Lâorfismo ò il più grande fenomeno religioso di carattere mistico che si affacci alla Grecia del sec.VI, in quel secolo così importante per la storia religiosa del mondo, giacchè in esso vediamo sorgere Confucio e Lao-tse in Cina, il Buddha nellâIndia, Ezechiele tra gli Israeliti, Zarathustra nellâIran, Pitagora tra gli Elleni. Il sec.VI ò per la Grecia unâepoca di profonda trasformazione sociale. Esso segna la fine del così detto medio evo greco, che sta tra il crollo delle antiche monarchie rispecchiate dai poemi dâOmero e il sorgere degli Stati democratici di cui Atene ò lâesempio più illustre. In questo secolo, che porta in sò la travagliosa gestione di una nuova òra, cadono le forti oligarchie in mezzo a convulsioni politico-sociali di cui quel tanto che sappiamo vale a darci unâidea, e attraverso questo doloroso travaglio il popolo acquista coscienza dei suoi diritti. In questâepoca agitata lâorfismo rappresenta, nella religione, lâanelito alla liberazione da un regime di oppressione e di violenza, il sacro rifugio degli spiriti migliori, dove ò promesso agli adepti conforto nel presente, libertà nel futuro. Perciò presso gli Orfici si trova così vivo lâorrore del sangue, così possente il desiderio della Giustizia (Dike) e della Legge (Nomos): Nomos e Dike, che così sovente ritornano nei frammenti orfici. Perciò a dio centrale della teologia e del culto orfico viene assunto Dioniso, il più giovane degli dei della Grecia, il dio caratteristico sopratutto per i suoi patimenti e per la sua morte ingiusta, il dio straniero e popolare venuto di Tracia, invece degli dei Olimpici che avevano fatto la gloria delle vecchie aristocrazie guerriere cantate da Omero. Perciò specialmente questo movimento mistico trova simpatica accoglienza presso i tiranni che si poggiano sul popolo per abbattere lâoligarchia. E così vediamo Onomacrito teologo orfico, fondatore della comunità orfica di Atene, vivere alla corte dei Pisistratidi e Clistene tiranno di Sicione attribuire a Dioniso gli onori mitici della spedizione dei Sette contro Tebe e proibire ai rapsodi omerici di entrare in Sicione perchè esaltano i Dori argivi e lâaristocrazia. Se questi sono i motivi di carattere politico-sociale che hanno suscitato o almeno oltremodo facilitato il rapido diffondersi dellâorfismo, che cosa dobbiamo pensare del fondatore, di Orfeo, il leggendario cantore tracio, capace di attirare non pur gli animali, ma tutta la natura al suono fascinatore della sua lira? La sua figura mitica ha in sò cotanti elementi, riflesso del sistema religioso che da lui prende nome, che non ò più possibile delinearne la figura originale1. Egli infatti ò originario di Tracia, come tracio ò Dioniso, la divinità centrale dellâorfismo; egli muore di morte dionisiaca in quanto viene sbranato dalle baccanti; a lui sono attribuiti inni, oracoli, formole catartiche che costituiscono il bagaglio dellâorfismo posteriore. Sicchè lâOrfeo della tradizione ci appare piuttosto figlio che padre della religione che porta il suo nome. Ma checchè si debba pensare della sua figura storica, certo alle origini del movimento orfico deve esserci stato un Orfeo, ossia un uomo di profondo ingegno teologico e di profonda ispirazione religiosa, il quale ha sollevato il preesistente mistero dionisiaco alla sua sublimazione orfica, inquadrandolo in una cosmogonia filosofica e sviluppandone le prescrizioni morali in vista del destino superiore riservato allâanima dellâiniziato ai misteri di Orfeo. Lâorfismo infatti ci si presenta come una sistemazione teologica dei misteri di Dioniso. Gli Orfici hanno accettato la figura di questo dio il più estraneo al pantheon olimpico, il più vicino allâanima del popolo per la sua vita fatta di emozioni profonde; hanno accettato anche il rituale di uccisione dellâanimale sacro con ingestione delle sue carni crude (omwjagia); ma hanno considerato questo sacrificio, come il memoriale, la riproduzione di un sacrificio primordiale, in cui Dioniso, sotto la forma di toro, subì per altrui violenza lo sbranamento (sparagmoz): odioso deicidio, gravido di conseguenze per la storia dolorante dellâumanità , ma dal quale ò pur scaturita la scintilla divina che si cela nella cenere della nostra materia, che solo la disciplina orfica può liberare facendola risalire al suo principio. Nella teologia orfica il mito di Dioniso viene inquadrato in una cosmogonia, la quale, presso un popolo, in cui era viva la tradizione di Esiodo, non poteva essere che quella esiodea, almeno come trama fondamentale, salvo quelle modificazioni che i caratteri peculiari della nuova credenza esigevano. Anche fra gli Orfici (e ne dobbiamo a Ferecide di Siro lâelaborazione conservataci dai frammenti del suo Pentemuchos “lâantro dai cinque fondi”, che sarebbero le cinque parti o elementi dellâuniverso: acqua, aria, terra, fuoco e tartaro) il mondo ordinato, il cosmo si sviluppa da un caos primitivo, per virtù di impulsi successivi, dovuti a figure divine, le quali però più che un valore naturistico, come nella teogonia esiodea, hanno un valore filosofico morale, conforme al pensiero orfico. Tre sono le essenze primordiali Zas (da zhn = vivere) che ò il principio della vita; Chronos, il principio del tempo; Chthoniò, il principio della materia. Sono queste che operano lâ ordinamento del mondo dopo una lotta che Chronos sostiene contro Ophioneus, il serpente, che ò il principio del caos, lotta che ricorda quella della Cosmogonia babilonese tra il luminoso dio ordinatore Marduk contro il dragone Tià mat. Secondo unâaltra versione, raccomandata alle così dette Rapsodie (orfiche) il cui contenuto ci ò conservato da Damascio, neoplatonico del sec.VI d. C., i tre elementi primordiali sono Chronos, Aither e Chaos. Chronos fabbrica nel seno di Aither un uovo da cui esce Phanes, il Brillante. Questi si accoppia con la Notte oscura e produce la coppia terra e cielo, da cui â secondo la ferrea legge di Adrastea, la Necessità che impera su tutto lâuniverso â nasce il vecchio Krono, che genera Zeus il quale a sua volta genera, da Persefone, Dioniso. Con Dioniso il mondo divino si riannoda allâumano. Lâaccoppiamento di Phanes con Nyx, del luminoso con la tenebrosa, ò un motivo nuovo nella teogonia dei Greci. La coppia generatrice primordiale non ò più il cielo e la terra, coppia così ovvia nella sua limpidità naturistica che la si trova intuita ed esaltata anche dalla cosmogonia polinesiana: ma ò la luce e le tenebre cioò il bene e il male, lâelemento dionisiaco e lâelemento titanico. Il Dioniso, figlio di Zeus e di Persefone, lâultima figura delle generazioni divine, riceve nellâorfismo il nome particolare di Zagreo, col quale si riannoda in modo tutto speciale al mondo infero2. Egli ha ricevuto da suo padre lo scettro del mondo. Ma i Titani, figli della Terra, elemento oscuro e tenebroso â i quali si trovano qui forse anche in quanto possono rappresentare la trasformazione mitica di un elemento rituale del culto dionisiaco: la spalmatura di argilla (titanoz, che si operava sulla faccia degli iniziati) â aizzati dalla gelosa Hera ne insidiano lâesistenza e mentre Zagreo, ingenuo fanciullo, si diverte nei campi, lo traggono in inganno con vari oggetti (che corrispondono agli strumenti secondari del rituale orfico) tra cui più importante uno specchio. Egli cerca di sfuggire alla presa cambiando di forma, ma i Titani riescono a catturarlo proprio quando ha assunto quella di toro, lo fanno a brani e lo divorano crudo. Ma Athena salva il cuore di Dioniso e lo porta a Zeus, il quale lo trangugia e genera poi da Semele un nuovo Dioniso, gloriosa resurrezione dellâantico. I Titani per la loro empietà sono colpiti dalla folgore di Zeus e dalle loro ceneri si forma il genere umano, nel quale perciò si trovano riuniti i due elementi, il bene e il male, il titanico e il dionisiaco, fusi insieme fin da quando i Titani divorarono il corpo divino di Zagreo3. Tutta la disciplina orfica consiste appunto nella liberazione dellâelemento luminoso, celeste, dionisiaco, che ò lâanima, dallâelemento oscuro, materiale, titanico che ò il