Catilina: cause e conseguenze della congiura - StudentVille

Catilina: cause e conseguenze della congiura

La congiura di Catilina: approfondimento su questo episodio che ha segnato la storia politica dell'Antica Roma, per comprenderne al meglio le dinamiche.

La congiura di Catilina: cause e riassunto

Nell’anno 63 a.C., mentre Pompeo concludeva in modo trionfale la sua campagna d’oriente, un episodio scuoteva il sistema politico Romano, assumendo dei contenuti particolarmente drammatici. L’episodio è una congiura organizzata e guidata da un importante uomo politico, l’aristocratico Lucio Sergio Catilina, e alla quale si oppose in qualità di console un altro esponente di spicco della politica Romana di quegli anni, Marco Tullio Cicerone.

Come gli storici dell’antichità, anche gli storici moderni continuano ad interrogarsi sulla congiura di Catilina, cercando di decifrarla e soprattutto cercando di capire se si trattò esclusivamente di uno dei tanti episodi di violenza che caratterizzò la lotta politica a Roma nel I° secolo a.C. o se si trattò di un  vero tentativo rivoluzionario come lo stesso Cicerone, tentando di accreditarsi come un salvatore della patria, fece risaltare, grazie alle sue indubbie qualità oratorie.

Altre grandi questioni rimangono tuttora senza risposta, come, ad esempio, quale fu il reale ruolo recitato in questa vicenda da Caio Giulio Cesare, che in quegli  anni stava diventando il vero leader della fazione dei “populares”.

Ma, prima di raccontare le vicende legate alla congiura di Catilina riteniamo importante tracciare un profilo sintetico dei due protagonisti: Catilina e Cicerone.

Lucio Sergio Catilina

Lucio Sergio Catilina era un aristocratico che aveva iniziato la sua carriera politica e militare a fianco di Lucio Cornelio Silla. Avevo preso parte alla prima marcia su Roma, alla guerra mitridatica e alla successiva guerra civile. Fu coinvolto nel triste fenomeno delle proscrizioni, gli veniva rimproverata particolare crudeltà e soprattutto di aver agito anche su commissione; famoso l’episodio che lo collega all’esecuzione deI cognato Mario Gratidiano, rispetto al quale si racconta che Catilina si presentò nel Foro, con la sua testa grondante di sangue nelle mani. Indubbiamente la sua fine da ribelle ha condizionato fortemente i giudizi su di lui degli storici della Roma Antica, che ne hanno voluto rimarcare solo i lati peggiori.

Nel periodo post-sillano, le idee e l’azione politica di Catilina subirono profondi cambiamenti. Lucio Sergio Catilina si fece interprete di una politica idealista a favore della plebe, una politica radicale chiusa ad ogni compromesso. Sulla base di questa politica rivoluzionaria Catilina si candidò per 3 volte al consolato e per 3 volte fallì il suo obiettivo, anche perché le sue idee radicali avevano generato la naturale ostilità degli “ottimati”, ma anche la diffidenza dei “populares” e soprattutto del ceto dei cavalieri. Eventi poco chiari e comportamenti scorretti impedirono a Catilina di accedere al consolato e di realizzare il suo programma attraverso una via costituzionale, convincendolo della necessità di ricorrere ad una via rivoluzionaria.

Marco Tullio Cicerone

Marco Tullio Cicerone apparteneva al ceto dei cavalieri, ma per arrivare al consolato si lasciò cooptare dagli ottimati, contro i quali in precedenza aveva avuto alcuni scontri, sia nell’esercizio della sua funzione di avvocato (processo a Dolabella), sia nella sua attività politica.
Fu lui, ad esempio, ad appoggiare in modo decisivo Pompeo Magno, quando si trattò di assegnargli il comando delle province d’oriente, anche se aveva fatto scena muta alcuni mesi prima, quando Aulo Gabinio aveva proposto di concedere allo stesso Pompeo Magno il comando speciale per combattere la piaga della pirateria.

