Gli elementi attraverso i quali si può capire i motivi della profonda crisi che investì la Francia sul finire del XVIII secolo sono 3:
- le divisioni sociali;
- l’insufficienza delle istituzioni del regime assolutistico;
- la grave situazione delle finanze statali.
Per quanto riguarda il primo aspetto, in Francia come nella maggior parte d’Europa la società era divisa in 3 classi, o, per dirla col linguaggio settecentesco, in 3 «stati»: il clero, la nobiltà ed il popolo.
In un mondo in cui, per motivi religiosi, potevano scoppiare sanguinosissimi conflitti, il potere riconosciuto al clero era vastissimo, a cominciare dal controllo che esso aveva di fatto sull’istruzione, passando per le grandissime proprietà di cui disponeva e finendo con il diritto dei sacerdoti, se rei, di essere giudicati da tribunali ecclesiastici secondo il diritto canonico.
Non meno cospicui erano i privilegi della nobiltà, anch’essa ricca possidente terriera con diritto di imposizione di tasse e di fungere da giudice nell’ambito delle proprie terre.
Il cosiddetto «terzo stato», che costituiva la maggioranza della popolazione francese, era per sua composizione alquanto eterogeneo. Al suo vertice aveva il ceto alto-borghese (finanzieri, banchieri, grandi proprietari che vivevano di rendita); sotto di loro c’era il ceto medio, composto di imprenditori, commercianti all’ingrosso, intellettuali, chirurghi, farmacisti, librai, impiegati; più giù nella scala del prestigio sociale vi erano gli artigiani, i commercianti al dettaglio ed i lavoratori che svolgevano lavori manuali; l’ultimo gradino della scala sociale era occupato dai lavoratori della terra che, in numero di 20 milioni sul totale di 26 milioni totali di francesi, rappresentavano la maggioranza assoluta.
La disuguaglianza ed i privilegi su cui era basata la società francese si manifestavano in forma particolarmente acuta sul campo fiscale. Qualunque tentativo di abolire le esenzioni esistenti a favore del clero e della nobiltà si era concluso, nel corso del secolo, con la sconfitta dei ministri riformatori e dello Stato. L’intero sistema fiscale ed amministrativo francese appariva sempre più arcaico ed il discredito che colpiva l’inefficienza dello Stato faceva sentire sempre più impossibile la sopravvivenza del regime feudale, in cui gran parte dei redditi finivano nelle mani di una nobiltà priva di spirito imprenditoriale, e per questo, considerata la maggiore responsabile del ritardo dello sviluppo economico della Francia.
Dopo il 1781 la situazione delle finanze pubbliche si fece sempre più difficile. I ministri di Luigi XVI tentarono nuovamente la carta della riforma amministrativa, come già era fallimentarmente successo nel fra il 1771 ed il 1781 ad opera del ministro delle finanze Jacques Necker, ma l’opposizione dell’aristocrazia e del Parlamento di Parigi si trasformò in un’offensiva contro l’assolutismo, trovando vasti consensi anche fra i ceti borghesi e popolari. La convocazione degli Stati Generali, un antico corpo rappresentativo dei 3 «stati» francesi, a Versailles da parte del re aprì subito dissensi nel fronte antiassolutistico.
Se la borghesia mirava a trasformare gli «stati» in un vero e proprio organo di rappresentanza nazionale, la nobiltà vedeva negli Stati Generali una ghiotta opportunità per volgere a proprio vantaggio l’equilibrio dei poteri.
Il 17 giugno 1789 il «terzo stato», proclamandosi Assemblea Nazionale e quindi legittima rappresentante della nazione francese, compì il primo grande atto di rottura nei confronti dell’antico regime. Il 23 giugno Luigi XVI, sotto la spinta degli aristocratici, ordinò all’assemblea di sciogliersi; questa non eseguì affatto l’ordine del sovrano e così, al re ed agli aristocratici non restava che una cosa da fare per tentare di conservare i propri privilegi ed il proprio potere: fare intervenire l’esercito.
