La Vertigine di Giovanni Pascoli - