviamo nel caso, dominatore dei singoli che si fa interprete di un destino: "Napoleone era stato denunciato nell’infinito e la sua caduta era decisa. Egli era d’ostacolo a Dio. Waterloo non è una battaglia; è il mutamento di fronte all’universo" (Victor Hugo).
Prima di entrare nel vivo della descrizione epica il narratore dedica varie pagine alla persona di Napoleone e l’autore sembra quasi assolverlo dal suo fallimento. Si devono sottolineare i riferimenti con la battaglia di Austerlitz. In quell’occasione Napoleone vide sorgere il sole. A Waterloo, dopo una giornata nuvolosa, l’imperatore lo vide tramontare; l’approccio stesso alla battaglia fu differente: nel 1805 era stato triste; fu allegro a Waterloo. Per tutta la notte, sotto una pioggia incessante, l’imperatore era stato in giro a far visita ai reparti, schernendo il generale nemico Wellington: "quell’inglesuccio ha bisogno di una lezione". Alle dieci e mezza l’esercito francese era tutto disposto; subito la battaglia si rivelò incerta. Da mezzogiorno alle quattro vi è un periodo estremamente confuso come se la battaglia si fosse svolta in un’enorme mischia. Verso le quattro del pomeriggio la situazione volse a favore dei francesi; le armate di sinistra dello schieramento inglese erano pressoché distrutte: le armate di destra furono costrette a ripiegare al centro; l’unico punto infatti, dove l’esito della battaglia era ancora oscuro, era proprio quello (spianata di Mont-Saint-Jean).
La fortezza di Hougomont e l’abitato di Haie-Sainte erano stati conquistati dai francesi. Dunque Napoleone per concludere in fretta la pratica "Waterloo", decise di impiegare la guardia, formata da due brigate di 3500 uomini ciascuna. Bisogna però sottolineare che prima di ciò Napoleone aveva chiesto a una sua guida, Lacoste, se presso la cappella di Saint-Nicolas, situata sulla strada che collega Ohain a Brain-l’Allelud, vi fosse qualche insidia. Egli rispose con un cenno del capo negativo. Ciò si dimostrerà un errore fatale, in quanto tre quarti della seconda brigata cadde in un dirupo. Anche per mezzo di questo così futile incidente, Hugo ci fa notare e noi lo approviamo in pieno, come la sconfitta non sia stata determinata da Wellington o da Blucher, ma da Dio stesso.
Dopo "l’imprevisto", si scatenò la battaglia: i corazzieri si lanciarono a briglia sciolta contro i tredici quadrati, comprendenti fanteria ed artiglieria, inglesi. Anche se in numero nettamente inferiore i francesi mostrarono un gran valore: "ogni corazziere equivaleva a dieci uomini inglesi" (V. Hugo). Dall’altra parte i quadrati rimasero fermi nelle loro postazioni. Wellington, come ultima spiaggia, adoperò la sua cavalleria. Se Napoleone, in quello stesso momento, avesse pensato alla sua fanteria, avrebbe vinto la battaglia; quella dimenticanza fu il suo grande errore fatale. Ad un certo momento i corazzieri francesi si accorsero di essere stati accerchiati, ma ciò non influì minimamente ed anzi riuscirono a rispondere ad ogni attacco. La spianata era avvolta in un turbine di fuoco; tuttavia i corazzieri non erano riusciti nel loro scopo, infatti gran parte di essa era ancora in mano agli inglesi, i quali subirono ingenti perdite.
Passate le cinque avvenne ciò che Napoleone non avrebbe mai sperato che avvenisse: le armate prussiane di Bulow, guidato da una buona scorta, sbucano dalla strada sotto Plancenoit. Da qui in poi comincia la catastrofe francese. Le grida "viva l’Imperatore" si tramutarono in un "si salvi chi può". L’esercito ripiegò bruscamente e incominciò una fuga inesorabile. Ci fu un tentativo di resistenza che svanì alla prima raffica della mitraglia prussiana.
Da qui in poi segnaliamo due episodi eroici. Quello del maresciallo Ney, il quale, sguainata la spada, urlò ai suoi: "Venite a vedere come muore un maresciallo di Francia sul campo di battaglia!" e continuava "non v’è dunque nulla per me? Oh, vorrei che tutte queste palle inglesi m’entrassero nel ventre!". Il secondo riguarda l’ultimo quadrato francese rimasto sulla spianata di Mont-Saint-Jean, comandato da un oscuro ufficiale, chiamato Cambronne. Rimasti poco più di un manipolo di soldati, un generale inglese (Colville o Maitland) propose loro la resa: Cambronne rispose "Merda!".
Chi non viene colpito da questa scurrile ma spontanea affermazione? Essa infatti dimostra tutto il disappunto dell’ufficiale contro quella guerra nella quale sente esservi una menzogna e nel momento in cui esplode di rabbia, gli offrono quella derisione che è la vita! Alla parola di Cambronne, la voce inglese rispose: "Fuoco!". Così si chiude l’era napoleonica e se ne apre una in cui le rivoluzioni non si faranno più con la spada, ma con il pensiero in un certo senso un modo di compiere le rivoluzioni non con la spada ma con il pensiero.
Napoleone si trovò, ad un momento cruciale della sua carriera, a dover affrontare sul campo il nemico in uno scontro che, a torto o a ragione, appariva decisivo, dal quale cioè dipendeva – o sembrava dipendere – l'intero destino dei popoli che avevano a lui affidato la propria guida militare, nonché il proprio destino personale.
La responsabilità non risale a lui, per lo meno non del tutto. Essa ricade dapprima su Ney, che nella precedente battaglia di Quatre Bras combinò tali pasticci da consentire ai prussiani di Bluecher di evitare l'annientamento; in seguito su Grouchy il quale, invece di inserirsi con il proprio Corpo d'Armata tra Blucher e Wellington, si spinse oltre le forze prussiane, lasciando aperta a costoro la via di Waterloo.
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