Protagonista di scontri verbali piuttosto accesi con Ortensio, uno dei leader degli ottimati, ne diventerà amico e alleato politico: quel che è certo che Cicerone non brillò certo per la coerenza, ma solo per la sua grande ambizione.
Durante il suo consolato si dimostrò un grande conservatore e cercò la coesione tra gli aristocratici e i cavalieri in funzione anti-plebea.
La sua caratteristica migliore fu l’eloquenza, e utilizzò al massimo le sue capacità oratorie quando si trattò di esaltare il suo ruolo di “salvatore della patria” di fronte alla congiura organizzata da Catilina.

Come si arrivò alla congiura

Una congiura fallita

Negli anni che precedettero la congiura di Catilina si verificarono una serie di episodi significativi che influenzarono il percorso dei congiurati.
Uno di questi fu la congiura mancata e cioè la congiura organizzata da Marco Licinio Crasso, con la complicità di Caio Giulio Cesare e dello stesso Lucio Sergio Catilina. Crasso voleva rispondere con la forza agli aristocratici che avevano invalidato l’elezione dei due consoli di estrazione popolare, Publio Cornelio Silla (omonimo) e Publio Autronio Peto, accusandoli di brogli elettorali.
Questa congiura sarebbe comunque fallita una prima volta per la defezione di Crasso e una seconda volta per la defezione di Caio Giulio Cesare.

Correva l’anno 66 a.C., Pompeo era in Oriente e i 3 eminenti uomini politici elaborarono un piano per conquistare il potere. Secondo questo piano la congiura sarebbe avvenuta durante la cerimonia di insediamento dei nuovi consoli, i quali sarebbero stati uccisi. Una volta preso il potere, Crasso avrebbe assunto il ruolo di dittatore, mentre Cesare avrebbe ricoperto il ruolo di maestro della cavalleria (il vice del dittatore secondo la costituzione repubblicana). Altre cariche erano state promesse agli altri congiurati, tra i quali i due mancati consoli, mentre Catilina si era accontentato della promessa di essere appoggiato dei suoi due potenti alleati per l’elezioni al consolato dell’anno successivo.

Un paio di giorni prima del giorno stabilito, i congiurati avevano provato a saggiare la reattività dei consoli in carica facendo sospendere un processo contro l’ex tribuno Manilio, quello dell’omonima legge pro-Pompeo. Il presidente di quel tribunale era proprio il console Cicerone, il quale si limitò a sospendere il processo. Il giorno dopo non ci fu alcuna reazione contro i congiurati, i quali si convinsero delle loro reali possibilità. L’unica incognita era rappresentata da Pompeo, ma il generalissimo era lontano e ci sarebbe stato tempo per trovare un accordo o per organizzare un’adeguata resistenza.

Ma il 1° gennaio del 65 a.C., il giorno della cerimonia in Campidoglio, avvisati da un delatore rimasto sconosciuto, i due nuovi consoli si presentarono scortati e Crasso, che forse aveva saputo, non si fece vedere. Catilina era comunque pronto a scatenare i suoi uomini e per fare ciò attendeva che Cesare si fosse lasciato cadere la toga dalle spalle, un gesto che Cesare non fece mai perché aveva capito la mal parata.
Ci riprovarono un mese dopo, durante una riunione plenaria del Senato, ma Cesare di sua iniziativa non fece alcun segno e Catilina innervosito invece di una congiura riuscì solo a far scoppiare una rissa.

Le competizioni elettorali

Abbiamo già detto che Catilina tentò per 3 volte di diventare console usando le vie legali e che per 3 volte fallì il suo obiettivo, anche per il comportamento non troppo corretto dei suoi avversari.
La prima volta fu proprio nell’anno 66 a.C. (l’elezione in cui i due consoli popolari eletti si videro invalidare l’elezione perché accusati di brogli elettorali)  e a bloccargli l’elezione fu un processo per concussione intentatogli da Publio Clodio, un personaggio ambiguo i cui favori venivano comprati con una certa facilità. Catilina era stato accusato rispetto al suo operato di governatore in Africa. Il processo, che in base alla legge dell’epoca fu sufficiente ad impedirgli l’elezione, si concluse in una bolla di sapone. Catilina difeso da Cicerone e Ortensio, venne assolto e anche Publio Clodio ritirò la sua denuncia prima della sentenza. Questo processo e un altro successivo, relativo al suo passato di esecutore delle proscrizioni sillane,  lo bloccarono per quasi due anni durante i quali Lucio Sergio Catilina rese ancora più radicale la sua azione politica appoggiando una legge di riforma agraria e anche una legge di cancellazione dei debiti.

