La politica estera del Governo italiano dopo il 1861 era tesa verso due precisi traguardi: l'annessione del Veneto e quella di Roma. Per raggiungere il primo obiettivo, l'Italia sfruttò l'offerta del dissidio austro-prussiano in seguito alla questione dei ducati danesi, alleandosi con la Prussia.
L'Austria, preoccupata di dover aprire un nuovo fronte, all'ultimo momento, offrì la cessione pacifica del Veneto in cambio della neutralità italiana, ma la proposta fu respinta dal Governo presieduto dal generale Alfonso Lamarmora, che non intendeva tradire la parola data all'alleato prussiano e che voleva dimostrare a tutti i costi la forza del giovane Stato.
Ma le operazioni militari, condotte dall'alto comando italiano senza tener conto dei piani strategici prussiani, risultarono disastrose. Le forze di terra italiane furono infatti respinte il 24 giugno 1866 a Custoza, mentre il mese dopo la flotta al comando del generale Persano subiva una grave sconfitta nelle acque di Lissa. Solo Garibaldi, operando con le sue CAMICIE ROSSE nel Trentino, otteneva ottimi risultati riportando una splendida vittoria a Bezzecca, che gli apriva la strada per Trento. Ma l'armistizio, intervenuto nel frattempo fra Austria e Prussia dopo la battaglia di Sadowa, costrinse l'esercito italiano ad interrompere le ostilità; così a Garibaldi venne ordinato di ritirarsi dai territori occupati. Il Veneto fu annesso all'Italia.
Più lunga e difficoltosa fu l'annessione di ROMA. I moderati, infatti, seguendo l'indirizzo del Cavour, intendevano risolvere il problema attraverso trattative diplomatiche; i democratici, invece, fra i quali c'era anche Garibaldi, intendevano ricorrere all'uso della forza, mettendo l'Europa di fronte al fatto compiuto. L'iniziativa fu presa proprio da Garibaldi nel 1862. Egli raccolse in Sicilia 5.000 volontari e passò in Calabria al grido di «ROMA O MORTE!». Ma di fronte alla minaccia di Napoleone III che intendeva intervenire con l'esercito a difesa del Papa, il governo italiano decise di inviare truppe regolari per fermare Garibaldi sull'Aspromonte.
Dopo il doloroso episodio, che aveva visto soldati italiani sparare contro le CAMICIE ROSSE, il governo italiano riprese le trattative con Napoleone III, che si conclusero con la Convenzione di Settembre (1864): la Francia si impegnava a ritirare le proprie truppe, lasciate a Roma a difesa del Papa, entro 2 anni, mentre l'Italia si impegnava a rispettare ed a difendere l'integrità territoriale dello Stato Pontificio. A garanzia di questo accordo, il governo si impegnava altresì a trasferire entro 6 mesi la capitale del Regno d'Italia da Torino a Firenze.
Come stabilito, nel 1866 la guarnigione francese evacuò Roma. Garibaldi, allora, decise di ripetere il tentativo fallito sull'Aspromonte. Penetrato con 3.000 volontari nel Lazio, occupò Monterotondo e giunse a pochi km. da Roma, ma fu costretto a ritirarsi trovandosi di fronte un corpo di spedizione di 23.000 uomini inviato prontamente da Napoleone. Garibaldi non riuscì tuttavia ad evitare lo scontro a Mentana, ove i garibaldini furono sbaragliati (1867).
La «questione romana» trovò finalmente la sua soluzione in seguito al crollo del SECONDO IMPERO provocato dalla truppe prussiane. Infatti, con la proclamazione delle Repubblica Francese, il governo italiano si sentì sciolto dagli impegni sottoscritti con Napoleone.
Vittorio Emanuele II inviò una lettera a Pio IX scongiurandolo di «non opporsi all'ineluttabile». Il Papa respinse la proposta ed il 20 settembre 1870, alle 5 del mattino, i bersaglieri del generale Raffaele Cadorna entrarono a Roma attraverso una breccia aperta a cannonate nelle mura, a Porta Pia. Il generale Kanzler, comandante delle truppe pontificie, nel pomeriggio firmava la capitolazione della città, mentre Pio IX si ritirava nei palazzi vaticani.
ROMA era finalmente la capitale d'Italia.
Il Papa rifiutandosi di scendere a compromessi e considerandosi un «prigioniero morale», ribadì il suo diritto al potere temporale come condizione necessaria per esercitare in piena libertà e sicurezza la sua missione spirituale; scomunicò tutti coloro che avevano preso parte all'occupazione, compreso Vittorio Emanuele II; fece pressioni sulle corti d'Europa affinché intervenissero a difesa della Chiesa, ottenendo però risposte vaghe ed evasive.
In queste condizioni, lo Stato italiano si vide costretto a regolamentare unilateralmente i rapporti con la Chiesa, promulgando nel 1871 la Legge delle guarentigie (=delle garanzie). Ispirata al principio cavouriano della «libera Chiesa in libero Stato», la legge sancì la distinzione della sfera ecclesiastica e religiosa da quella pubblica e civile, stabilendo anche le prerogative del Pontefice e della Santa Sede e disciplinando le relazioni fra la Chiesa e l'Italia.
Nonostante le buone intenzioni del Governo, Pio IX respinse con fermezza la Legge delle guarentigie. Dopo aver dichiarato che non era conveniente (non expedit) per un cattolico partecipare alle elezioni, invitò tutti i fedeli a ritirarsi dalla vita politica ed a considerarsi come fossero degli «esiliati interni».
Quest'intransigenza del Pontefice diede nuovi motivi alla Sinistra per scatenare una violenta campagna anticlericale che portò alla soppressione della facoltà di teologia nelle università, la confisca delle proprietà delle corporazioni religiose di Roma, l'obbligo del servizio militare da parte dei sacerdoti; nel 1877 fu tolto l'obbligo dell'istruzione religiosa nelle scuole elementari.
La «riconquista» della società e dello Stato da parte della Chiesa fu possibile solo aggirando il non expedit del Papa. Solo sotto il regime fascista, con i Patti Lateranensi dell'11 febbraio del 1929, l'annosa diatriba fra Stato Italiano e Chiesa troverà la sua soluzione.
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