corpo. In questa ricostruzione del mito di Zagreo, laboriosamente, ma in maniera definitiva operata dallâeruditissimo Lobeck, si ritrovano tutti gli elementi fondamentali dellâantico sacrificio dionisiaco: Dioniso sotto il nome di Zagreo, il toro sacrificale, lo sbranamento (sparagmos) della vittima, il pasto delle carni crude (omofagia). Questi elementi producono ritualmente ancora tutta la virtù religiosa perchè il rito trae sempre dalle sue proprie viscere lâefficacia della sua azione indipendentemente dalle orientazioni del mito. Ma mentre nel concetto dionisiaco il sacrificio aveva lâinebbriante valore di una comunione estatica col dio, volta per volta rinnovata, nella teologia orfica il sacrifizio ò il memoriale di una primeva immolazione che ò un misfatto, un deicidio, da cui deriva la triste posizione dellâuomo su la terra, la sua oscura prigionia, dalla quale ò lunga e difficile la liberazione. Sul destino dellâanima e sui mezzi per raggiungerlo riposano la morale e lâ escatologia orfiche: morale ed escatologia di altissimo significato, che hanno offerto alla speculazione posteriore le più ricche fonti di ispirazione e alle anime pie le ebbrezze più dolci e le certezze più consolatrici. Lâanima adunque per gli Orfici ò di origine divina ed il corpo ò una tomba (swma, shma) in cui essa ò precipitata in seguito a una colpa primordiale. E la distanza che separa la prigione oscura del corpo dalla sede beata a cui lâanima anela di risalire si può abbreviare e sopprimere soltanto a prezzo di una espiazione, purificatrice, di una catarsiz. Questa espiazione si può compiere battendo due strade. La prima ò quella delle rinascite poichè non basta una sola vita a compiere lâespiazione e lâanima ò condannata a trasmigrare di corpo in corpo, in una successione di vite che ritorna in se stessa come un circolo: il cerchio della generazione (o cucloz thz genesewz) che gira inesorabilmente, come una ruota, la ruota del Destino (o thz Moiraz trocoz). Questâidea, derivata certo dalla credenza popolare della trasmigrazione delle anime, che si riscontra nel folklore di tutti i popoli e può assurgere, come in India ò assurta, a grande altezza di significato filosofico, ha avuto nellâorfismo uno sviluppo assai grande. La visione di questo ciclo inesorabile pesa su gli occhi e su lâanima dellâorfico e la sua più grande gioia ò di poter gridare la rottura della ruota e il ritorno dello spirito liberato al suo principio4. La seconda strada ò quella della purificazione nellâAde luogo di terrori e di delizie dove lâanima scende dopo la morte, ma dove non trova ad ogni modo la sua gioia, anche nella più gaudiosa delle situazioni, perchè il suo unico gaudio ò di riunirsi al suo principio châò Zagreo. Per raggiungere lo scopo suo finale che ò di riunirsi alla divinità , di fondersi in quellâUno che soffre e si perde effondendosi nella pluralità delle creature, come si esprimevano filosoficamente i neoplatonici cresciuti nel solco del pensiero orfico, lâ Orfico si impone una vita di purità , di ascetismo, di purificazioni cerimoniali, i cui meriti erano applicabili anche ai defunti, e le cui prescrizioni erano contenute in appositi rituali e venivano da sacerdoti orfici eseguite a beneficio di privati e di città . Anche segni esteriori contraddistinguono chi mena una vita siffatta: una veste bianca; orrore di tutto che implica un contatto mortuario, come a) la vicinanza delle tombe, b) il mangiare i legumi che sono lâofferta precipua che si fa ai defunti, c) il vestir di lana, anche nella tomba, perchè la lana fu il mantello di un animale, d) il gustare uova e carne, perchè anchâesse in contatto con le anime peregrinanti nei cicli vari della metempsicosi; fuggire la generazione dei mortali (cenesin broton) nel senso assai diffuso, di evitar la polluzione della partoriente. Queste prescrizioni sono tutte contenute in un prezioso frammento euripideo che si può considerare come il più importante documento della liturgia orfica. Esso appartiene ad una tragedia perduta, intitolata I Cretesi, il