Con questo programma si presentò alle elezioni per il consolato del 63 a.C., sfidando quello che diventerà il suo grande avversario: Marco Tullio Cicerone. Un’alleanza trasversale tra Cicerone, rappresentante degli ottimati e Antonio Ibrida, rappresentante dei popolari e segretamente appoggiato da Crasso e Cesare, impedì ancora una volta l’elezione di Catilina che risultò il primo dei non eletti.

Ostinato, si ripresentò anche l’anno successivo con posizioni ancora più estreme, rafforzate da proclami elettorali che non potevano essere equivocati.
In un suo discorso elettorale Catilina si era proprio presentato come il nuovo leader della plebe: “Nella Repubblica Romana ci sono due corpi, uno è gracile e infermo con una testa senza cervello (riferimento agli aristocratici e al Senato), l’altro è vigoroso e sano (la plebe), ma senza capo. Se saprò meritarmelo sarò quel capo, finché io viva.”. Il giorno dopo Cicerone, che intanto aveva rinviato l’elezione per motivi di ordine pubblico, chiese conto in Senato delle sue affermazioni e Catilina le ripetè per filo e per segno.

Il rinvio di 15 giorni delle elezioni sfavorì Catilina, perché il suo elettorato che proveniva dalle campagne, non poteva permettersi il lusso di restare per 15 giorni a Roma.
Lucio Murena, appoggiato da Crasso, e Giuno Silano furono eletti consoli, facendo esplodere la rabbia e la delusione di Catilina che ancora una volta veniva bloccato dai trucchi dell’aristocrazia e anche dalle ipocrisie dei “popolari”. Tempo dopo, per paradosso, Murena venne accusato di brogli elettorali, ma grazie ai suoi appoggi venne assolto.
Lucio Sergio Catilina non ne poteva più dei trucchi elettorali e dei giochi della politica e così prese l’irrevocabile decisione di perseguire le sue idee al di fuori della legalità costituzionale.

La congiura

Nel settembre del 63 a.C., Catilina e il suo gruppo di fedelissimi si riunivano per organizzare la rivolta, denominata in seguito congiura di Catilina. Tra gli uomini fedeli al leader c’era anche un nutrito gruppo di senatori, tra i quali si ricordano: i soliti Publio Cornelio Silla e Publio Autronio Peto, che ancora non avevano perdonato l’aristocrazia per avere impedito loro di esercitare la carica di console alla quale erano stati regolarmente eletti, Lucio Cassio Longino, un altro deluso dalla competizioni elettorali da cui usciva regolarmente perdente, Caio Cetego, Lucio Calpurnio Bestia, Publio Cornelio Lentulo Sura. Tra loro c’era anche un ex senatore, espulso perché ritenuto indegno, di nome Quinto Curio il quale divenne il punto debole del gruppo dei congiurati.

Catilina contava molto su alcuni suoi luogotenenti, inviati in varie località della penisola ad organizzare la plebe rurale che era attratta dal programma del loro leader. Caio Flaminio, Publio Furio e Caio Manlio vennero mandati in Etruria, in particolare Manlio venne inviato a Fiesole che era sempre un luogo ben predisposto per le rivoluzioni e dove il reclutamento si presentava più facile.
Caio Settimio, legato a Pompeo,  venne inviato nel Piceno, Caio Giulio in Apulia Caio Marcello a Capua, Cepario nel basso Lazio e Tito Volturcio in Calabria.

Ma abbiamo già detto che tra i congiurati ce n’era uno poco affidabile, Quinto Curio, innamorato di una certa Fulvia che negli ultimi tempi lo snobbava, perché lui, rovinato dal gioco d’azzardo, aveva smesso di farle regali, ai quali la ragazza si era abituata. Quinto Curio, per fare colpo su di lei, cominciò a far trapelare qualche indiscrezione sulla congiura e sul fatto che molto presto lui, in virtù di questa azione, avrebbe ottenuto una posizione di potere. Alla fine raccontò tutti i particolari e soprattutto l’intenzione dei congiurati di uccidere i consoli in carica. Fulvia non si fece sfuggire l’occasione di sfruttare queste informazioni e così si presentò a casa di Cicerone e gli raccontò tutto quello che aveva appreso dal suo amante.

Il console, il 23 settembre, si presentò in Senato e mise a conoscenza l’assemblea di ciò che aveva appreso, anche se con riferimenti generici e senza rivelare la fonte. Non fu molto convincente perché il Senato non prese alcuna decisione in merito e lo stesso Catilina non cambiò idea, continuando a farsi vedere tranquillamente in giro per Roma e proseguendo nel suo intento rivoluzionario.

Cicerone veniva esortato dalla moglie Terenzia a rivelare tutto, anche la sua fonte, per convincere il Senato a prendere l’iniziativa contro i rivoltosi, ma lui si limitò ad aumentare la sua scorta personale, tanto che Plutarco affermava che quando il console si presentava nel Foro, lo riempiva con il suo seguito.
In aiuto del console venne Marco Licinio Crasso, fortemente contrario alla possibilità che la ribellione avesse luogo. Aveva saputo con certezza quali fossero i piani dei congiurati che avrebbero scatenato la rivolta il giorno 27 ottobre a Fiesole, quando Caio Manlio avrebbe assunto l’iniziativa. Il giorno dopo sarebbero stati assassinati i consoli in carica e successivamente sarebbe insorta Praeneste.

Il 20 ottobre, il ricco cavaliere si presentò a casa di Cicerone e gli consegnò un pacco di lettere ricevute da lui e da altri suoi amici, dove uno sconosciuto li allertava rispetto alla rivolta, suggerendogli  di lasciare Roma per evitare di esserne coinvolti.
Il giorno dopo Cicerone convocò una seduta del Senato e fece leggere, ad ognuno dei destinatari delle famose lettere, il contenuto delle stesse.  Il giorno dopo Cicerone avvertì il Senato che in Etruria si erano già verificati episodi di ribellione, notizia che il console aveva ricevuto da Giulio Cesare che in quelle sedute evitava di presentarsi in Senato per evitare di essere troppo coinvolto nella vicenda, in un senso e nell’altro. E così a riferire i dettagli della rivolta fiesolana ci pensò Quinto Arrio, uno degli uomini più vicini allo stesso Cesare le cui dichiarazioni scossero i senatori, i quali, pur senza prendere alcun provvedimento nei confronti di Catilina, dichiararono lo stato d’emergenza e incaricarono i consoli di reprimere la rivolta. Cicerone si comportò con estrema prudenza e si occupò solo di garantire la sicurezza fuori Roma, mandando Quinto Marcio Re, che era in attesa del trionfo, a contrastare Caio Manlio.

Catilina, che continuava a protestarsi innocente, venne formalmente accusato da Lucio Emilio Paolo. A Roma in certe situazioni era normale che in attesa di processo gli uomini politici venissero consegnati in custodia ad altri senatori e la furbizia di Catilina fu quella di consegnarsi ad un suo segreto alleato;  così la casa, che doveva rappresentare la sua prigionia, divenne la base operativa della congiura. Il giorno 6 novembre venne presa la decisione di eliminare i consoli e il compito sarebbe toccato al senatore Lucio Vargunteio e al cavaliere Caio Cornelio. Ma ancora una volta Quinto Curio, ormai diventato un informatore del console, rivelò il piano e quando i due sicari si presentarono a casa di Cicerone la trovarono ben presidiata e furono respinti, anche se nei loro confronti non venne emesso alcun provvedimento restrittivo.

Cicerone convocò il Senato in seduta plenaria e qui pronunciò il famoso atto di accusa contro Catilina, passato alla storia perché successivamente riportato dallo stesso Cicerone nelle Catilinarie, un’opera giunta fino a noi, nella quale viene descritta l’intera vicenda, esaltando il ruolo che il console ebbe nella repressione della stessa.
“Catilina, fino a quando abuserai della nostra pazienza ?”, queste le parole con cui si apriva quest’atto di accusa nei confronti del senatore ribelle, e per la prima volta Catilina sembrò perdere la sua sicurezza. Il discorso impressionò Catilina, un po’ meno gli altri senatori che non votarono la proposta del console di esiliare il ribelle.