Alla notizia che Luigi XVI aveva concentrato la truppe attorno a Parigi, il furore popolare divampò: la folla si armò e le strade cittadine divennero teatro della rivoluzione. Mentre le truppe del re tentennavano, una folla di artigiani e di popolani diede l’assalto alla Bastiglia, una delle fortezze parigine più munite in cui venivano rinchiusi i detenuti politici: era il 14 luglio 1789 ed era l’inizio della rivoluzione francese.
Il giorno successivo il re annunciò all’Assemblea Nazionale che le truppe erano state allontanate da Parigi. Venne formata una Guardia Nazionale con a capo il marchese LaFayette, organo che aveva di fatto il compito di difendere la raggiunta conquista del potere cittadino, e l’amministrazione della città fu affidata ad una municipalità retta dalla borghesia. L’Assemblea Nazionale si trovò subito di fronte a delle scelte improrogabili: una nuova ondata rivoluzionaria aveva infatti preso avvio ad opera dei contadini che si scagliavano contro le decime ecclesiastiche ed i canoni feudali. Fu così che, con voto unanime, il 10 agosto 1789 l’Assemblea Nazionale decise di cancellare totalmente i residui del regime feudale (diritti di caccia, le residue corvées, diritti di bassa giustizia ed altri segni della servitù).
Tuttavia un’abolizione pura e semplice dei diritti che gravavano sulla terra e che si concretizzavano nel pagamento di canoni in natura ed in denaro sembrò assai più problematica: questa situazione creò complessi problemi economici e giuridici che andarono ad intrecciarsi con le successive fasi della rivoluzione.
Il 6 ottobre 1789 la Corte e l’Assemblea Nazionale si trasferirono da Versailles a Parigi, dove la battaglia politica si sarebbe svolta sotto gli occhi delle classi popolari e della borghesia cittadina armata. L’equilibrio che regnò nei 21 mesi che passarono tra l’ottobre ed il giugno del 1791, però, era evidentemente instabile. All’interno dell’Assemblea non vi era nulla di simile a dei veri partiti organizzati, ma le diverse posizioni erano ben distinte e su di esse si sviluppò ben presto una nuova terminologia politica: il gruppo che sedeva abitualmente a destra della presidenza era composto prevalentemente da conservatori e da più accorti esperti di diplomazia parlamentare che proponevano di prendere a modello la Costituzione Inglese, attribuendo al re il potere di nominare una seconda Camera accanto a quella eletta dal popolo; il gruppo della sinistra riuscì invece ad imporre il principio della DIVISIONE dei POTERI.
Su molti altri problemi invece regnava il dissenso tra le stesse fila della sinistra, ed in particolare sull’estensione da attribuire al diritto di voto; esso fu esteso infine a più del 60% dei maschi maggiorenni, ma fu fatta una netta distinzione fra cittadinanza politica «attiva» e «passiva» e, di fatto, il numero degli elettori che potevano partecipare in pieno alla vita politica diminuì fino a toccare le 50 mila unità.
Su molte altre questioni le forze riformatrici si mossero con maggiore accordo. La Francia venne divisa in 83 dipartimenti di dimensione territoriale pressoché identica, che andavano a sostituire le antiche regioni storiche; vennero abolite tutte le dogane interne; si liberalizzarono il commercio e la produzione; vennero aboliti tutti gli ordini religiosi puramente contemplativi e tutti i titoli nobiliari. Rimaneva però un ultimo nodo da sciogliere, quello che aveva fatto sorgere la necessità della convocazione degli Stati Generali: il problema finanziario. I costituenti non poterono far altro che riconoscere l’intero debito pubblico e l’unica soluzione del problema sembrò la nazionalizzazione e la vendita del patrimonio fondiario del clero.
