La Coscienza di Zeno: analisi e personaggi - StudentVille

La coscienza di Zeno

La Coscienza di Zeno: scheda libro, analisi e riassunto del romanzo, corredato con cenni biografici su Italo Svevo e le sue tematiche più importanti.

La coscienza di Zeno: scheda libro, riassunto e analisi

Italo Svevo, notizie sull’autore

Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz (Trieste 1861 – Motta di Livenza, Treviso 1928), romanziere italiano, la cui opera costituì un momento di passaggio tra le esperienze del decadentismo italiano e la grande narrativa europea dei primi decenni del Novecento. La coscienza di Zeno, in particolare, avrebbe influenzato la narrativa italiana degli anni Trenta e del dopoguerra. Di famiglia ebraica, Svevo riuscì, grazie anche alle caratteristiche culturali di una città come Trieste, allora parte dell’impero austroungarico, ad assimilare una cultura mitteleuropea, che gli consentì di acquisire uno spessore intellettuale raro negli scrittori italiani del tempo. Al centro di questa sua formazione stanno da una parte la conoscenza della filosofia tedesca (soprattutto di Nietzsche e Schopenhauer) e della psicoanalisi di Freud e, dall’altra, l’interesse per i maestri del romanzo francese, da Stendhal a Balzac fino al naturalismo di Zola, e per i grandi narratori russi quali Gogol’, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij e Cechov.
Svevo compì o approfondì queste letture nel tempo libero che gli lasciava il suo lavoro di impiegato in banca, che dovette iniziare nel 1880 dopo il fallimento della ditta paterna. Intanto collaborava come critico teatrale e letterario a “L’indipendente”, giornale triestino sul quale nel 1890 comparve a puntate la sua novella L’assassinio di via Belpoggio. La sua esperienza di impiegato gli ispirò la prima opera pubblicata in volume, Una vita (1892). Il romanzo, che portava in origine il titolo “Un inetto”, è incentrato sul personaggio di Alfonso Nitti, incapace di adattarsi alle leggi e all’ambiente dell’ufficio e infine sconfitto dalla sproporzione tra le alte aspirazioni (la pubblicazione di una grande opera, il successo in società) e la sua incapacità di tradurre l’ideale in azione. Il romanzo successivo porta il titolo Senilità (1898), dove il riferimento non è al dato anagrafico bensì alla patologica vecchiaia psicologico-morale di Emilio Brentani.
Questa seconda figura sveviana dell'”inetto” è circondata da altri personaggi che acquistano nuovo spessore rispetto al romanzo precedente: la sorella Amalia, malinconica e “incolore”; Stefano Balli, scultore di poca fama ma uomo energico nella vita e fortunato con le donne; e la procace, sensuale ed esuberante Angiolina. Emilio, letterato di scarso successo, prende a modello l’amico Balli e, nel tentativo di riscattare la mediocrità e il grigiore della propria vita, intreccia con Angiolina una relazione che si rivelerà fallimentare per l’incapacità di Emilio di tradurre in pratica la lezione dell’amico e per la tenacia con cui proietterà nella donna i propri sogni idealizzanti.

L’insuccesso dei primi due romanzi indusse Svevo a circa vent’anni di silenzio letterario, ma, nonostante le responsabilità imposte dalla sua nuova posizione di dirigente nella ditta di vernici del suocero, Svevo non cessò del tutto di coltivare la letteratura, come testimoniano alcuni suoi racconti: l’inizio della stesura della Madre, ad esempio, risale al 1910, sebbene il racconto sia stato pubblicato postumo, nel 1929, nella raccolta La novella del buon vecchio e della bella fanciulla; e prima del 1912 si colloca anche la scrittura di alcune delle prose brevi raccolte nel volume Corto viaggio sentimentale, pubblicato nel 1949.

Nel 1905 Svevo cominciò a prendere lezioni di inglese da James Joyce, con il quale intrecciò un’amicizia che si sarebbe rivelata feconda per il suo futuro percorso letterario. Joyce, che soggiornò a Trieste fino al 1915, lesse con entusiasmo le opere di Svevo (soprattutto Senilità) e lo incoraggiò a scrivere un nuovo romanzo.
Svevo, da parte sua, poté leggere non soltanto le opere joyciane già pubblicate ma anche i manoscritti di quelle ancora in fase di stesura (certamente lesse Dedalus). Intanto, nel 1908, si era accostato all’opera di Freud, che gli avrebbe fornito altri fondamentali strumenti per scandagliare la “coscienza” del terzo inetto, Zeno Cosini.