Ma Lucio Sergio Catilina capì che il suo arresto era ormai questione di ore e quindi abbandonò lui stesso la città per recarsi a Fiesole, dove si sarebbe ricongiunto con Caio Manlio. Per sviare i sospetti sulla sua fuga, fece sapere che si trattava di una sorta di esilio volontario e che si stava recando attraverso la via Aurelia, nella Gallia Narbonese. Arrivato nei pressi di Tarquinia, deviò verso Arezzo, ricongiungendosi con Caio Flaminio per poi successivamente recarsi a Fiesole, presso l’accampamento di Manlio.
Cicerone invece parlava al popolo e avvisava in modo indiretto tutti i complici di Catilina, esortandoli a prendere una decisione: mettere da parte i loro propositi oppure abbandonare la città per unirsi alla rivolta.

La notizia che Catilina si era ricongiunto a Manlio diede finalmente la possibilità a Cicerone e ai senatori di dichiararlo nemico pubblico, insieme chiaramente agli altri protagonisti conosciuti del tentativo di ribellione. L’altro console Caio Antonio venne incaricato di guidare la repressione.
A Roma, gli altri congiurati continuavano ad organizzare il loro piano che si sarebbe dovuto concretizzare alla metà di dicembre, quando i rivoltosi sarebbero usciti allo scoperto anche nell’Urbe, mettendo a ferro e fuoco la città ed eliminando Cicerone. Il console era informato di tutto, ma non aveva il coraggio di intervenire nei confronti dei congiurati contro i quali riteneva di non avere sufficienti prove, se non le soffiate del suo informatore, che del resto non godeva di grande credibilità.

In quei giorni a Roma c’era una delegazione dei Galli Allobrogi che accusavano il governatore Lucio Murena, sempre lui, di averli sottoposti ad un trattamento esasperante. Ma a Roma non trovarono alcuna soddisfazione alle loro lamentele tranne che da parte dei congiurati che riuscirono a convincerli ad appoggiare Catilina e la sua iniziativa. Venne raggiunto un accordo, ma i Galli non erano convinti di ciò che avevano fatto e si andarono a consultare con il loro protettore, Quinto Fabio Sanga, il quale a sua volta informò Murena e Cicerone di quello che stava accadendo. La delegazione gallica venne convinta a far sottoscrivere formalmente gli accordi raggiunti.
Lentulo, Cetego e Statilio, ignari dell’accaduto, accettarono la condizione e firmarono le tavolette di cera dove l’accordo era stato trascritto, senza sapere che in questo modo stavano firmando la loro condanna.

Infatti, quando il 3 dicembre la delegazione lasciò Roma per raggiungere la Gallia Narbonese, accompagnata da Tito Volturcio, venne fermata da una pattuglia nei pressi di Ponte Milvio che sequestrò le tavolette incriminate. Finalmente Cicerone aveva la prova della congiura.
I traditori vennero convocati presso il tempio della Concordia e ivi dichiarati nemici pubblici al pari di Catilina. Non vennero però imprigionati ma consegnati in custodia ad altri eminenti senatori, che avrebbero dovuto vegliare su di loro. Tra questi anche Giulio Cesare che ebbe in custodia Statilio.
Il giorno dopo Cicerone si presentò al popolo per pronunciare un ulteriore atto d’accusa contro i congiurati, mentre il 5 dicembre, venne convocata una seduta del Senato, per decidere della sorte dei colpevoli. Giunio Silano, che da lì a pochi giorni avrebbe assunto la carica di console, si pronunciò per la pena di morte e a lui replicò Giulio Cesare, che pur esprimendo una ferma condanna contro le azioni dei congiurati, suggeriva provvedimenti diversi. Il discorso di Cesare era soprattutto una requisitoria contro la sentenza capitale, che per la legislazione Romana, poteva essere comminata esclusivamente da un tribunale alla fine di un regolare processo e dava facoltà all’imputato di appellarsi al popolo per il supremo giudizio. Il Senato si divideva in due, mentre Cicerone non si esprimeva chiaramente né in un senso né nell’altro anche perché non voleva assumersi la responsabilità della sentenza.

