Dalla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento l’interesse di Derrida si ò sempre più spostato verso temi etici e politici, ancora una volta affrontandoli in maniera poco tradizionale, cioò con uno stile in cui poco spazio ò lasciato alla “teoria” e che può essere inteso solo alla luce dei presupposti fondamentali della decostruzione. Gli anni Ottanta costituiscono un periodo di particolare vivacità a livello filosofìco-politico, poichè in essi si sviluppa quel dibattito tra moderno e postmoderno che coinvolge anche il decostruzionismo, e il cui avvio ò segnato dal discorso di Jà¼rgen Habermas, “Il moderno: un progetto incompiuto”, pronunciato nel 1980 in occasione del conferimento del premio Adorno. Secondo la tesi di Habermas, il postmoderno sarebbe contraddistinto dalla rinuncia all’ideale emancipativo della modernità , le cui radici si trovano nel razionalismo illuminista, ripiegando verso una forma ambigua di neoconservatorismo, che caratterizzerebbe soprattutto la filosofia francese contemporanea e i cui ispiratori sarebbero principalmente Nietzsche e Heidegger. Come si ò detto, la curvatura politica ò, come afferma lo stesso Derrida, assolutamente inscindibile dalla pratica decostruttiva: questo perchè ogni struttura oppositiva (originario/derivato, modello/copia ecc. ) che la decostruzione tende a scardinare non si presenta mai come una mera contrapposizione di termini, collocati su uno stesso piano e quindi con una stessa dignità assiologica, ma costituisce l’instaurazione di una forma di dominio dell’uno sull’altro, di subordinazione. D’altra parte, non si dà una condizione del pensiero che non sia al tempo stesso interconnessa con momenti istituzionali, che si tratta di comprendere e di disarticolare: l’impegno di Derrida nel GREPH (Groupe de recherches sur l’enseignement philosophique) per contestare la riforma Haby-Giscard, mirante a eliminare l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi a partire dal 1981, o nel College Intemational de Philosophie, un’istituzione volutamente atipica, ò a tal riguardo significativo (alla riflessione sulle implicazioni filosofiche delle istituzioni e istituzionali del lavoro filosofico Derrida ha dedicato un libro che costituisce anche un importante documento di questi suoi impegni, “Du droit à la philosopbie”, 1990). Addirittura nella stessa nozione di diffèrance ò possibile rintracciare in nuce il potenziale etico-politico della decostruzione, attenta a denunciare ogni sistema di potere e di repressione dell’alterità attraverso un’azione sovversiva: ” [la diffèrance] non governa su nulla, non regna su nulla e non esercita da nessuna parte alcuna autorità . Non si annuncia con una maiuscola. Non solo non vi ò un regno della diffèrance, ma essa istiga alla sovversione di ogni regno ” (“La diffèrance”). La maniera con cui la diffèrance contesta le forme del dominio ò la sua stessa natura atetica e indecidibile: l’indecidibilità teorica ò nel decostruzionismo il punto in cui si accumula la sua carica sovversiva, poichè, anzichè occultarlo, apre davvero lo spazio della decisione, mostrando come ogni risoluzione dell’indecisione non sia frutto di una constatività teoretica, ma di una performatività , di un atto istitutivo, tetico. Secondo Derrida, alla base di ogni legittimazione non c’ò mai una semplice descrizione, una constatazione, un fatto (come ad esempio la natura, a fondamento dei diritti umani), ma sempre un atto di decisione, una scelta performativa (il riferimento ò alla teoria di Austin degli “atti linguistici”): ogni legittimazione istituzionale non può non implicare una filosofia. L’esplicitazione di un nucleo performativo all’interno di atti che si pretendono constativi ò un passaggio importante, poichè non ò che la messa in evidenza, da un altro punto di vista, del limite intrinseco della constatività pura, e cioò del privilegio logico della forma enunciativa. Sempre più, come si ò anticipato, il linguaggio di Derrida si discosta dalla forma apofantica per assumere, non solo come proprio tema di indagine, ma anche come proprio medium espressivo, forme non apofantiche come invocazioni, giuramenti, imperativi, esortazioni, ringraziamenti ecc. Ne ò prova l’espressione in cui Derrida concentra tutto un insieme di “concetti” e che ritorna sempre più spesso nei suoi ultimi scritti, e cioò “Viens!”. “Viens!” ò un’invocazione, l’invocazione rivolta a un “tu”, e quindi assolutamente non inscrivibile nella logica apofantica, che privilegia la terza persona. Questo “tu” ò l’altro, il quale può solo essere lasciato venire. “Viens!” significa un’apertura all’altro al di là di qualsiasi calcolo, programmazione, riassimilazione, prima di ogni identificazione e presentificazione. Polemizzando con la nozione heideggeriana di Ereignis come implicante ancora un tentativo di appropriazione (eignen), Derrida scriveva già nella conferenza sulla Diffèrance: ” se la donazione di presenza ò proprietà dell’ereignen [… ], la diffèrance non ò un processo di propriazione in un senso quale che sia. Essa non ò ne la posizione (appropriazione) nò la negazione (espropriazione), ma