Fu durante la prima guerra mondiale che Svevo cominciò a elaborare La coscienza di Zeno (1923), unanimemente considerato il suo capolavoro. In questo romanzo l’autore sviluppa un’analisi psicologica di straordinaria profondità e costruisce tecniche narrative modernissime, soprattutto per la tradizione del romanzo italiano. La prima pagina, scritta nella finzione letteraria dallo psicoanalista di Zeno, presenta la narrazione come un’autobiografia del paziente, una rievocazione del passato richiesta dal medico come tappa preliminare alla terapia analitica. E attraverso la rappresentazione interiore della nevrosi del protagonista e narratore, l’autore riesce a rendere la soggettività del pensiero e dei ricordi, in una narrazione che appare ormai quasi completamente svincolata dalle convenzioni realistiche ottocentesche.
Ma la novità di Svevo sta anche nella sua dissacrante ironia, nella costruzione di un protagonista radicalmente antitragico e antieroico. Furono Eugenio Montale e Joyce ad avviare la “scoperta” di Svevo, il primo pubblicando nel 1925 Omaggio a Italo Svevo sul periodico milanese “L’Esame” e il secondo parlando dello scrittore triestino agli amici Benjamin Crémiex e Valéry Larbaud, che nel 1926 dedicarono a Svevo un numero della rivista parigina “Le Navire d’Argent”.
Tuttavia la fortuna critica ebbe consacrazione ufficiale un anno dopo la morte dello scrittore – avvenuta in un incidente automobilistico – con un numero speciale dedicato a lui dalla rivista fiorentina di letteratura “Solaria”.

Rapporto con la psicanalisi

Se si sa con certezza che le teorie psicanalitiche di Freud, sviluppatesi fra ‘800 e ‘900 influenzarono notevolmente Svevo, non si sa di preciso quando egli le conobbe, sembrerebbe fra 1908 e 1912, infatti, iniziò ad occuparsi di psicanalisi nel 1911, discutendone con un allievo di Freud e leggendo alcune opere del filosofo.
Svevo non condivise pienamente le teorie freudiane, accettandone solamente quelle che confermavano quanto lui già pensava della psiche umana; il suo rapporto con la psicanalisi può essere definito duale, infatti, da un lato egli ne fu affascinato, poiché ne apprezzava l’attenzione riservata ai gesti quotidiani più banali (lapsus, vuoti di memoria.), ma soprattutto perché vedeva la coincidenza fra l’inconscio di Freud e la volontà di vita irrazionale di Shopenauer; d’altro canto Svevo fu turbato dalla psicoanalisi, perché l’analisi dell’inconscio spesso porta il soggetto a prendere coscienza di verità rimosse, e quindi molto sconvolgenti, ma anche perché diffidava della possibilità di guarire le malattie psichiche con qualsiasi mezzo, come sosteneva anche Shopenauer.

Per questi motivi Svevo decise di seguire la teoria psicoanalitica non tanto come terapia medica quanto come mezzo letterario; l’analisi psicologica diventa l’argomento principale dei suoi romanzi, e questa analisi viene resa dal punto di vista letterario con il “flusso di coscienza”, una tecnica che consiste nel narrare le idee del personaggio così come si presentano alla sua mente, senza cercare necessariamente un legame logico fra le cose narrate, ma raccontando per “associazione di idee”, come avviene realmente nella nostra psiche (e in ciò fu influenzato anche da Joyce).

Un altro elemento che Svevo rese dalle tesi di Freud fu la coscienza della complessità della psiche umana: ogni singolo individuo è quello che è e causa delle innumerevoli esperienze che ha vissuto durante la sua esistenza, e fra queste un ruolo fondamentale lo ha la società per questo motivo Svevo analizza la società a partire dalla psiche dei suoi personaggi e può quindi criticarne i difetti, cosciente del fatto che essa non dice sempre la verità e possiede degli aspetti di cui il soggetto non ha piena padronanza.

Rapporto con la società

Il nome “Italo Svevo” è uno pseudonimo creato da Ector Schmitz per due motivi: distinguere l’impiegato (Ector) dal letterato (Italo), ma soprattutto per evidenziare la multietnicità delle sue origini, egli, infatti, unì in sé le culture italiane, tedesca, ebrea e slava. Questa sua multietnicità gli permise di conoscere e apprezzare diverse culture, ma a ciò contribuì anche la città in cui egli visse: Trieste, appartenente all’Impero Austro-Ungarico, ma al confine con l’Italia e la Jugoslavia, un crocevia commerciale e culturale.
Trieste ebbe un ruolo fondamentale nella formazione di Svevo, ispirando e limitando al tempo stesso il suo modo di vedere la vita e l’arte: fu ispiratrice fornendogli diverse culture cui fare riferimento e fornendogli anche una serie di problematiche su cui riflettere, ma lo limitò, appunto perché le problematiche che offriva potevano essere capite solo se viste entro i limiti di Trieste stessa, caratterizzata da un forte provincialismo.

Questo provincialismo, che si riflette in tutte le opere di Svevo (caratterizzandone i personaggi nelle idee, nei modi di fare, negli accenti.) era dovuto soprattutto alla sua posizione geografica, poiché essendo al confine di due stati che se ne contendevano il possesso, risultava isolata; tuttavia si trattava di un provincialismo tutto particolare perché le caratteristiche di Trieste nascevano dalla fusione di tre culture, con il contributo anche di altri stati, con cui intratteneva un fiorente commercio.