Ma a quel punto emerse la figura di Catone il Giovane, che senza mezzi termini si esprimeva per la pena capitale, alimentando sospetti sulla posizione di Cesare, considerata troppo favorevole ai congiurati. L’intervento di Catone spostò l’assemblea nella direzione voluta dal senatore ultraconservatore e i patres si pronunciarono a favore della condanna capitale. Nella notte i cinque congiurati, Lentulo, Cetego, Statilio, Gabino e Cepario, venivano strangolati in una segreta del carcere mamertino.
in quella notte carica di tensione, anche Cesare rischiò di essere ucciso da un gruppo di giovani che componevano la scorta di Cicerone, che accusavano il pretore di essere un congiurato. A salvarlo il gesto dell’amico Scribonio Curione, che lo coprì con la sua toga, ma anche la mancata approvazione di Cicerone, che guardando i suoi uomini avrebbe scrollato la testa in segno di diniego. Nel Foro Cicerone annunciò al popolo la sentenza con una storica affermazione: “Vissero”; una parola che indicava che la sentenza era già stata eseguita.

Ma la ribellione in Etruria non era stata ancora domata e il tribuno Quinto Metello Nepote propose di richiamare Pompeo in patria per ristabilire l’ordine.
Era una proposta dirompente, in qualche modo un atto di sfiducia verso Cicerone e la classe politica oligarchica; alla proposta del tribuno si associò Caio Giulio Cesare. Nepote arrivò ad occupare il Foro e Giulio Cesare fu al suo fianco, ma il 3 gennaio del 62 a.C., i due uomini furono costretti a rinunciare alla loro azione che non piaceva neanche a Crasso, il quale temeva il ritorno di Pompeo. Il tribuno della plebe veniva estromesso dalla carica di tribuno mentre Cesare veniva da quella di pretore. Alcuni giorni dopo Cesare otterrà nuovamente la sua carica e verrà addirittura elogiato per il suo comportamento; aveva infatti accettato con disciplina il provvedimento dei suoi pari e si era chiuso in casa, invitando i suoi sostenitori a fare altrettanto.

Il questore Novio Nigro aveva tentato di coinvolgere Cesare nella congiura, usando le dichiarazioni di Quinto Curio e Lucio Vezio che dicevano di aver letto delle lettere spedite dal pretore allo stesso Catilina. Ma Cesare lo aveva affrontato e sconfessato duramente in Senato, ottenendo anche l’appoggio di Cicerone che ammetteva l’aiuto ricevuto da Cesare nella repressione della congiura stessa. Ai due “falsi” testimoni venne revocata la ricompensa che avevano ottenuto per la loro collaborazione contro Catilina e poi furono spediti in prigione insieme al questore Nigro, che era accusato di aver indagato senza l’autorizzazione del suo superiore (proprio il pretore Giulio Cesare).
Lo spauracchio del ritorno di Pompeo, che intanto aveva chiuso la sua campagna orientale, mise fretta agli aristocratici impegnati nella repressione delle bande di Catilina.
Avendo appreso l’esito disastroso del suo piano di insurrezione nell’Urbe, Lucio Sergio Catilina aveva rinunciato a marciare su Roma e si era diretto verso nord, verso la Gallia Transalpina, doveva sperare di trovare nuovi alleati.

Fu intercettato sulla via Emilia, da tre legioni comandate da Quinto Metello Celere. Allora Catilina tentò la marcia indietro ma si trovò di fronte le legioni comandate da Caio Antonio. La ritirata era avvenuta in modo disordinato e quindi Catilina affrontò lo scontro finale appoggiato solamente da 3000 uomini.
Lucio Sergio Catilina venne ucciso in battaglia insieme al suo luogotenente Caio Manlio: Caio Antonio usciva vincitore, dando un minimo di lustro all’aristocrazia senatoria che cercava di dimostrare che Roma poteva fare anche a meno di Pompeo.
Finiva nel sangue questo tentativo rivoluzionario guidato da un uomo che ha poi subito il giudizio eccessivamente pesante della storia, al quale però nessuno può disconoscere la coerenza con la quale seguì i suoi ideali fino alla morte.

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