La struttura dei Promessi Sposi

La struttura dei Promessi Sposi

La struttura dei Promessi Sposi spiegata in maniera chiara e completa; un approfondimento per comprendere al meglio l'opera di Manzoni.

La Struttura dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni

La struttura dei Promessi Sposi può essere definita “a cannocchiale”, per l’ampliamento della prospettive che, dai primi capitoli chiusi nell’ambito ristretto del paese dei protagonisti, coinvolge spazi sempre più ampi e fatti storici di portata europea. – I primi otto capitoli (I-VIII) costituiscono la sezione borghigiana, perché luogo dell’azione è il borgo dove vivono Renzo e Lucia.

Qui la storia prende inizio con la mancata celebrazione delle nozze, qui risiedono i personaggi d’invenzione, che sono presenti per tutto lo svolgimento della storia: i promessi sposi, la madre della ragazza, Agnese, il parroco del paese, don Abbondio e, naturalmente, il persecutore don Rodrigo, che vive in un palazzotto poco distante.

Cronologicamente la sezione borghigiana presenta una narrazione molto lenta e un numero assai elevato di fatti, concentrati in quattro giorni, dal 7 al 10 novembre 1628. – La seconda sezione e la terza sezione del romanzo comprendono rispettivamente i capitoli IX-XVII e XVIII-XXVI. Le storie dei fidanzati divergono: Lucia viene a contatto con i personaggi “storici” (la monaca di Monza, l’innominato, il cardinal Borromeo, dopo la sua liberazione). La ragazza svolge, del tutto inconsapevolmente, il ruolo di strumento della Provvidenza, perché ha una parte significativa nella conversione dell’innominato. Le scene che vedono protagonista Lucia si svolgono in spazi chiusi (il convento, il castello, la casa del sarto dove viene ospitata dopo la liberazione). Il tempo in cui vive le sue avventure è decisamente indeterminato. Renzo, invece, si muove in spazi aperti: Milano, la campagna lombarda, l’Adda, il territorio di Bergamo. Egli rimane coinvolto nei tumulti contro il carovita nel capoluogo lombardo, dove, nell’arco di due giorni (11 e 12 novembre) partecipa alla rivolta, si ubriaca, litiga con un ospite, si fa credere un rivoltoso, cade nella trappola di una spia, si fa arrestare, ma riesce a scappare. Il 13 novembre eccolo libero in territorio bergamasco, alla volta del cugino Bortolo, presso cui si ferma una quantità di tempo non specificata.

La quarta e quinta sezione sono costituite rispettivamente dai capitoli XXVII-XXXII e XXXIII-XXXVIII. Vi sono descritte, seguendo le cronache del tempo, senza risparmiare dettagli e particolari, la carestia nel Milanese, la guerra per il possesso di Mantova (episodio “italiano” della guerra dei trent’anni che insanguina l’Europa) e la peste che i soldati imperiali (i famigerati lanzichenecchi) diffondono nel ducato e nelle zone circostanti. Renzo guarisce dalla malattia e torna a Milano in cerca di Lucia. Dopo che l’ha trovata, si reca al paese. I loro destini si ricongiungono e finalmente ecco celebrate le nozze. I personaggi essenziali alla storia ci sono tutti: i fidanzati, in primo luogo, la madre Agnese e poi don Abbondio. Il respiro narrativo si fa ampio e compare anche una lunga ellissi (infatti non viene raccontato nulla di ciò che accade ai nostri eroi nell’anno 1629) che fa scorrere velocemente il racconto.

Però le parti in cui vengono illustrate le cause dei tre flagelli sono molto dense e asciutte, veri resoconti storiografici che appesantiscono il ritmo e hanno indotto il critico e filosofo Benedetto Croce (1866-1952) a considerarle pagine assolutamente prive di poesia, se non addirittura superflue (Benedetto Croce che, in un saggio del 1952, nega decisamente il carattere poetico del romanzo, sostenendo che troppo rigido e intransigente è il moralismo manzoniano, mentre lo stile indulge all’oratoria e le parti storiche risultano pesanti). Potremmo definire “a cannocchiale” la struttura dei Promessi Sposi, per l’ampliamento della prospettive che, dai primi capitoli chiusi nell’ambito ristretto del paese dei protagonisti, coinvolge spazi sempre più ampi e fatti storici di portata europea.

Come si può notare l’intreccio‚ (ossia la disposizione degli avvenimenti scelta dall’autore) è piuttosto complesso, perché tiene conto della necessità di elaborare flash-back che illustrino al lettore alcuni antefatti. Perciò non sempre coincide con la naturale sequenza dei fatti, che si chiama fabula. Lo vediamo, ad esempio, nei punti in cui l’autore racconta la vita di alcuni personaggi. Nel IV capitolo viene illustrata la giovinezza di padre Cristoforo e un tragico episodio, fondamentali per comprenderne il carattere e le scelte importanti che stanno alla base del suo atteggiamento in difesa degli umili. Allo stesso modo due capitoli (il X e l’XI) raccontano la lunga serie di maneggi che riescono a costringere Gertrude alla clausura nel convento di Monza; la storia dell’innominato viene sintetizzata (cap. XIX) per meglio illustrare la portata della sua “conversione”, mentre la vita del cardinal Borromeo viene proposta (cap. XXII) quasi come il modello di comportamento cristiano. Si aggiungono le digressioni circa le condizioni del Milanese nel Seicento, la situazione sociale, le classi e il sistema di governo.

Ancora la narrazione viene interrotta per spiegare la causa dei tumulti per il caro-pane, la causa della calata dei lanzichenecchi, il diffondersi della peste tra l’ignoranza, l’incompetenza e la superstizione sia della popolazione che degli addetti alla tutela della salute pubblica. Nei confronti della vicenda l’autore si propone come narratore onnisciente, ossia al di sopra della storia, già al corrente di “come andrà a finire” e quindi in grado di formulare giudizi, sdrammatizzare con toni pacati, intervenire ironizzando sulle reazioni emotive dei personaggi. La sua è una focalizzazione zero, in quanto, essendo al di fuori degli avvenimenti, e osservandoli criticamente, come un regista che dirige l’allestimento di una scena, non assume il punto di vista di alcun personaggio, ma valuta con imparzialità.

Talvolta l’autore interviene direttamente, apostrofando il pubblico: “Pensino ora i miei venticinque lettori…” (cap. I) oppure esprimendo un chiaro giudizio morale: “Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre)…”. (cap. X); o ancora come quando introduce l’ironia (che corrisponde a un giudizio, pur sfumato e temperato) per sottolineare la denuncia di Agnese all’arcivescovo delle scuse addotte da don Abbondio per rimandare le nozze: “non lasciò fuori il pretesto de’ superiori che lui aveva messo in campo (ah, Agnese!)” (cap. XXIV).

Quella dell’autore però, non è l’unica voce narrante del romanzo: non dimentichiamo la finzione del manoscritto. Infatti Manzoni immagina di trascrivere un libro elaborato da un Anonimo e, all’occasione, si trincera dietro le responsabilità di quello. Per esempio, quando non vuole rivelare il nome dell’Innominato (che, in tal modo, risulta più misterioso e suggestivo), dice, riferendosi anche alla località in cui sorge il castello: “Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo…”. Infatti il signorotto sta recandosi dall’innominato per chiedergli di rapire Lucia dal convento di Monza.

Capita che l’autore si cali nei personaggi, assumendone il punto di vista: non è la posizione prevalente, ma ogni tanto succede che il narratore adotti una focalizzazione interna. Lo notiamo nei monologhi di Renzo in fuga: “Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere , io!…” (cap. XVII).

 

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