Nello studio di Svevo non bisogna però sottovalutare un altro aspetto importante: il suo ebraismo, Italo fu ebreo fin dalla nascita, ma questa sua fede non appare nelle sue opere, quasi come se egli nello scrivere rinunciasse a una parte fondamentale di sé, risultando meno vero da un punto di vista artistico; in realtà Svevo non nascose il proprio ebraismo, egli era talmente amalgamato nella cultura triestina, si sentiva talmente accettato in un clima culturale così aperto, da non aver bisogno di sottolineare questo aspetto della sua vita.
In realtà, osservando bene, si possono sì scorgere nelle opere di Svevo alcuni elementi che potrebbero richiamare il suo ebraismo: la passività, l’inettitudine e la femminilità dei suoi personaggi, tutti ritratti tipici della psicologia ebraica.

Svevo conobbe molto bene la cultura contemporanea sia grazie alla sua città d’origine, sia perché egli da autodidatta studiò autori a lui contemporanei come Darwin, di cui condivise l’idea secondo cui esistono delle leggi naturali immodificabili che sono causa dei comportamenti degli uomini, Nietzsche di cui ridicolizzò la figura del superuomo, ritenendola una mera utopia, Shopenauer, l’autore che ebbe più peso nella sua ideologia, con la teoria secondo cui l’uomo si auto inganna di avere libero arbitrio ma è in realtà dominato dalla sua stessa “volontà di vita”, e Freud.

Tematiche dei romanzi

Le opere di Svevo furono inizialmente dei grandi fallimenti, forse perché andavano contro i gusti del tempo, stimolando i lettori ad osservarsi, confrontarsi con personaggi scomodi, perché mostrano difetti e problemi comuni a tutti.
Il periodo in cui Svevo scrisse era caratterizzato da una profonda crisi sociale (la “crisi delle certezze”), dovuta alla perdita di importanza del positivismo e alla crisi della borghesia; ciò portò l’uomo alla consapevolezza che non bastavano la sola razionalità, il determinismo scientifico, la causalità necessaria a spiegare la realtà, a tale presa di coscienza spinse l’uomo a cercare una via di fuga in mondi fantastici o in ideali di uomo immaginari; a ciò gli scrittori reagirono in modo diverso: D’Annunzio con la teoria del superuomo, Pascoli col mito del fanciullino, Svevo anziché inseguire miti o inventarsi eroi decise di parlare e descrivere l’uomo in crisi, così com’era, dandone un’immagine in cui gli uomini del suo tempo obbligati a riflettere su se stessi non amarono rispecchiarsi.

La tipologia che ne emerge è quella dell'”inetto“, che costituisce il tema cardine di tutta l’opera sveviana, in pratica dell’uomo incapace, che non sa vivere e realizzare i suoi progetti.
L’inettitudine dell’uomo, secondo Svevo, è una debolezza interiore che rende inadatti alla vita, e caratterizza tutti coloro che sono nella società borghese, ma si distinguono da essa come dei diversi, soprattutto perché non ne condividono i valori come il culto del denaro e del successo personale.
Questo non riuscire a adattarsi alla società diventa negli individui una vera impotenza psicologica, perché non riesce più ad identificarsi con la figura vincente tipica della borghesia, e si auto-esclude, rifugiandosi in mondi fittizi (grazie alla letteratura) e vedendo in ogni altro uomo un antagonista, in grado di agire e reagire n elle varie situazioni, uscendone sempre vincenti, ma anche dei punti di riferimento a cui appoggiarsi e tentare, invano, di sollevarsi dalla propria inettitudine.

Se inizialmente per Svevo questa figura fu estremamente negativa, lentamente il suo punto di vista mutò, perché l’analisi su sé e sugli altri a cui porta la malattia mostrò come fosse relativo il concetto di sanità, perché ognuno ha i suoi problemi, le sue “inettitudini”, ma l’inetto risulta forse il più avvantaggiato nella vita, infatti, non avendo sviluppato le proprie possibilità in nessun ambito della società ha in sé un grande potenziale, che lo rende adatto ad emergere in qualsiasi situazione. L’inetto diventa dunque colui che sa osservare il mondo dal di fuori, e può criticarlo, evidenziandone i difetti, minando alla base le certezze che lo guidano, e per questo diventa un personaggio positivo.
Un’altra tematica fondamentale dell’opera sveviana, strettamente legata al tema precedente, è la malattia; Svevo sostiene che i veri malati sono coloro che hanno delle certezze immodificabili su cui basano la propria esistenza e che non sanno analizzare se stessi, pertanto il confine fra sanità e malattia si assottiglia notevolmente, in un clima di malattia universale, in cui tutto è soggetto ad una generale degradazione, e questo atteggiamento è sintomo della crisi delle certezze che caratterizza l’inizio del ‘900.

Altre tematiche sveviane sono la morte e il suicidio, visti come una liberazione dalle sofferenze del mondo (e da ciò si allontana da Shopenauer); Svevo parla anche di degenerazione, cioè vede ogni realtà della natura soggetta a crescita, decomposizione e morte, e di molteplicità dell’individuo, perché nelle sue opere mostra di essere cosciente della pluralità dei piani della psiche, dell’esistenza nell’individuo di aspetti di cui neanch’egli è pienamente cosciente, tutto ciò rende il soggetto “multisfaccettato” e non più unico, ma è questa sua complessità che lo rende degno di interesse letterario.

