TEMA DI ATTUALITA' SVOLTO SULLA CRISI ECONOMICA E FINANZIARIA MONDIALE. Tutto cominciò nell’estate 2007. Fino ad allora, quella che a lungo andare sta risultando essere la più grande crisi economica che la storia moderna abbia conosciuto, era qualcosa di inimmaginabile. O quanto meno, uno spettro che soltanto un pugno di economisti illuminati riusciva a vedere all’orizzonte. Pochissimi, in ogni caso, riuscivano a percepire il pericolo di una catastrofe imminente. Nell’estate 2007, però, la cosiddetta crisi americana dei subprime (un tipo di mutui immobiliari caratterizzati da condizioni molto poco favorevoli per i debitori, spesso soggetti a bassi punteggi creditizi, ovvero poco affidabili) esplose definitivamente, portando alla bancarotta e alla chiusura alcuni degli istituti di credito tra i più prestigiosi del paese, come la Lehman Brothers e la Goldman Sachs. Nell’arco di pochi mesi la crisi si estendeva all’Europa e praticamente a tutto il pianeta, a causa di una notevole recessione, e una crisi industriale, entrambe concretizzatesi in maniera devastante intorno alla metà del 2008.
Da quel momento una serie di processi da vera e propria reazione a catena si sono innescati: il primo ostacolo è stato la crisi di fiducia nei mercati borsistici, considerati molto meno affidabili dal punto di vista creditizio; a questo si deve aggiungere l’elevata inflazione a livello mondiale, e il costo sempre più elevato delle materie prime, a cominciare dal petrolio proveniente per lo più dai mercati mediorientali. Nell’arco di due anni dall’inizio della crisi, il Prodotto interno lordo di molti paesi è crollato, a cominciare proprio da alcune realtà occidentali, che negli ultimi venti anni avevano creduto di conoscere un benessere che loro stessi consideravano inarrestabile. Tanto è vero che nel 2011, dopo una ripresa breve e di piccola entità, molti paesi europei (come il Portogallo e la Grecia) hanno dovuto fare i conti con una situazione disastrosa, a causa dell’allargamento della crisi ai debiti sovrani (i debiti degli stati nei confronti di altri soggetti, anche e soprattutto privati), e all’influenza di questa sulla finanza pubblica. Il rischio di insolvenza, per questi paesi, è stato evitato soltanto grazie a massicci interventi da parte degli altri stati della cosiddetta Eurozona, oltre che a prestiti ricevuti a tassi favorevoli da parte della Banca centrale europea.
Se la storia della crisi, tuttora in corso – e ben lungi da considerare esauribile almeno per il prossimo biennio – racconta di problematiche scatenate essenzialmente dall’alta finanza, le ripercussioni, sociali ma anche politiche sulle popolazioni europee e mondiali sono state fortissime. A “pagare la crisi”, come praticamente sempre accade, sono state infatti quelle fasce di popolazione meno difese dalle tutele “storiche”, come quelle riguardanti il mondo del lavoro, anche se è vero che una percentuale altissima di perdita dei posti di lavoro, ha coinvolto la maggior parte dei paesi. I tassi di disoccupazione, però, non sono schizzati solo a causa dei tantissimi licenziamenti degli ultimi due anni, ma soprattutto per le difficoltà, da parte della fascia di popolazione più giovane, a trovare una sistemazione stabile, non solo dal punto di vista lavorativo. La difficoltà a trovare un impiego, e quella ancora maggiore a conservarlo per un periodo superiore ai 6/9 mesi, è infatti tuttora il problema che maggiormente caratterizza le generazioni tra i venti e i quarant’anni, generazioni sulle quali l’estremizzazione di un concetto quale il lavoro flessibile, unito alle difficoltà sul mercato da parte delle imprese (che si traducono in difficoltà ad assumere, ma anche a mantenere lavoratori in organico) ha avuto effetti devastanti. Per la prima volta, probabilmente dal dopoguerra, una altissima percentuale di giovani vede davanti a sé prospettive di crescita assai inferiori rispetto a quelle della generazione precedente, quasi incommensurabili, se paragonate a quelle che avevano avuto i propri genitori. Le difficoltà a ottenere un lavoro, e a mantenerlo, infatti, si traducono in una serie di impedimenti che si ripercuotono sull’impossibilità di trovare un alloggio, di costruire una famiglia, e in ultimo di contribuire all’economia, dal momento che difficilmente questi giovani riescono a costruirsi un ruolo economico e sociale capace di garantirgli una autonomia di vita.
Il tutto, avviene in un momento in cui le grosse difficoltà della finanza pubblica (da almeno dieci anni a questa parte) hanno portato a una notevole trasformazione (in negativo) in materia di stato sociale, quello che oggi viene universalmente chiamato welfare. Le tutele e le garanzie nei confronti di chi non riesce a trovare lavoro, unite alla privatizzazione totale dei servizi; la mancanza nella maggior parte degli stati europei, di una seria politica per la casa; l’innalzamento dei tassi per i mutui e i prestiti privati; la crisi delle monete occidentali sui mercati globali, e il conseguente aumento dei generi di prima necessità, o di quelli diventati fondamentali, a cominciare dalla benzina. Tutto ciò ha fatto si che la popolazione mondiale sia arrivata ad affrontare una crisi probabilmente superiore a quella del ’29, senza la possibilità di contare realmente su un aiuto da parte dello stato, aiuto che avrebbe potuto forse attutirne gli effetti. Va detto però, che la mancanza di questi aiuti non è esclusivamente una scelta (obbligata) economica, ma anche una scelta politica, dal momento che la scomparsa progressiva dello stato sociale è un indirizzo scelto da molti governi europei già da molti anni, ben prima dello scoppio della crisi. Probabilmente, infatti, se si fosse attuata una politica diversa, o se si riuscisse ad attuare adesso misure basate sul sostegno dello stato in primo luogo alle imprese, ma anche ai lavoratori e alle famiglie, l’intera economia potrebbe trarne giovamento. Particolarmente importante, infatti, sarebbe dare la possibilità a chi oggi non l’ha, a cominciare dai giovani, di costruire la propria vita su paletti stabili (innanzitutto la casa e il lavoro), anche usufruendo dell’aiuto “pubblico”, anche perché un indirizzo del genere permetterebbe a un enorme fascia di popolazione di raggiungere un’autonomia che vorrebbe dire innanzitutto maggiore produzione (più si lavora più si produce) e in secondo luogo forza – per chi oggi non ne ha alcuna – di partecipare alla vita economica del paese. In questo modo, si potrebbero rilanciare attività industriali e del terzo settore, che oggi sono innegabilmente in difficoltà per una totale mancanza di domanda, dovuta proprio agli esiti disastrosi della crisi.
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