che si spiega considerando che in Creta il culto e il mito di Dioniso si era fuso con quello indigeno di Zeus Ideo, un dio anchâesso che nasce e muore, dal nome ignoto, che soltanto per sua grande importanza nellâisola fu dai Greci assimilato alla loro massima divinità olimpica, di origine e di etimologia indoeuropea: “Io meno una vita santa da quando son divenuto iniziato di Zeus Ideo ed essendo pastore del nottivago Zagreo, ho compiuto la celebrazione omofagica ed ho agitato le fiaccole in onore della madre dellâIda. Santificato ho ricevuto il titolo di Bacco, tra i Cureti. Ora io indosso bianchissime vesti e fuggo il parto dei mortali, nè mi accosto alle tombe e mi guardo dal cibarmi di esseri animati”. Per chi ha condotto unâesistenza pura si apre, al di là della tomba, una prospettiva che ha fatto palpitar di speranza generazioni e generazioni di Orfici ed ha dettato a Pindaro unâalata descrizione. NellâAde orfico regnano Eubuleo (il ben consulto) che ò epiteto di Dioniso infero, Ade detto anche Eukles (il ben nomato) e sopratutto Persefone che predomina nella concezione orfica popolare. Vi sono due vie principali che si diramano dallâingresso, a destra e a sinistra a foggia di un Y, e menano ai prati fioriti dei buoni, al Tartaro punitore dei malvagi. Vi scorre il Lete o fiume dellâoblio, proprio dellâAde ove non vâò ricordo della vita, concetto caro agli Orfici che hanno abbandonato la vita oscura del mondo per attingere in Zagreo la scaturigine della vita divina. Appena entrato nellâAde lâOrfico deve prendere non la sinistra via infausta, degli spiriti mali, segnata da un pioppo bianco, ma la destra che lo guida alla fonte di Mnemosine, da cui appositi guardiani tengono lontano chi non ha avuto il privilegio dellâiniziazione. Dà la parola dâordine che lo dichiara figlio di Urano e Gaia, del cielo e della terra, ossia partecipe del composto dionisiaco e titanico conforme al mito cosmogonico della setta e domandano alla Regina degli Inferi, Persefone, che lo giudichi (ò questo un concetto nuovo prettamente orfico) e lo destini alla dolce primavera dei suoi campi nellâattesa del finale ritorno nellâUnico Zagreo. Tutta questa escatologia ci ò esposta dallâuna o dallâaltra delle laminette auree trovate in tombe orfiche5 nella Magna Grecia, a Roma, in Creta. Queste laminette lunghe pochi centimetri, ripiegate più volte come pezzettini di carta, sono state trovate appese al collo o a portata della mano del defunto come guida e promemoria e amuleto insieme del suo viaggio ultramondano. Contengono formule brevi (e per due di esse incomprensibili) di carmi apocalittici orfici in cui si effondeva la vita devozionale degli adepti e dove era affermata la loro fede ed esaltata la loro speranza. Si trovano ora nel Museo di Napoli (cinque), nel Museo Britannico (due) e in quello di Creta (quattro). Una trattazione, sia pur breve, su lâorfismo non può prescindere dalla lettura di queste vetuste laminette, che hanno anche il pregio di essere documenti originali della fede orfica a noi consegnati quasi dalla mano stessa dei defunti. Vi si sente fremere un desiderio di purificazione, un anelito verso il meglio, una sete di vita divina, che non trova lâuguale nella esperienza religiosa dellâantichità classica e che ò la fonte di quanto Eschilo, Pindaro, Platone tra i Greci; Cicerone e Virgilio tra i Latini hanno scritto ad esaltazione della speranza religiosa. Si legge nella laminetta proveniente dallâantica Petelia presso lâattuale Strongoli in Calabria, trovata nel 1834, ora nel Museo Britannico: “E tu troverai a sinistra della casa di Ade una fonte e ritto ivi presso un cipresso bianco; a questa fonte tu neppure ti accosterai da presso; unâaltra ne troverai scorrente fresca acqua dal lago di Mnemosine; guardiani vi stanno dinanzi. Dirai: “Figlio di Gea son io o di Uranos stellato, e celeste ò la mia stirpe, e ciò pur voi sapete. La sete mi arde e mi consuma; or voi datemi subito della fresca acqua scorrente dal lago dì Mnemosine”. Ed essi ti lasceranno bere alla fonte