Ideologia e poetica

A Svevo non è mai interessato rientrare in quelle esperienze culturali italiane volte a superare la crisi post-risorgimentale nella valorizzazione della realtà e dei problemi regionali (ad es. il Verismo). Né gli premeva di ricercare nuovi miti e modelli di comportamento per una borghesia velleitaria o delusa (ad es. Decadentismo, Futurismo, ecc.).
Il suo orientamento va piuttosto in direzione di una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e dell’aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di aderire alla vita. La sua poetica, in un certo senso, rientra nel vasto movimento decadentistico.

Della vita dell’uomo gli interessano non i rapporti sociali, ma gli impulsi più segreti e oscuri, che paralizzano, ovvero gli aspetti dissociati e contraddittori del pensiero e dell’agire. Nei suoi romanzi appare evidente che la solitudine e l’alienazione dei protagonisti sono manifestazioni di una “malattia mortale” che corrode non solo i singoli individui, ma l’intera società borghese, per cui non c’è alcuna speranza che la situazione possa migliorare.
C’è insomma un abisso incolmabile fra la consapevolezza con cui si avverte questa tragedia e la possibilità di un’azione costruttiva: anzi, quanto più è forte la consapevolezza, tanto più è forte l’incapacità di reagire. Svevo e Pirandello, in questo senso, si somigliano molto.

Svevo si inserisce perfettamente in questa scoperta dell’inconscio (fatta da Freud), che è la strada anche di Proust e di Joyce, ed è questa la vera novità del suo romanzo. Svevo s’interessò molto di psicanalisi freudiana, che era stata divulgata negli anni successivi alla I guerra mondiale, ma il suo interesse è caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti di questa nuova disciplina.
La psicanalisi viene vista come una terapia cui il protagonista dell’ultimo romanzo si sottopone scetticamente, per giungere, quasi contro questa stessa terapia, a ricostruire da solo le motivazioni profonde del suo comportamento.

La coscienza di Zeno: scheda libro

  • Titolo del libro: La coscienza di Zeno
  • Data della prima edizione:1923
  • Genere del libro: Romanzo in forma autobiografica

Personaggi principali

Il protagonista di questa vicenda è Zeno Cosini, ricco commerciante triestino, bizzarro e intelligente, non troppo dotato di capacità pratiche, condannato a vivere con i proventi di un’azienda commerciale vincolata, per disposizione testamentaria del padre, all’amministrazione Olivi. È un malato, una persona che soffre autentici dolori fisici e conduce un’esistenza, se non sregolata, disordinata come dimostra il problema del fumo. Zeno è una presenza ridondante che occupa con le sue prodezze e lamentele la scena del romanzo.
È una figura di inetto, molto particolare che accetta la malattia e se ne fa un punto di forza per sopraffare glia altri, di diverso che ha scelto di non soccombere ma di imporsi sugli altri. La sua disparità rispetto agli altri personaggi è innanzitutto una differenza di cultura e di intelligenza, e si concretizza nell’osservare le contraddizioni del comportamento proprio e altrui, nel guardare con occhio estraniato e privo di pregiudizi il mondo che lo circonda.
Si tratta di un mondo che ha come regola la lotta per la vita: nel padre e nel signor Malfenti, nel piccolo mondo di sensali, agenti, commercianti e commercialisti tra cui dominano le figure di Olivi padre e figlio. Personaggi che Zeno finisce per strumentalizzare, deridendone la concreta e cinica logica borghese, la razionalità negli affari e le trasgressioni calcolate.

Socialmente Zeno è un conformista cui è impedito di esprimere fino a fondo i propri gusti; da represso, ha sposato Augusta, dolce e paziente ma non bella, e reagisce con l’adulterio, causato da un interesse verso le cognate, una delle quali Ada, unisce al fascino della bellezza quello della non intelligenza e non sensibilità. Altri personaggi che appaiono nel romanzo sono le figure di Tacich corresponsabile dello spettacoloso dissesto commerciale del solfato di rame, di Guido odiato in quanto rivale, ma in fin di conti oggetto di una sorta di invidia, dato che è bello, disinvolto e persino capace di suonare bene il violino.
Altri personaggi sono le donne che sono accettate in quanto portatrici di bellezza ed animalità come la giovane Carmen predisposta quasi da natura ad incontrarsi con Guido e, potenzialmente, con Tacich, Carla l’amante usata cinicamente senza il minimo affetto, cui può essere addebitata soltanto la scarsa cultura e, s’intende una condizione sociale inferiore. Infine gli ultimi personaggi sono i medici: nessuno veramente umano e comprensivo, spregevoli quando dalla loro scienza pretendono di assurgere a giudici di questioni di vita e rivelano le proprie meschine propensioni e i propri egoismi; accettabili, rassicuranti e innocui, come nel caso del dottor Paoli, che diagnostica a Zeno, dopo scrupoloso esame di laboratorio che non ha il diabete.

