La Memoria Ebraica
Sui campi di sterminio nazisti esiste una nutrita letteratura. In particolare sul Lager di Auschwitz, forse il più famigerato. Questa letteratura, come ha detto proprio Primo Levi nella prefazione all’edizione italiana di Uomini ad Auschwitz di Hermann Langbein, si può dividere in tre categorie: i diari o memoriali dei deportati, le loro elaborazioni letterarie, le opere sociologiche e storiche. Ma Se questo è un uomo, che Levi iniziò durante la prigionia, appartiene a tutte e tre le categorie. E’ un documento al più sincero possibile, è un racconto con già la misura del classico, è un’analisi fondamentale della composizione e della storia del Lager, ovvero dell’umiliazione e della degradazione dell’uomo, prima ancora della sua soppressione nello sterminio di massa. A Se questo è un uomo segue La tregua, che contiene il resoconto del suo lungo viaggio di ritorno giù per un’Europa non ancora rinsavita dalla follia collettiva. Ma quando finalmente Levi giunge in Italia capisce che tutti gli ultimi suoi mesi di vagabondaggio ai margini della civiltà sono stati una tregua affettuosamente e capricciosamente concessagli dal destino.
Toccanti risultano le pagine iniziali e soprattutto il capitolo intitolato “Sul fondo” dove si raggiunge proprio l’apice della degradazione umana:
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga […]. Si comprenderà allora il duplice significato del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.
Sulla linea di continuità con l’opera narrativa si collocano le raccolte poetiche (L’ osteria di Brema,1975; Ad ora incerta, 1984), pur esse ispirate all’esperienza del Lager e finalizzate ad estendere l’esperienza personale su un piano universale. La scrittura risulta solenne e di intonazione biblica.
Per Primo Levi non esiste solo la perdita della memoria storica, ma vi è principalmente la gestione dell’oblìo, una patologia, agli occhi del poeta, ben più grave dell’altra. La stessa che ha accecato per decenni l’opinione pubblica facendola cadere nel “revisionismo” e nel “negazionismo” della Shoah. In presa diretta con il processo di Gerusalemme Levi decide di rivolgersi, sotto forma di lettera aperta, ad Adolf Eichmann. Non tanto lo tocca la sua natura di aguzzino o l’infamia, ma piuttosto l’apparente normalità dell’uomo, la sua mostruosa facoltà di rimuovere e razionalizzare a posteriori gli eventi più disumani, di costruirsi alibi inattaccabili da qualsiasi senso di colpa. L’intuizione di Levi coincide con la tesi di una grande filosofia ebrea-tedesca, Hannah Arendt (1906-1975), che assistendo al medesimo processo ne trae un libro dal titolo eloquente, La banalità del male (1963), in cui dice: “Questa capacità spaventosa di consolarsi con frasi vuote non lo abbandonò nemmeno nell’ora della morte”.
Perciò Levi non augura a Eichmann di morire, ma di vivere per ricordare e percepire nella pienezza dl corpo e della mente tutto l’orrore del suo passato.
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