l’altro “. L’altro sfugge a ogni tentativo di appropriazione, ò lo straniero che si invita a venire, e per il quale Derrida auspica una politica dell’ospitalità . Insieme all’analisi dei fenomeni di identificazione nazionale, la riflessione sul tema dell’ospitalità costituisce uno dei momenti principali della speculazione politica di Derrida. Gramma costitutivo di questa riflessione ò la coppia amico/nemico, e cioò ospitalità /ostilità . Derrida nota – appoggiandosi su riferimenti linguistici e sulla storia delle istituzioni – la parentela tra i termini hostis (straniero o nemico) e hospes (ospite, invitato), che ha dato origine a rapporti chiasmatici, a contaminazioni, a veri e propri intrecci tra l’essere ospite e l’essere straniero, l’essere amico e l’essere nemico (soprattutto in “Politiche dell’amicizia”), in cui etica e politica si oppongono e si associano continuamente. Ma il pensiero a cui Derrida impronta maggiormente questa sua riflessione ò quello di Emmanuel Lèvinas. Nel confronto con Emmanuel Lèvinas – a cui Derrida riconosce, seppure con una certa presa di distanza, un debito particolare – il rapporto etica-politica emerge in tutta la sua problematicità . Tale rapporto non può più essere inteso come mera antecedenza dell’etica sulla politica, nella misura in cui l’etica stessa ò ecceduta da un evento, l’evento politico, che accade – viene- prima ancora che un’etica sia pronta a recepirlo. In questo capovolgimento ò possibile forse vedere la ripresa di un tema heideggeriano – quello del dato che precede ogni orizzonte di trascendentalità – rispetto alla problematica fenomenologica dell’intenzionalità : prima di ogni “coscienza di”, e quindi di ogni accoglienza (Lèvinas, sottraendola all’orizzonte riflessivo husserliano, aveva definito l’intenzionalità come “accoglienza del volto, ospitalità e non tematizzazione”), un dato ò lì – c’ò o accade -, chiedendo di essere “ricevuto”, “accolto”. Si tratta del passare dell’altro che, scrive Derrida, ” ha già superato la soglia, non attendendo nè invito nè ospitalità nè accoglienza “. La sua visita ” eccede ogni relazione dialogica da ospite a ospite. [… ] La sua effrazione traumatizzante deve aver preceduto ciò che normalmente chiamiamo ospitalità , precedendo persino, sebbene esse già appaiono sconvolgenti e pervertibili, le leggi dell’ospitalità ” (“Addio a Emmanuel Lèvinas”). L’antecedenza del dato ò, per Derrida, quella di una visitazione che viene senza preavviso, evento politico che precede e che anzi chiama a un’etica e, soprattutto, a un diritto dell’accoglienza, oggi sempre più urgente per il moltiplicarsi delle effrazioni di quelle soglie che sono i confini tra gli Stati, e di cui ò emblema la vicenda politica stessa dello Stato di Israele. Una tale visitazione non solo ò destinata a sconvolgere – o a decostruire – la definizione attuale del politico, ma anche quella del soggetto: esso, scrive Derrida, ò infatti già ospite, anzi ostaggio, perchè a sua volta accolto nel luogo in cui abita, perchè già da sempre, e inevitabilmente, ” emigrato, esiliato, straniero ” nel luogo stesso in cui dimora. La politica dell’ospitalità – che Derrida proclama con particolare attenzione ai fenomeni contemporanei di attraversamento delle frontiere, da quelli “normali” dovuti alla cosiddetta “globalizzazione” o a emigrazioni fisiologiche a quelli “eccezionali” dovuti a movimenti di profughi, a spostamenti o deportazioni etniche, di cui le vicende di fine Novecento hanno offerto numerosissimi esempi (dal Ruanda al Kosovo) – sarebbe così il fondamento di una ” democrazia a venire ” che non intende chiudersi sullo stato di fatto delle democrazie occidentali, ma che vuole dischiuderle appunto sull’avvenire, su un futuro che – come ò esplicito nel concetto di “traccia”, nel quale Derrida sintetizza quel che per lui ò il rapporto con l’alterità – non ò ne sarà mai presente: non a caso la nozione di “traccia” ò mutuata da Emmanuel Lèvinas, la cui riflessione etica ò tutta centrata su una fenomenologia dell’altro. à questo del resto uno dei tratti più marcatamente ebraici del pensiero derridiano, che hanno un peso importante nella sua concezione politica: il problema dell’alterità inappropriabile, a partire da cui soltanto ò possibile pensare una politica e ogni forma di relazione etica (come l’amicizia), conferisce al discorso di Derrida i toni del messianismo, o meglio, come lui stesso lo definisce in “Spettri di Marx”, di un deserto messianico, un messianismo desolante perchè non ha alcuna Terra promessa, alcun luogo, in cui acquietarsi. Poichè, se una democrazia a-venire vuole davvero rispettare l’alterità dell’altro, non può mai preventivamente identificarlo, non può mai dire “che cosa” esso sia, non può pretendere di sapere che cosa avverrà , non può anticiparlo, può solo accoglierlo come si accoglie un ospite inaspettato: ” senza questa desolazione, se proprio si potesse contare su quel che viene, la speranza non sarebbe che il calcolo di un programma. Se ne avrebbe la prospettiva, ma non si attenderebbe più nulla ne nessuno. Il diritto senza la giustizia “.
- 1900
- Filosofia - 1900