Epoca ed ambiente della vicenda

L’opera consta di cinque capitoli centrali, racchiusi tra una Prefazione iniziale del dottore ed un Preambolo del paziente all’inizio, e conclusi da una Psicoanalisi, che è una sorta di diario, datato tra maggio 1915 e giugno 1916. Il tempo narrativo è compreso storicamente in un periodo di storia che va dalla seconda metà dell’ottocento fino al 1916; il tempo del passato è compreso nei capitolo centrali.
Durante la narrazione assistiamo ad uno sconvolgimento delle sequenze narrative, con anticipazioni e retrocessioni; ad esempio nel capitolo relativo al padre si trovano già annunciati elementi che riguardano il matrimonio, e anche nel capitolo in cui Zeno è arrivato a sposarsi, contiene riferimenti al suo adulterio, che a loro volta sono recuperati e interpretati come posteriori, nel capitolo dedicato all’associazione commerciale con Guido.

La coscienza di Zeno: fabula e intreccio

La fabula

Protagonista è Zeno Cosini, ricco commerciante triestino, condannato a vivere con i proventi di un’azienda commerciale. Giunto all’età di cinquant’anni, Zeno decide di affidarsi alla psicoanalisi per guarire il suo vizio per il fumo, per liberarsi dalla malattia e da i complessi che lo affliggono. Lo psicanalista esorta Zeno a fissare sulla carta i ricordi della sua vita, ricordi che egli non rievocherà in ordine cronologico. Nascono così le storie del suo matrimonio, della morte di suo padre, del fumo eccetera… Nelle pagine conclusive del suo diario Zeno si dice convinto di essere guarito, non per la psicoanalisi, ma per la felice ripresa della sua attività commerciale.

L’intreccio

Zeno Cosini è un ricco commerciante triestino che giunto all’età di cinquant’anni, decide di affidarsi alla terapia psicanalitica per liberarsi dalla sua inettitudine, dai vari complessi che lo affliggono, per guarire dal vizio del fumo e dalla malattia che lo tormenta. Lo psicanalista, induce Zeno a fissare sulla carta i ricordi della propria vita, ricordi che egli non rievocherà in ordine cronologico, ma lascerà vagare in libertà nella sua memoria, in un seguito di episodi legati ciascuno ad un suo vizio o ad un suo fallimento. Nascono così le varie storie narrate in prima persona da Zeno stesso: il fumo, La morte del padre, La storia del matrimonio, La maglie e l’amante. La biografia di Zeno rappresenta una serie di sconfitte. Vuole guarire dal vizio del fumo, ma vani sono gli sforzi per smettere di fumare; per disintossicarsi si fa perfino ricoverare in una casa di cura, ma da questa fugge dopo aver corrotto l’infermiera. Si iscrive all’università, ma non riesce a terminare gli studi. I rapporti con il padre sono difficili ed equivoci; si innamora di Ada Malfenti, la figlia più bella di un furbo commerciante, ma finisce per sposare Augusta la sorella strabica. Intreccia una storia extraconiugale con Carla, ma questa lo abbandona per sposare il maestro di musica che lui stesso, Zeno, le aveva presentato. Nelle pagine conclusive del suo diario di malato. Zeno dice di essere guarito, non grazie alla psicoanalisi, ma alla felice ripresa della sua attività commerciale.

La Coscienza di Zeno: riassunto dettagliato capitolo per capitolo

Capitolo 1: Il fumo

Zeno inizia a fumare per rivaleggiare con il padre, con il quale non ha mai avuto buoni rapporti. Si convince però che il fumo potrebbe seriamente danneggiare la sua salute, e decide di smettere, ma “passerà il resto della sua vita a fumare l’ultima sigaretta”. Purtroppo nessuno riesce a guarirlo dal suo vizio, così chiede aiuto ad una clinica specializzata, dalla quale fugge però il giorno dopo. Zeno in questa situazione pone il fumo come causa stessa del suo male congenito, cerca quindi di sbarazzarsene, ma finisce per nascondercisi inconsciamente dietro, con la paura che se avesse smesso di fumare il suo malessere non gli sarebbe passato, si sarebbe quindi dovuto convincere che egli stesso era la causa dei suoi mali; preferì perciò fingere di voler smettere.

Capitolo 2: La morte di mio padre

Il capitolo inizia col ricordo del genitore, seguito a ruota dalla narrazione degli eventi dal suo ultimo colloquio col padre fino alla sua morte. Ultimo colloquio, che, purtroppo per Zeno, non riesce a far esprimere a nessuna delle due “fazioni” i propri sentimenti verso l’altra, anche se di una erano già noti. Zeno si sveglia la mattina dopo e già trova il padre diverso dal solito, sensazione che verrà confermata dopo, quando scoprirà che il padre è malato. Per via del delirio e dell’incoscienza di quest’ultimo, non riesce a comunicargli i suoi veri sentimenti, in questo riesce invece il padre, che, al momento della morte, alza la mano “alta alta” e gli dà uno schiaffo.
Tutti parlano di riflesso meccanico, ma il ricordo di quello schiaffo Zeno se lo porterà dietro per sempre. La scomparsa del padre rappresentò, infatti, la scomparsa dell’antagonista concreto col quale misurarsi per mettere in luce le proprie capacità. Il rimorso per la morte del padre vien vista da Zeno come un ulteriore rincaro alla sua malattia.