divina ed allora tu in seguito regnerai con gli altri eroi”. Questa laminetta ò la più importante per la topografia dellâAde orfico e per quella formola breve e recisa in cui ò racchiusa la dottrina fondamentale dellâorfismo: emoi genoz ouranion “la mia stirpe ò celeste”. Nella certezza di questa dottrina, che anche gli dèi sanno, ò riposto per lâ Orfico il pegno della sua sorte futura. LâOrfico ò di cielo ed al cielo deve tornare. Altre quattro laminette trovate in due tombe diverse presso lâantica Thurii (attuale Terranova di Sibari) nel 1879, ora nel Museo di Napoli, sono caratteristiche per nuovi elementi che offrono e che più efficacemente risalteranno dalla lettura. Delle quattro la prima scritta in verso e prosa ò stata trovata nel timpone (o tomba a tumulo) grande di Thurii, e dice: “Ma quando lâanima ha abbandonato la luce del sole bisogna che vada da un tale, di sagace intelligenza, che osserva bene ogni cosa. Salve! Col sopportare questo patimento tu non più oltre hai patito, da uomo sei diventato dio: capretto caduto nel latte. Salve. Salve o tu che hai preso la via destra verso i sacri prati e i boschi di Persefone”. QuellâUno di sagace intelligenza ò Pluto il giudice dellâAde; concetto nuovo nellâ escatologia dei Greci per i quali lâAde racchiude in una uguale vita incolore i buoni e i tristi, i valorosi e glâinetti, Achille e Tersite. Mentre con gli Orfici si introduce la sanzione del bene e del male, che cambia lâorientamento morale della vita ed ò indice di un elevamento della coscienza non solo individuale ma anche sociale. Il patimento che lâanima ha sopportato ò il ciclo delle nascite, la legge ferrea della trasmigrazione, da cui la espiatrice vita orfica lâha liberata. Ed ò impressionante quel senso di sollievo, quel salve! ripetuto tre volte come un ebbro compiacimento per la sorte beata dellâanima ormai libera dal duro contatto col male e colle tenebre. Le altre laminette, a, b, c, trovate pure a Thurii ma nel timpone piccolo in una sepoltura unica di famiglia o di sodalizio, sono la copia di un medesimo originale, salvo, nella seconda e nella terza, unâaffermazione capitale per la teologia orfica, e un maggiore sviluppo che la prima contiene sul volo dellâanima dopo rotto il cerchio fatale. La laminetta a: “Io, pura fra i puri, vengo a voi o regina deglâinferi o Eukles o Eubuleo, e voi altri dei immortali! Poichè io mi pregio di appartenere alla vostra stirpe beata. Ma la Moira e il balenare del fulmine mi abbattò inaridendomi. Ma io me ne volai via dal cerchio luttuoso e duro e con rapido piede raggiunsi la bramata corona, e discesi nel grembo della signora regina infernale. Felice e beatissimo te che da uomo divenisti dio. Capretto, io caddi nel latte”. Le laminette b e c: “Io pura fra i puri vengo a voi o regina deglâinferi, o Eukles, o Eubuleo, e tutti quanti altri siete dèi e spiriti. Poichè io mi pregio di appartenere alla vostra stirpe beata. Ma la Moira e il balenare del fulmine mi abbattè inaridendomi. Questa punizione fu inflitta a causa di opere non giuste. Ora io supplichevole vengo innanzi alla santa Persefone affinchè benigna mi mandi nelle sedi dei pii”. Queste tre laminette (a, b, c), di Thurii sono notevoli: 1° â per lâ affermazione della purità che contraddistingue lâorfico, il quale da se stesso si chiama il puro che vive in una schiera di puri: “Io pura fra i puri vengo a voi ecc.”; 2° â per lâaffermazione in b e c di quella ingiustizia, di quella colpa iniziale (che ò il deicidio di Zagreo) di cui tutte le anime hanno pagato il fo subendo la fulgurazione di Zeus nella persona dei Titani e soffrendo nel corpo che le imprigiona una sete che le inaridisce; 3° â per lo slancio con cui lâanima spezza i lacci della sua prigionia e se ne vola a raggiunger la bramata corona, slancio paragonato con efficace similitudine al volo (exeptan) di un uccello liberato dalle reti; 4° â per la frase caratteristica: “Capretto, io son caduto nel latte” che si trova in a e che ricorda quella (formulata in seconda persona) del timpone