La sociologia della religione - Studentville

La sociologia della religione

La religione per Weber.

Può destare sorpresa che, nella Premessa – scritta nel 1920, cioò poco prima della morte – alla monumentale Sociologia della religione, Weber dichiari esplicitamente la propria relativa incompetenza in tema di religioni non cristiane. Egli riconosce di aver utilizzato delle traduzioni, non essendo in grado nè di leggere direttamente i testi religiosi indiani e cinesi, nè di “valutarli in modo autonomo” (p. 16). Solo per ciò che riguarda la sezione ebraica afferma di aver potuto avvalersi di una sommaria conoscenza della lingua. Ne consegue che questi scritti sono da intendersi come assolutamente provvisori e destinati a essere superati quanto prima da indagini più approfondite. L’A. si augura che “il sinologo, l’indologo, il semitista, l’egittologo” non vi trovino “nulla di essenziale per il tema che dovesse venir giudicato errato dal punto di vista dei fatti” (ibid. ). Come si spiega il fatto che uno studioso così scrupoloso e altrimenti avverso a ogni forma di dilettantismo (“Il dilettantismo come principio della scienza ne segnerebbe la fine. Chi vuole la ‘visione’ vada al cinematografo”, ibid. ) si sia cimentato in un’impresa così rischiosa? Il motivo ò chiaramente spiegato dallo stesso Weber: “Essi sono stati scritti soltanto perchè, come si può comprendere, finora non esistevano analisi specialistiche condotte con questo fine particolare e da questi particolari punti di vista” (ibid. ). In primo luogo, dunque, si tratta di colmare una lacuna, sia pure in modo provvisorio; in secondo luogo, ciò che l’A. si propone ò verificare una tesi non attinente in senso stretto alla sociologia della religione: la specificità  del razionalismo occidentale e del modo di produzione capitalistico. Certo, se si usa il termine capitalismo in senso generico, tratti riconducibili a questo modello sono riconoscibili in epoche e in ambiti geografici assai diversi, anche nell’antichità  e in Oriente. Ma se con questo termine s’intende “l’organizzazione capitalistico-razionale del lavoro (formalmente) libero”, connessa con “la separazione tra economia domestica e impresa” e con “la tenuta razionale dei libri” (p. 11), bisogna concludere che si tratta di un fenomeno temporalmente e geograficamente assai circoscritto: un fenomeno specificamente occidentale e moderno. Solo l’Occidente – secondo Weber – ha conosciuto quel processo di razionalizzazione che ha dato luogo allo Stato (“Lo ‘Stato’ stesso, nel senso di un’istituzione politica con una ‘costituzione’ razionalmente statuita, con un diritto razionalmente statuito e con un’amministrazione affidata a funzionari specializzati (… ) ò noto in questa combinazione essenziale di elementi decisivi (… ) solamente in occidente”, p. 7) e al modo di produzione capitalistico, inteso come la “forza più fatale della nostra vita moderna” (ibid. ). L’opera si apre con i due saggi più vecchi, vale a dire L’etica protestante e lo spirito del capitalismo e Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, pubblicati per la prima volta fra il 1904 e il 1906. Qui Weber avanza la celeberrima tesi secondo la quale il tratto specifico dell’occidente capitalistico sarebbe da ricondurre all’influenza esercitata dall’etica calvinista. Differenziandosi da Werner Sombart, il quale riteneva che un ruolo decisivo nella nascita del capitalismo moderno fosse stato svolto dagli ebrei, l’A. individua tale elemento nella religiosità  propria del calvinismo, “intento – come scrive Pietro Rossi nell’Introduzione – a cercare ‘nel mondo’, cioò nell’attività  economica, il presagio del destino nell’aldilà ” (p. X). Non si tratta però di una derivazione di tipo meccanico: così come rifiuta il materialismo storico, inteso come rapporto immediato fra struttura e sovrastruttura, allo stesso modo Weber rifiuta di dedurre tout court il capitalismo dalla sfera religiosa: “Non può naturalmente essere nostra intenzione sostituire ad un’interpretazione causale della civiltà  e della storia in senso unilateralmente ‘materialistico’ un’altra interpretazione altrettanto unilateralmente ‘spiritualistica’. Entrambe sono parimenti possibili, ma con l’una e con l’altra si serve altrettanto poco la verità  storica, qualora essa pretenda di costituire non già  un lavoro preparatorio, ma una conclusione dell’indagine” (pp. 186-187). Il meccanismo di imputazione causale di un fenomeno storico, insomma, appare all’A. complesso e non univoco. Per ciò che riguarda il capitalismo e il razionalismo occidentale, se non si devono trascurare “le condizioni economiche, data la fondamentale importanza dell’economia” (p. 15), occorre tenere nella massima considerazione anche la mentalità  religiosa. Le ricerche di sociologia dedicate alle religioni non cristiane servono allora a confermare e completare le tesi avanzate ne L’etica e ne Le sette. Per questo motivo, l’interesse che muove Weber in questa direzione di ricerca “non si può qualificare come propriamente religioso” (p. X): infatti, “se in un determinato ambito storico la religione si ò rivelata la premessa indispensabile della specifica mentalità  del capitalismo moderno, ò lecito presumere che altrove essa abbia esercitato una funzione analoga oppure, al contrario, abbia impedito l’affermarsi di forme di economia capitalistica” (p. XV). Se la prima parte dell’opera raccoglie le ricerche dedicate all’etica calvinista, le parti successive raccolgono gli studi dedicati rispettivamente all’etica economica del confucianesimo e del taoismo, dell’induismo e del buddismo e infine del giudaismo antico. Il confucianesimo ò caratterizzato dalla presenza di un esteso e articolato apparato burocratico che si fa portatore di un’etica ‘conformista’, tendente a confermare e perpetuare l’assetto esistente. Nell’induismo abbiamo la presenza di un ceto sacerdotale inserito in posizione di privilegio all’interno di un rigido sistema di caste. Analogamente alla burocrazia confuciana, anche tale ceto ò interessato a promuovere un’etica economica di stampo conservatore. Nel giudaismo antico, il ceto intellettual-religioso più rilevante ò invece quello dei profeti: per arginare la diaspora del popolo ebraico, si fanno promotori di un’etica religiosa incentrata sulla nozione di redenzione in grado di garantirne e perpetuarne l’unità  spirituale anche lontano dalla terra promessa. Se dunque induismo e confucianesimo sembrano assolvere a una funzione giustificativa nei confronti dell’assetto esistente, sia dal punto di vista sociale che economico, il giudaismo antico prefigura invece una trasformazione, almeno nei termini dell’annunciata redenzione del popolo ebraico. Ma ò con il cristianesimo che si realizza una decisa rottura nei confronti dell’assetto economico e politico esistente. Essa, scrive Rossi, “ha condotto al rifiuto delle forme tradizionali di attività  economica, giungendo nel Protestantesimo ascetico a concepire la ricerca del profitto come la ricerca del segno dell”elezione’ divina e quindi di una promessa di salvezza eterna” (ibid. ). Si legge infatti ne L’etica: “Fin dove arrivò la potenza della concezione puritana della vita, essa favorì in ogni circostanza (… ) la tendenza ad una condotta di vita borghese, economicamente razionale. Essa fu il suo sostegno essenziale e soprattutto l’unico sostegno coerente. Essa fu all’origine dell”uomo economico’ moderno” (p. 177). Naturalmente, nel momento in cui questi movimenti nacquero, non esercitarono subito un’influenza positiva sull’elemento economico: all’inizio era troppo forte la spinta strettamente religiosa. Quell’influenza cominciò a manifestarsi poco alla volta, man mano che l’iniziale entusiasmo andava scemando e trasformandosi, per così dire, in energia intramondana: “Quei potenti movimenti religiosi (… ) dispiegarono la loro piena influenza economica soltanto dopo che era già  stata superata l’acme dell’entusiasmo puramente religioso, quando lo spasimo della ricerca del regno di Dio cominciava a risolversi gradatamente nella sobria virtù professionale, quando la radice religiosa si inaridiva lentamente facendo posto