Capitolo 3: La storia del mio matrimonio

Zeno, per affari, conosce il sig. Malfenti, col quale entra in buoni rapporti, viene quindi invitato in casa sua, dove conosce le sue quattro figlie, delle quali la più bella gli sembra Ada, con la quale, però, si comporta piuttosto goffamente, e viene quindi respinto.
Ne parla quindi con la sig.ra Malfenti, ma questa situazione non fa altro che allontanarlo dalla casa del suo collega, ove ritornerà dopo cinque giorni. Ritornando, poi, nella casa dell’amata, la incontra con Guido Speier, che in quel momento sta suonando il violino, e Zeno non perde l’occasione per fare una brutta figura. “Per caso”, si sposa con Augusta, una delle sorelle di Ada, che non ama, ma dalla quale è amato. Dovrà ripiegare infatti su Augusta, in quanto con la prima si era comportato piuttosto goffamente. Prima del matrimonio, Zeno glielo dichiara chiaramente, ma questa acconsente ugualmente. Zeno in questo capitolo si sente un po’ vittima del caso, che gli impedisce di sposare la donna amata, e che, per una serie di circostanze, gli fa sposare quella che non ama. Per lui il matrimonio assume tutta una nuova serie di significati. Benché il matrimonio sia risultato sostanzialmente felice, Zeno riconosce che l’atteso “rinnovamento interiore” non è che un’illusione: la moglie non cambierà certo il suo consorte.

Capitolo 4: La moglie e l’amante

Dopo i primi tempi di matrimonio, Zeno si accorge, inaspettatamente, di amare Augusta, e la considera un po’ come la sua protettrice; questa piacevole situazione dura fino a quando Zeno rivede un suo vecchio compagno di università, Copler, il quale lo invita a dedicarsi con lui alla beneficenza, e più precisamente ad apportare un aiuto economico a Carla, una giovanissima cantante. Quando Copler invita Zeno a giudicare il canto di Carla, egli comincia a desiderarla, fino a quando Carla diventa la sua amante, incitata da Zeno a migliorarsi nel canto nei suoi momenti di sconforto. Per farle migliorare la voce, assume per l’amante un maestro di canto, del quale però Carla si innamora, fino a lasciare Zeno, che cade in una profonda desolazione. Nel racconto della sua avventura Zeno oscilla tra l’atteggiamento di aperta confessione e la ricerca di una giustificazione qualsiasi.
Mentre si confessa, egli vuol apparire agli altri ed a se stesso (riuscendoci) innocente e puro, parole che costituiscono l’intera anima della sua storia d’amore. Per quanto riguarda le giustificazioni, invece, quella da lui più accreditata era di non amare Augusta, perché quindi avrebbe dovuto provare rimorso? Infine in lui non mancò del tutto la resistenza al peccato, in quanto non giunse a Carla “in uno slancio solo, ma a tappe”. Zeno ricorda, inoltre, che quando si trova tra le mani, per puro caso, il trattato di canto da donare a Carla, è “costretto” dalla moglie a portarglielo. Intanto egli considera la colpa come un avanzamento della malattia, mentre l’innocenza gli si configura come salute.

Capitolo 5: Storia di un’associazione commerciale

Quando Guido (divenuto il marito di Ada) decide di mettersi in affari, aprendo una casa commerciale, coinvolge Zeno, ed assume una segretaria, Carmen. Guido, su consiglio di alcuni affaristi inglesi, compra del solfato di rame, poi lo avrebbe rivenduto quando il prezzo sarebbe salito, ma invece di seguire i buoni consigli fa di testa sua e vende subito il prodotto, contraendo una grave perdita. Intanto si manifesta un menefreghismo da entrambe le parti verso l’agenzia, e sono i primi passi verso la rovina. Nel frattempo Ada dà alla luce due gemelli, e viene colta da una malattia che la fa progressivamente imbruttire, Guido diventa l’amante di Carmen. Quindi l’ “affarista” non accetta I consigli di dichiarare bancarotta, con la conseguenza dell’annullamento dei debiti, e sia Ada che Augusta si preoccupano non poco per la situazione. La prima per la quella economica, la seconda anche perché Zeno aveva deciso di fare un consistente prestito a Guido. Non sapendo cosa fare, Guido attua una subdola strategia che lo aveva portato precedentemente al successo: ingerisce un potente sonnifero, il Veronal, che, se assunto in dosi elevate, poteva apportare non indifferenti danni all’organismo, e c’era anche l’eventualità della morte.
Eventualità che si verifica per caso, in quanto Guido voleva solo fingere di essere in punto di morte, per avere affetto. Zeno comincia quindi a lavorare per due, al posto di Guido, e proprio per questa ragione si dimentica completamente del funerale del collega- amico, e per questo Ada lo disprezza, ma è vista da Zeno come un’ingrata. Però questi non ha occasione per farglielo capire, in quanto Ada parte per l’Argentina. Zeno, di fronte alla disgrazia capitata all’amico si accorge dell’originalità della vita: fino ad allora egli aveva considerato il luogo comune che definisce la vita come crudele giusto, ora invece lo rivaluta e si accorge che è impossibile definire ciò che è bene e ciò che è male: ricorda, infatti, di quando, da piccolo, amici e parenti davano giudizi contrastanti su di lui, che chiedeva alla madre: “ma sono stato buono o cattivo, io?” questo stesso dilemma che lo attanagliava da bambino lo perseguita anche ora, a distanza di trent’anni. Quindi secondo Zeno “la vita non è ne’ brutta ne’ bella, ma è originale!”. A questa riflessione Zeno è indotto dalla situazione che doveva sopportare, che lo vedeva nel ruolo opposto a quello che aveva sempre sostenuto, a cominciare dal padre per terminare con Ada, che lo definisce ora “il miglior uomo della famiglia”.