grande di Thurii: “tu capretto sei caduto nel latte”. Questa frase significa non il ritorno dellâanima (il capretto) nella Via Lattea, cioò nel cielo; non un rito dâ immersione dellâiniziato in un bagno di latte e nemmeno una semplice locuzione proverbiale nel senso che lâiniziato sia puro come un capretto lattante. Ma significa, conforme al meccanismo mistico dellâiniziazione, che lâiniziato assimilandosi al divino capretto che ò Dioniso (il quale ò difatto appellato erijoz nei cosiddetti inni orfici) ò diventato un Dioniso anche lui: e che si ò immerso nel latte, cibo del capretto nato di fresco, in quanto anche lâOrfico, attraverso lâiniziazione si ò tuffato in una vita nuova e divina, fatta di quella purità di cui il candido latte, alimento di neonati e alimento di vegetariani doveva essere presso gli Orfici lâespressione più ovvia e più conveniente. Essa equivale a questâaltra: “Io nuovo Dioniso, ho raggiunto la vita divina”. Il che ò confermato dal fatto che la frase viene, nei due casi in cui ò ricordata, subito dopo lâaffermazione recisa: “da uomo sei diventato dio”, quasi fosse lâespressione trasparente della trasumanazione dellâOrfico, del suo assorbimento nel dio, del suo indiarsi attraverso lâiniziazione mistica. Altre tre laminette, tutte uguali, ora conservate nel Museo di Atene, sono state ritrovate nel 1893 presso Eleutherna in Creta, dove il culto di Zagreo aveva, come abbiamo accennato, una larga diffusione. Contengono tre soli versi che dovevano appartenere al medesimo carme apocalittico della laminetta di Petelia: “Ardo di sete e mi consumo. Or via, châio beva della fonte perenne, a destra, là dovâò il cipresso. Chi sei tu? donde sei? Figlio di Gea son io e di Uranòs stellato”. Questi versi nella loro brevità sono di una eloquenza impressionante. Quella sete che consuma lâanima non ò più lâarsura materiale che tutti i primitivi attribuiscono ai defunti e a cui provvedono fornendo al cadavere orciuoli di acqua e pregando per il suo rinfrescamento o refrigerio, ma ò la sete della beata immortalità che sì attinge alla fonte di Mnemosine, unico possibile refrigerio per chi sa di esser figlio del cielo stellato. E lâanelito a ricongiungersi al divino principio da cui ò uscita e 1âaccoramento, quasi, con cui implora lâacqua rinfrescante di immortalità , sono una prova efficacissima dellâelevazione mistica a cui lâorfismo poteva sollevare i suoi fedeli. Resta da menzionare lâultima laminetta, che può rimontare al II secolo d.C., trovata in Roma sulla via Ostiense e pubblicata nel 1903, ora conservata nel Museo Britannico. Appartiene a una pia matrona romana, Cecilia Secondina, e rappresenta il primo caso in cui si trova il nome dellâiniziato, caso spiegabile però su terra di Roma, dove nemmeno la religione dimenticava tutte quelle norme e precauzioni giuridiche che servivano a individuare le persone e a fissare le cose, nei rapporti tra gli uomini e la divinità . Cecilia Secondina era ascritta a uno di quei sodalizi orfici che avevano continuato a vivere in Italia non ostante la severissima soppressione, ordinata dal Senato, dei Baccanali6 cioò del culto orgiastico di Dioniso, perchè lâorfismo, come abbiamo più sopra accennato, si differenzia dalle celebrazioni dionisiache per una sua caratteristica tutta speciale di equilibrio religioso, di speculazione filosofica e di elevazione morale. Dice la laminetta di Cecilia Secondina: “Viene, pura fra i puri, a voi o regina deglâinferi, o Eukles, o Eubuleo, unâanima, nobile figlia di Zeus. Io Cecilia Secondina ho avuto da Mnemosine questo dono, tanto decantato tra gli uomini, perchè ho sempre trascorso la vita nellâosservanza della Legge “. Si sente bene che si tratta qui di una Romana, che ha inquadrato il suo misticismo religioso entro una severa cornice etica. Non si leva a voli mistici Cecilia Secondina, non lamenta seti tormentose. Essa dichiara la sua prerogativa di “pura tra i puri”, cioò di orfica, vanta la sua stirpe divina ed afferma di aver avuto il dono di Mnemosine, cioò la beatitudine per aver