Le idee di Keynes incontrarono difficoltà e diffidenza negli ambienti conservatori, ma anche favorevole accoglimento presso quegli economisti che, nella cerchia di Roosevelt, si era no scostasti dai sacri principi della tradizione classica e avevano avviato una politica economica pragmatica. Keynes nello scritto “La fine del laissez-faire ” afferma che non è vero che gli individui possiedono una “libertà naturale” ne è vero che l’interesse egoistico sia generalmente illuminato.
Keynes non proponeva l’abolizione della libera impresa, ma un capitalismo “saviamente governato” dallo stato mirante a guidare il mercato. Questo intervento non deve sostituire i privati nelle attività che possono compiere, ma assumere le decisioni che nessuno vuole prendere. Nel 1930 Keynes pubblicò il “trattato sulla moneta”, rivoluzionando concetti economici che erano pacificamente accettati da tutti. Mentre secondo la teoria tradizionale, risparmio e investimenti coincidono, secondo Keynes tale coincidenza, se c’è, è del tutto casuale in quanto, nel capitalismo avanzato, le decisioni sono prese da soggetti diversi in base a motivazioni diverse e indipendenti le une dalle altre. Per Keynes il risparmio non dipende dal saggio d’interesse essendo condizionato dal livello del reddito. L’errore della teoria classica è nel riconoscere che una diminuzione di consumi possa condurre, anzichè a un aumento degli investimenti, a una riduzione della domanda complessiva e alla conseguente disoccupazione. Perciò, la teoria classica non riconosce che vi possa essere un “disoccupazione strutturale” come quella che in realtà si ebbe su larghissima scala a partire dal 1929. Le osservazioni di Keynes ponevano con forza l’esigenza che l’economia non venisse lasciata al libero gioco degli interessi privati, ma regolati da una provvidenziale “mano invisibile”. In una lettera del 1933, Keynes sollecitava il presidente Roosevelt a porre un enorme rilievo all’aumento del potere di acquisto nazionale risultante da spese di governo finanziate da prestiti.
Egli era convinto che la depressione in corso non fosse un evento congiunturale, un delle solite crisi che il sistema avrebbe prima o poi assorbito spontaneamente con la riduzione dei salari per rilanciare l’economia.
L’idea che la riduzione dei salari avrebbe accresciuto l’occupazione diminuendo i costi di produzione, così come l’idea che la disoccupazione derivasse dalla scarsa propensione al risparmio, erano “concezioni rozze”.
Sovvertendo l’impianto classico, Keynes sosteneva invece che il male maggiore fossero proprio l’eccessiva propensione al risparmio e la compressione dei salari, che sottraevano i capitali agli investimenti produttivi e quindi alla ripresa, al risparmio della domanda e al riassorbimento della disoccupazione. Era necessario accrescere la domanda globale attraverso l’impiego da parte del governo di risorse finanziarie contraendo prestiti anche se ciò comportava la caduta di un altro “mito” dell’economia classica, la parità del bilancio statale.
Ciò mise in moto il cosiddetto moltiplicatore degli investimenti proprio come è descritto nel seguente schema.
Nel momento in cui lo Stato interviene mediante la spesa pubblica, i percettori di nuovi o maggiori redditi spenderanno tali introiti di beni di consumo che dipende dalla loro propensione marginale al consumo.
Più elevata la propensione al consumo, maggiore sarà la percentuale di reddito che “rientra” nella produzione e il processo moltiplicativo del reddito conseguente a un incremento negli investimenti.
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