Capitolo 6: Psicoanalisi

Quest’ultimo capitolo delle sue memorie Zeno lo scrive sotto una luce diversa da quella sotto la quale si trovava negli altri: riconosce che il Dottor S. non lo aveva guarito affatto, e gli manda quest’ultima parte dei suoi ricordi per fargli capire cosa ne pensasse della sua cura; e si fa curare da “un medico vero, di quelli che esaminano il corpo quando si ammala”, che lo trova in perfetta salute. Intanto siamo arrivati nel 1915, quando l’Italia entra nel primo conflitto mondiale, e la villa di Zeno si trova proprio al confine tra Austria e Italia, quindi gli viene impedito di entrarvi, e verrà trasferito con la sua famiglia a Trieste, dove constaterà su se stesso gli effetti della guerra: si ritiene fortunato in primo luogo perché si è disfatto della sua malattia, e guarda il mondo con occhi diversi, perché si considera fortunato in mezzo alle brutture della guerra.
L’ultimo capitolo rende esplicita la concezione pessimistica della vita di Svevo, prima velata dall’autoironia sulla malattia di Zeno. Quella malattia quindi è considerata come attributo inscindibile alla vita, che quindi diventa a sua volta “malattia”, sempre mortale. In un certo qual modo così non è per Zeno, che dalla guerra (che, per quanto ne possa dire Zeno, può essere considerata per una buona parte appartenente al “male”), trae la sua guarigione. Questo strumento di cura, crudele, sottolinea ancora una volta il pessimismo dell’autore. Nell’ultima parte del libro Zeno trasferisce, inoltre, la sua malattia dal suo privato a tutta la società, soprattutto a quella del suo tempo, facendole assumere dimensioni cosmiche.

“L’episodio più interessante e a tuo giudizio più significativo”

L’episodio che mi è sembrato maggiormente interessante e significativo è stato quello relativo alla morte del padre di Zeno, che è stato per lui uno dei momenti più decisivi e sconvolgenti della sua vita. L’attimo più drammatico del passo è quello in cui il padre morente e ormai privo di conoscenza, lasciando andare il braccio alzato colpisce il volto del figlio. Zeno inizialmente pensa che quell’atto sia stato volontario, come una punizione in seguito ad una lunga incomprensione e freddezza. Nella sua solitudine ragionava: era escluso che il padre in quello stato avrebbe potuto lasciare andare il braccio e colpire con tanta esattezza la guancia del figlio. Decise così di rivolgersi a Coprosich, che come dottore gli avrebbe potuto spiegare qualcosa sulle capacità di risolvere dei moribondi. Ma con lui non parlò, non avrebbe mai potuto raccontargli il modo in cui il padre si era congedato da lui, a lui che lo aveva accusato di poco affetto per il padre. Quando si recò nella stanza mortuaria il cadavere era stato vestito, il corpo era irrigidito, la mani fredde e livide; decise di non rivederlo mai più. Poi al suo funerale riuscì a ricordare il padre come debole e buono, e si convinse che quello schiaffo gli era stato dato da lui moribondo non da lui voluto. Divenne così più buono e il ricordo del padre fu sempre più dolce.

La coscienza di Zeno: analisi del libro

Le tematiche

Le tematiche più importanti che emergono dalla lettura del romanzo di Svevo sono quelle della cura tramite la psicoanalisi e della scienza, ma quella che è la principale, tanto da insidiare la Coscienza è quella della malattia. Essa per gran parte del romanzo appare come una forma di malattia psichica.
La malattia ci fa guardare la vita con invidia, che non si vuole afferrare o che ci è impedita, per cui ci si sottrae e non si è incapaci di viverla. Ma se all’inizio la malattia si pone come un problema individuale, finisce poi per diventare comune condizione dell’uomo. Zeno quindi si pone come metafora della crisi dell’uomo contemporaneo, una crisi accentuata dalla acquisizione della consapevolezza della propria condizione.