Tutto pareva procedere bene sotto l’alveo costituzionale, ma due avvenimenti intervennero a turbare quest’equilibrio: Luigi XVI e la consorte Maria Antonietta tentarono la fuga dalla Francia con lo scopo primario di sconfessare l’intero operato della rivoluzione, ma furono riconosciuti mentre passavano da Varennes, un piccolo paese lungo la strada fra Parigi ed i Paesi Bassi austriaci, e ricondotti a Parigi. Questo fatto creò un’ulteriore spaccatura in seno al maggiore dei club politici che si erano formati nel 1790, i cui membri erano chiamati giacobini: nacquero i foglianti, dalle ispirazioni più liberali e democratiche rispetto all’originaria formazione, il cui leader di spicco fu Maximilien Robespierre coadiuvato da personaggi quali Jean-Paul Marat e Georges-Jacques Danton. La crisi fu, per il momento, evitata ed il re, reintegrato nelle sue prerogative, giurò infine fedeltà alla Costituzione.
Il secondo avvenimento, un anno più tardi della tentata fuga del re, fu la guerra contro Austria e Prussia voluta dai girondini (rappresentanti politici per lo più provenienti del dipartimento della Gironda, donde il nome, che rappresentavano gli interessi e la cultura della borghesia mercantile di Bordeaux e di Nantes e che avevano saputo conquistare un grande prestigio nell’ambito dell’Assemblea Legislativa grazie soprattutto alla loro oratoria radicale e fortemente emotiva). Il conflitto fu subito trasformato dal re e dalle forze controrivoluzionarie in un’occasione per portare il Paese alla sconfitta e per cancellare le riforme già effettuate. Una nuova ondata di sdegno si alzò sulla Francia e culminò con una nuova insurrezione popolare, il 10 agosto 1792, che portò alla caduta della monarchia. Si apriva così per la Francia una fase di trasformazione assai più radicale. Il 21 settembre venne proclamata la Repubblica.
Con la seconda rivoluzione gli schieramenti politici dell’Assemblea Legislativa erano stati decisamente sconvolti: i foglianti erano stati spazzati via, gli ultimi aristocratici e filomonarchici e lo stesso LaFayette scelsero la via dell’emigrazione.
Nella Convenzione si erano formati 3 raggruppamenti: i girondini (di destra), i giacobini (di sinistra)(chiamati anche montagnardi) e la «pianura» (di centro), composta dalla maggioranza dei deputati che, con i propri spostamenti politici da una parte all’altra, determinarono l’evoluzione politica dei 2 anni successivi.
Il 21 gennaio 1793 Luigi XVI, già processato e condannato a morte, fu ghigliottinato.
La proclamazione della Repubblica, l’esecuzione del re ed i successi della rivoluzione crearono contro la Francia una vasta coalizione di stati europei che, per tutto il 1793, mise in pericolo la sopravvivenza del nuovo regime. Allo stesso tempo veniva crescendo la consistenza delle forze controrivoluzionarie, alle quali erano passati anche esponenti di rilievo del 1789. La grande sollevazione contadina della Vandea fu il primo focolaio di guerra civile aperta. A essa si aggiunse, dopo il rovesciamento dei girondini che erano sembrati troppo indulgenti e inclini al compromesso, la rivolta di diverse altre provincie. Con l’avvento della dittatura giacobina, che poteva contare su uomini del calibro di Robespierre, Saint-Just e Carnot, politicamente molto rigidi ed intransigenti, ma moralmente incorruttibili, si cercò forse il solo modo per far fronte alla guerra esterna ed a quella civile.
Il pericolo del «terrore», instaurato per sconfiggere gli oppositori della rivoluzione ed i traditori della Repubblica, aprì gravi lacerazioni nel Paese, ma le misure economiche e sociali prese dal Comitato di Salute Pubblica, principale strumento della dittatura, condussero a consolidare i risultati essenziali della rivoluzione ed a respingere l’aggressione esterna.
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