Per alcuni aspetti la religione romana prende spunto da quella greca. I Romani, piuttosto privi di fantasia, avevano una religione di tipo agricolo; con il contatto con la Magna Grecia i Romani assorbirono parte delle divinità elleniche fondendole con le loro.
I principali dei venerati dai Romani erano: Giove, Giunone, Marte, Minerva, Diana, Mercurio, Plutone, Nettuno, Venere, Cerere, Bacco e Vulcano. I più importanti in assoluto erano Giove, Giunone e Minerva, che costituivano la cosiddetta Triade Capitolina.
Giove, figlio di Saturno e di Rea, era Padre degli dei, fratello di Nettuno e di Plutone, marito di Giunone. Era il dio della folgore e della pioggia e incarnava il Potere e la Giustizia.
Sua moglie, Giunone, era la più importante divinità femminile.
Marte, figlio di Giove e di Giunone, era il dio della guerra; era considerato dai Romani un loro capostipite in quanto padre di Romolo e Remo, i "fondatori" di Roma.
Apollo era il dio solare che tutelava la musica e la poesia. Minerva era la dea della Sapienza e della guerra "giusta"; proteggeva le arti, i mestieri e coloro che li praticavano.
Diana era la dea della caccia e assisteva le giovani fanciulle.
Mercurio era il messaggero degli dei: la sua attività preminente era quella di ambasciatore di Giove, egli infatti portava i messaggi o agli altri dei oppure agli uomini in Terra.
Plutone era il dio degli Inferi e regnava incontrastato negli Inferi.
Nettuno era il dio del Mare e delle acque.
Cerere era la dea dell'agricoltura e proteggeva i raccolti. Venere era la dea della bellezza e dell'amore, sposa di Vulcano ma amante di Marte.
Bacco era il dio dell'ebbrezza e del vino.
Vulcano era il dio del Fuoco; comunemente rappresentato come un fabbro che forgiava gli armamenti per i vari eroi.
Vesta era la divinità del focolare domestico. Sue sacerdotesse erano le Vestali, donne di particolare importanza nella vita sociale della città, che dovevano vegliare sul fuoco sacro acceso nel tempio affinché non si spegnesse.
Oltre a questi dei venivano venerati anche degli "spiriti", in cui non comparivano elementi greci: i Lari, i Penati e i Mani. I Lari erano demoni protettori dei luoghi abitati. Essi venivano, spesso confusi con gli dei Penati ma, mentre questi ultimi proteggono il padrone di casa, i Lari proteggono tutti quelli che lavorano in un luogo. C'erano vari tipi di Lari: Lari della casa, dei crocicchi, della città. I Lares praestis apparivano nelle monete. Nella casa c'erano dei locali riservati a questi demoni e durante le feste i quadri che li raffiguravano venivano addobbati e durante la cena veniva loro riservato un po' di cibo. Essi venivano riconosciuti anche durante i matrimoni, infatti la sposa novella portava loro una moneta. Un altro tipo di Lari erano i Lares Copitales, i quali venivano venerati ogni anno agli inizi di gennaio. A Roma i Lari avevano un tempio sull'Esquilino. Il culto dei Lari durò a lungo e fu soppresso da Teodosio nel 394 d.C..
I Penati erano delle divinità che vegliavano sul benessere della casa ed erano preposti al focolare. Negli atri delle case romane si costruirono cappellette dedicate a loro ma in seguito il culto si estese ulteriormente: si iniziarono a costruire statue e monete raffiguranti loro. I romani credevano che Enea li avesse portati in Italia da Troia. I Penati venivano confusi spesso con i Lari ma i primi proteggevano il padrone di casa e i suoi parenti. Il culto dei Penati durò a lungo fino a che Teodosio nel 394 decretò la chiusura di tutti i templi e vietò i riti privati di Penati e Lari.
I Mani erano gli spiriti dei defunti, solitamente buoni. Il nome era usato al plurale anche se ci si riferiva a un singolo morte. Tito Livio cita un episodio in cui l'invocazione agli dei Mani è legata a una devotio (autosacrificio agli dei inferi): durante il consolato di Quinto Servilio Aala e di Lucio Genucio Aventinese, eletti nel 362 a.C., nel foro si aprì una voragine profonda e incolmabile. La gente, su preciso invito degli dei, cominciò a domandarsi quale fosse il principale fattore della forza romana che, avevano detto gli indovini, doveva essere sacrificato in quella voragine. Allora un giovane, Marco Curzio, che si era distinto in battaglia, ritenendo che il principale fattore fossero le armi e il valore, offrì se stesso agli dei Mani e, armato, si gettò con il suo cavallo nell'abisso. Uomini e donne gettarono dietro di lui prodotti della terra e doni votivi. Quel luogo rimase nella legenda come Lacus Curtius, da Curzio (vedi il capitolo sul Foro). I Mani erano oggetti di culto: si offriva loro latte, grano misto a sale e "pane inzuppato nel vino e viole disciolte dentro un coccio lasciato nella strada". In loro onore si tenevano due feste: i Lemuria e i Parentalia. Anche il loro culto terminò con Teodosio.
