Platone nel “Cratilo” effettua un’ampia discussione sulla problematica della lingua. Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni a riguardo , legate al binomio “nomos”-“fusis” (convenzione-natura); questo della lingua ò un problema tipicamente antropologico e di materia sofistica. Alcuni sofisti erano del parere che si attribuiscano i nomi in maniera spontanea, secondo natura (“katà fusin”), come se la natura stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi confronti. Altri la pensavano in modo opposto: gli uomini attribuiscono i nomi in maniera assolutamente artificiale, secondo convenzione (“katà vomon”). Questa diatriba ò in corso ancora al giorno nostro; Platone, dal canto suo, sostenne che attribuiamo i nomi un pò “katà fusin” e un pò “katà nomon”. Nella tradizione ebraico-cristiana vi ò il mito della torre di Babele; la lingua di Adamo (l’ebraico) sarebbe stata naturale ed i nomi corrispondevano esattamente all’essenza delle cose e proprio con i nomi si poteva cogliere l’essenza delle cose. Nella torre di Babele i linguaggi successivi sarebbero stati convenzionali e non vi era più piena corrispondenza tra i nomi e le cose. Platone ò dunque del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni concordiamo con lui: vi ò una mescolanza dei fenomeni. Esiste sì una derivazione naturale dei nomi: sono le cose stesse che suggeriscono i nomi da usare, ma le lingue parlate sono molteplici: una componente di arbitrareità ci deve per forza essere. Quindi le cose tendono a suggerire il nome con cui chiamarle ma dopo di che l’uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la ragione: ancora oggi, comunque, ci sono parole onomatopeiche, che suggeriscono l’essenza del soggetto cui sono riferite (“zanzara”, “cornacchia”. . . ). Si tratta di una teoria intermedia che mette insieme il lavoro razionale a quello naturale. Ma cosa c’entra tutto questo nell’ambito del “Cratilo” e della discussione del vero-falso ? Più di quello che potrebbe sembrare : per Platone entrambe le possibilità per denominare le cose negano la possibilità dell’errore : le parole corrispondono esattamente alle cose; o sono totalmente artificiali o totalmente naturali: si arriva alla stessa conclusione. Se mi attengo alla teoria “katà fusin” un libro mi suggerisce la parola con cui chiamarlo ed ò solo quella: non c’ò possibilità di errore. Se mi attengo al “katà nomon” i nomi sono totalmente artificiali e quindi vanno bene tutti : lo posso chiamare libro, ma anche tavolo, scarpa. . . sarà in ogni caso corretto e anche qui non c’ò possibilità di sbagliare: infatti in assenza di un arbitrio generale tutti i nomi risultano corretti. Il far corrispondere al meglio (con un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all’essenza delle cose consente di affermare che l’errore esiste e che la retorica (quella vera ò ) ò la filosofia. Platone sposta poi il problema dalle cose alle idee: così come si possono dare nomi alle cose che si conoscono, si possono dare nomi alle idee che si conoscono: c’ò una dimensione conoscitiva e vi ò uno sforzo di attribuire nomi che esprimano l’essenza di ciò a cui si riferiscono.
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