sempre vissuto secondo la Legge, cioò secondo la disciplina orfica. Nel suo laconismo questa breve laminetta romana non ò meno preziosa delle altre. Essa dimostra la persistenza dei sodalizi orfici in piena epoca imperiale, in ambiente completamente estraneo, sia come origine sia come tenore di vita, a quello in cui lâorfismo fiorì. Essa dimostra come questo ideale fosse ancor capace dâimprimere un nuovo orientamento alla vita e di farla trascorrere con lâaustera gioia del dovere compiuto, sopra la via tracciata dalla Legge morale. La misteriosofia orfica ha avuto su terra greca prima, nellâambiente ellenistico poi, delle ripercussioni religiose di primâordine. Essa ha innalzato lâanima religiosa dei Greci, ha nobilitato la visione morale della vita, ha irradiato dì luce beata le tenebre fino allora oscure dellâ oltretomba, ha dato agli uomini la divina certezza di guardare in alto al cielo come a loro patria, ed ha suggerito loro i mezzi appropriati, la Legge, per camminare in purità di vita, conservando lâanima candida come la veste prescritta dal rituale. La sua influenza su le manifestazioni del pensiero e dellâarte ò incalcolabile. Il più inebbriante dialogo platonico, il Fedone, ò un dialogo orfico; la tragedia dellâebbrezza divina in Euripide, le Baccanti, ò una tragedia dionisiaca; quel famoso Sogno di Scipione, in cui Cicerone ha consegnato in momenti di sconforto il suo grido di speranza e dâimmortalità , ò un sogno orfico; il libro sesto di Vergilio, la cui lettura commosse Livia fino al deliquio, ò stato scritto sotto lâispirazione orfica. E se si considera quel fermento spesso incomposto e squilibrato dâidee che allâalba del cristianesimo dilagò in Oriente sotto il nome complesso di gnosticismo, si troverà ancor lì, giuntovi per mezzo della grande corrente neoplatonica, sia pur rafforzato da elementi dualisti iranici e da speculazioni astrali babilonesi che poi culmineranno nella strana religione manichea, quello che ò il pensiero centrale dellâorfismo: che lâuomo ò un miscuglio di bene e di male, che lâanima ò un raggio di luce divina nelle tenebre della materia e che tutto il dovere dellâuomo consiste nel procurarsi la gnosi, la dottrina vera che gli insegna insieme la realtà di questa sua situazione e gli addita la via della liberazione. Gli elementi di questo pensiero â che come intuizione oscura non ò estraneo alla mentalità popolare di ogni tempo, per poco che consideri la tristezza della sua realtà e la paragoni con il fulgore del suo sogno â sono suggeriti già dal culto orgiastico di Dioniso il quale, sollevando le anime durante lâebbrezza mistica a uno stato sopranormale, dette loro la sensazione viva di una vita divina, più gaudiosa di quella ordinaria, che lâanima può vivere in quei momenti speciali. Il grande movimento orfico, sorto in unâepoca in cui gli spiriti migliori sentivano il bisogno di uscire dalla distretta dolorosa di un mondo in convulsione, assorbì il mistero dionisiaco e ne fece la piattaforma del suo sistema teologico, la fonte dispensatrice dei suoi carismi religiosi. La Grecia non ci ha dato nulla di più alto in materia di esperienza religioso-mistica. N. Turchi NOTE: 1 â Lâetimologia stessa del nome ò assai incerta. Il Kern ha recentemente accettato quella che lo ricollega con orjanoz (lat. orbus) nel senso di solitario, il che quadra con la sua concezione degli Orfici come di gente, in un primo tempo, solitaria, appartata e poi strettasi nelle note conventicole orfiche. Data la parte larghissima che le preoccupazioni ultramondane hanno nellâorfismo, il nome di Orfeo può riconnettersi, secondo unâetimologia suggerita già da G. Curtius, a quello di ereboz (rad. orj = tenebre) in relazione allâoscurità dellâAde: si hanno di fatti: Orphos dio del mondo infero, Orphne ninfa del lago Averno, Orphnaios cavallo di Plutone. Orfeo infatti secondo il mito scende nellâAde, donde cerca di trarre fuori Euridice, divinità anchâessa del mondo infero. Assai più strana ò lâetimologia proposta recentemente da R. EISLER, Orpheus, the Fisher, London, 1921, il quale poichè i pesci nel santuario di Apollo in Licia erano detti drjoi fa di Orfeo il “pescatore”. 