all’utilitarismo dell’aldiquà ” (p. 179). Si tratta di uno snodo essenziale, perchè rivela come per l’A. la connessione fra religione ed economia non sia affatto pacifica, ma costituisca un campo di tensioni destinate nel tempo a radicalizzarsi sempre più. Su questo punto converrà  rifarsi alla Zwischenbetrachtung e alle ultime, ispirate pagine de L’etica. Nella cosiddetta Zwischenbetrachtung, ovvero nell’Intermezzo: Teoria dei gradi e delle direzioni del rifiuto religioso del mondo, Weber prende in esame il rapporto di tensione che si istituisce fra le religioni, in particolare quelle basate sull’idea di salvazione, e la sfera dell’agire profano. Particolarmente significativa ò l’analisi della tensione fra religione e conoscenza. Da un lato, la religione appare come un importante strumento di razionalizzazione del mondo (si pensi a questo proposito al ruolo, evidenziato in Economia e società  [Tà¼bingen 1922; trad. it. Milano 1961], svolto dall’istituzione Chiesa nel processo di formazione dello stato moderno); dall’altro, quanto più l’occidente dispiega la propria razionalità , tanto più si emancipa dalla sfera religiosa e dalle spiegazioni della realtà  fondate su un principio trascendente. àˆ il cosiddetto ‘disincantamento del mondo’. Tale processo dà  luogo, per usare le parole di Julien Freund, “a una tecnica puramente meccanica e a una conoscenza razionale dei problemi, di modo che la religione si trova sempre più relegata fra le forze irrazionali e antirazionali che esigono il ‘sacrificio dell’intelletto'” (Sociologia di Max Weber (1966), trad. it., Milano 1968, p. 187). Se lo stato moderno eredita per molti versi la razionalità  giuridica della Chiesa cattolica, se il capitalismo ò debitore nei confronti dello spirito calvinista, tuttavia il processo di sviluppo dell’occidente sembra volgersi infine contro ciò che l’ha generato. L’A. esprime questo concetto nelle ultime pagine de L’etica attraverso la famosa metafora della gabbia d’acciaio: “Quando infatti l’ascesi fu trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a dominare l’eticità  intra-mondana, essa cooperò per la sua parte all’edificazione di quel possente cosmo dell’ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con stravolgente forza coercitiva (… ) lo stile di vita di tutti gli individui nati in questo ingranaggio, e non soltanto quelli direttamente attivi nell’acquisizione economica. Secondo l’opinione di Richard Baxter, la cura per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come un ‘sottile mantello che si possa gettare via in ogni momento’. Ma il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio. Mentre l’ascesi intraprendeva lo sforzo di trasformare il mondo e di esercitare la sua influenza nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere crescente e, alla fine, ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia. Oggi il suo spirito – chissà  se per sempre – ò fuggito da questa gabbia” (p. 185). In queste righe si avverte la tipica polarità  che anima lo sforzo intellettuale di Weber e che tanto contribuisce alla sua forza fascinatrice. Da un lato, si rivolge al proprio oggetto di studio con lo sguardo oggettivo e disincantato di chi analizza, secondo le parole di Bobbio, “un processo ormai compiuto” (“La teoria dello Stato e del potere”, in P. Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Torino 1981, p. 243). Dall’altro, appare emotivamente coinvolto – e dunque politicamente partecipe – dinanzi ai rischi connessi a questo processo apparentemente inarrestabile di tecnicizzazione impersonale. Come ò stato giustamente osservato, la riflessione weberiana, “lungi dal risolversi in una pacata rassegna delle tappe trascorse e in una fatalistica rassegnazione all’ineluttabilità  del destino, ò attraversata sino alla fine da una drammaticità  derivante dall’acuta intuizione che gli esiti del processo di razionalizzazione non sono nè pacifici nè scontati” (G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma 1983, p. 96).

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