Monologo interiore e tempo narrativo

Una prima osservazione può riguardare la particolare connotazione del “monologo interiore” nell’opera di Italo Svevo. Se conveniamo che a partire dalla Coscienza di Zeno l’opera di Svevo si connota fondamentalmente come un nevrotico agglomerato monologante, come un costante ed ineliminabile flusso diagnostico che non prevede alternative, si dovrà anche constatare l’avvenuto superamento dell'”ambiguità” di tipo pirandelliano; alle spalle è definitivamente lasciata la tecnica contrappositiva, in quanto è definitivamente risolto il dualismo attore-personaggio che aveva tormentato Pirandello lungo tutto il corso della sua attività. Il “doppio” non esiste più, sostituito com’è dalla perfetta aderenza tra maschera e volto, tra realtà e spazio della coscienza.
Ne consegue che il modulo monologante subisca – ed era inevitabile – una profonda trasformazione. Se ne rese conto molti anni fa Giacomo Devoto, quando parlando del rapporto tra indiretto libero e discorso diretto affermava che per Svevo la differenza non esisteva più in quanto il discorso diretto era solo apparente, trasformato com’era nella ´traduzione in forma diretta di pensieri che all’analisi di Svevo non apparivano ormai se non intellettualizzati, allungati e sciolti nei loro elementi costitutiviª. In questa situazione anche l’indiretto libero rinuncia inevitabilmente alla sua rilevanza autonoma, fino ad adeguarsi al nuovo sistema adottato per il discorso diretto.
L’appiattimento è inevitabile, ma dà origine ad un nuovo ed originalissimo modulo stilistico, riconducibile per altro a quel dialogo in interiore homine, a cui accennava Marziano Guglielminetti nel suo Struttura e tempo narrativo del romanzo italiano del primo Novecento (1966). Parliamo dunque, per Svevo, di un monologo di tipo diagnostico, come paradigma unico e assoluto di una realtà non più antitetica ma totalmente disintegrata. Il referente stilistico non può che essere l’abbandono della dialettica tra discorso diretto e discorso indiretto libero, con la conseguente nullificazione dell’autonomia espressiva del primo e del secondo.

Svevo non ha più bisogno, per documentare la realtà schizoide del proprio mondo interiore, di ricorrere all’alternanza dei piani narrativi. Gli basta utilizzare un costante e ossessivo scarto nell’uso sintattico del verbo, adottando un tempo misto di grande durata, connotato dall’uso alterno del passato e imperfetto risolti infine nel condizionale, così come avviene se la partenza è affidata anche al presente esplicativo.
La chiave di volta del monologo è quindi il condizionale adoperato come tempo esterno dell’ipotesi, carico com’è di una valenza introspettiva altrimenti irrealizzabile. È questo il sistema che consente a Svevo di procedere all’assemblaggio strutturale, di realizzare un procedimento idoneo a rendere sulla pagina il flusso delle libere associazioni che dominano la sua memoria, con una parallela utilizzazione dello strumento evocativo e della inevitabile rimozione. La novità stilistica della Coscienza – e forse anche il segreto della originale struttura del romanzo – è da cercarsi in questa dimensione scoperta d’improvviso (ma forse non così d’improvviso come afferma Svevo) e utilizzata poi senza esitazioni e senza remora alcuna per creare la cosiddetta “tecnica” dell’ironia testimoniata da una continua disposizione al monologo interiore.

Tornando al punto di partenza, si dovrà concludere che, a conti fatti, la nuova concezione del tempo “misto” che corrisponde alla struttura della Coscienza coincide con l’individuazione di un sistema di monologo astratto, per cui gli avvenimenti non hanno senso se non riflessi nell’unica e instabile misura della “coscienza”. Si determina così un mutamento profondo nella fisionomia del personaggio che ora, per la prima volta, si fa avanti nella sua posizione soggettiva di osservatore di una realtà svalutata radicalmente nei suoi dati esteriori, e unicamente recuperabile mediante la fluttuazione dei piani coscienziali. Ne deriva una nuova, sperimentale, visione del mondo e della storia, caratterizzata dalla sfiducia nella razionalità e nella conoscibilità della vita.
La realtà fugge continuamente a causa del frapporsi di uno schermo tra l’uomo e il “reale”, nel momento stesso in cui lo si individua. L’uomo non è più inquadrato naturalisticamente in una prospettiva storica, in linea di sviluppo, ma al contrario è immerso senza scampo nella fluttuazione discontinua di un organismo preda del patologico, destinato alla malattia e alla disgregazione. La tendenza al monologo presente nel personaggio-autore soprattutto nella parte iniziale e in quella conclusiva del romanzo è – a mio parere – il segno tangibile dell’accettazione ormai avvenuta di una più complessa situazione esistenziale. Freud non è passato invano per le vie di Trieste.

La patologia del vivere concretizza così nel monologo della Coscienza il suo tempo astorico: diviene emblematico dato di partenza, filo conduttore e tragicomico punto d’arrivo del personaggio nel suo “corto viaggio sentimentale”.

Lo stile

Nel romanzo di Italo Svevo appare la figura del narratore onnisciente che sa spiegare tutto, che sa più dei personaggi, che interviene con riflessioni personali. Il discorso è sia diretto che indiretto, lo stile paratattico, il registro formale.

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