2 â Zagreo infatti ò giusta lâEtym. Gud. 227, 37 il gran cacciatore (di anime) che travolge ogni cosa: divinità ctonica e perciò considerata come figlio di Persefone. 3 â Olympiod. ad Phaed. p. 68 [45]; Procli ad Remp. f. 55 v. [44]. Secondo Pausania 8, 37, 5, [38] Onomacrito â il quale era stato il primo ad introdurre in Atene, a tempo di Pisistrato, il culto segreto di Dioniso â fu quegli che introdusse i Titani nel mito di Zagreo. 4 â Anche Pitagora professa la medesima dottrina. Ma conviene rilevare che non ò stato Pitagora a parteciparla agli Orfici, ma che lâuno e gli altri lâhanno attinta alla stessa mentalità popolare. Se mai, Pitagora ò tributario dellâorfismo posto che Diogene Laerzio [1, 119] lo fa discepolo di Ferecide di Siro. Orfismo e pitagorismo sono due aspetti della medesima tendenza religiosa: più entusiasta, visionario, individualista, democratico, lirico, lâorfismo; più ponderato, dotto, disciplinato, aristocratico, scientifico, il pitagorismo. Distrutto lâ organismo politico creato nella Magna Grecia con centro a Crotone, la parte scientifica del pitagorismo rimase in eredità alle scuole filosofiche e quella morale allâorfismo. Cfr. DELATTE, Essai sur la politique pythagoricienne, Paris 1922. 5 â Il modo di sepoltura prescelto dagli Orfici, quale almeno si può studiare nella necropoli di Thurii (Terranova di Sibari) attesta anchâesso il nuovo orientamento di pensiero e di vita portato da questa religione. Gli Orfici seguivano indifferentemente il rito della inumazione (timpone piccolo) o della cremazione (timpone grande), ponevano il cadavere o i resti inceneriti sotterra ricoperti da un bianco lenzuolo tra massicci blocchi di tufo. Presso il capo o vicino alla mano destra collocavano le preziose laminette. Del resto non lusso di marmi, non ricordo di nomi. I loro sepolcri in cui più persone della stessa famiglia o dello stesso sodalizio potevano essere sepolti (ma non estranei alla fede orfica, conforme alla prescrizione contenuta in una iscrizione cimiteriale cumana illustrata dal Comparetti, Laminette p. 47 ss. “ou temiz entouqa ceisqai ei mh ton bebacceumenon: Non ò lecito seppellire qui chi non sia iniziato a Dioniso”) sono venuti crescendo in forma di tumuli emergenti sul piano di campagna a causa dei detriti di celebrazioni funerarie compiute sopra di essi. Donde il nome caratteristico, che tuttora essi conservano, di timponi (da tumboz, tumulo funebre). Vedine la particolareggiata descrizione in CAVALLARI, Not. Scavi, 1879 p. 80 ss. riprodotta in COMPARETTI, Laminette p. 5 ss. 6 â Le circostanze che indussero il Senato alla soppressione del culto di Dioniso sono lungamente narrate da Tito Livio, 39, 14-19 [32] da cui si rileva il carattere orgiastico tutto proprio di quei misteri. Il Senatusconsulto, che Livio riassume, ci ò conservato da una tavola di bronzo, ora a Vienna, destinata allâ”Agro Teurano” e ritrovata nel 1640 presso Catanzaro [31]. Le disposizioni ne erano severissime: potevano sussistere congregazioni dionisiache, là dove un decreto del pretore urbano le avesse permesse, previa autorizzazione del Senato, purchè non comprendessero più di cinque membri di cui due uomini e tre donne. Secondo S. REINACH, Une ordalie par le poison à Rome et lâaffaire des Bacchanales in “Cultes, Mythes et Religions” III, 244 ss., lâepisodio va spiegato come una misura di repressione politica in quanto il Senato vincitore dei Cartaginesi e dei Cisalpini temeva una coalizione del mondo ellenico (Macedonia e Siria) che avrebbe potuto trovare nellâItalia meridionale un aiuto assai efficace. G. DE SANCTIS, Storia dei Romani vol. IV, I, Torino, 1923, p. 599 approva la giustificata diffidenza del Reinach circa la credibilità del racconto liviano ed attribuisce la esagerata repressione al prevalere delle tendenze conservative, dopo la decadenza del predominio degli Scipioni.
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