Il sacerdote
La religione dei Romani era di natura pratica, adatta ad un popolo di pastori e di agricoltori. I Romani, sin dai tempi più antichi veneravano le forze della natura e i luoghi comuni. Le funzioni religiose erano molte e quindi i compiti sacerdotali numerosi. Il potere sacerdotale era un attributo maschile, quindi l'atto sacerdotale non poteva essere affidato ad una donna. Tuttavia, vi erano le Vestali le quali officiavano al momento dei Damia. Con il tempo subentrarono altri sacerdozi femminili: Cerere, Bacco, Iside. Le donne occupavano un ruolo sacerdotale secondario, ma spesso l'atto sacerdotale era fondato sulla collaborazione tra uomo e donna.
Il culto privato era operato dal pater familias, soprattutto perché a Roma vi erano pochissimi sacerdoti (circa 250). Gli stranieri potevano celebrare il culto nei templi romani con un'autorizzazione dal senato o di altre autorità. Gli schiavi aiutavano i loro padroni a svolgere le funzioni sacerdotali e spesso potevano ricevere l'incarico di rappresentarli. Il sacerdozio era una questione di Status sociale e non di vocazione.
Le grandi competenze sacerdotali erano due: i riti sacrificali e gli auspici. Questi ultimi consistevano nell'interrogare gli dei per avere consiglio su decisioni da prendere per iniziative sia pubbliche che private. La divinità si limitava a dare una risposta affermativa o negativa.
Alla fine del periodo repubblicano, quattro grandi collegi riunivano la maggior parte dei sacerdoti: il collegio pontificale (presieduto dal Pontifex Maximus), il collegio degli auguri, il collegio dei decemviri e quello dei settemviri.
Le tradizioni romane raccontano che i primi sacerdoti aiutavano i magistrati, ma si sarebbero staccati da questi in età repubblicana. Le loro differenze non sono molto visibili in quanto celebravano i riti dello stesso tipo ed entrambi i gruppi amministravano la vita religiosa della res publica. Negli atti pubblici si hanno strette collaborazioni tra sacerdoti e magistrati. Comunque i primi potevano agire solo con gli dei, mentre i secondi anche con il popolo. Infatti, secondo gli antichi, la città era il risultato dell'unione tra uomini, dei e magistrati.
La celebrazione del culto assumeva due forme: l'offerta dei sacrifici, che durava molto tempo, e la presa degli auspici, che consisteva in una risposta o in un giudizio da parte di Giove, il dio supremo. Gli uomini potevano anche rappresentarlo in terra e in questo compito i flamini erano al primo posto. Il flamine di Giove era apparentemente un cittadino qualunque, ma molte erano in fondo le diversità dagli altri. Un uomo per diventare flamine, doveva essere necessariamente sposato con una donna che sarebbe diventata flaminia. La sua carica durava sin quando uno dei due coniugi non moriva. Il flamine inseriva un aldilà nell'universo e metteva gli uomini in collegamento con gli dei.
Tutti questi vari aspetti della religione romana, segnerebbero un'ambiguità del sacerdote romano, che esprime nel modo migliore la gran varietà delle figure del sacerdozio a Roma.
Il pontefice massimo
Nell'antica Roma i pontefici, sotto la presidenza del pontefice massimo, formavano un collegio di canonisti piuttosto che di sacerdoti, che aveva il compito di conservare le tradizioni giuridico-religiose della città, di controllare il culto pubblico e privato, di suggerire il modo di soddisfare agli obblighi religiosi e di assicurare così la pax deorum, l'accordo fra la città e gli dei. Il collegio, di 5, poi di 9, 15 e infine 16 membri, sarebbe stato istituito da Numa. Avevano come insegna la pratexta, toga ornata di porpora.
I pontefici erano nominati per cooptazione prima fra i soli patrizi, poi, dal 300 a.C. per la legge Ogulnia, anche fra i plebei; sotto l'Impero erano nominati dall'imperatore nella sua qualità di pontefice massimo. Erano detti pontefici maggiori i membri ordinari, pontefici minori i segretari del collegio, di cui facevano parte anche il rex sacrorum, i 15 Flamini e le vestali; tutti dipendevano dal pontefice massimo, che era scortato dai littori, ma nelle cerimonie ufficiali veniva dopo il rex sacrorum e i 3 Flamini maggiori. I pontefici curavano anche il calendario con l'inserzione (fino alla riforma di Cesare), ogni due anni, del mese intercala re di 22 o 23 giorni.
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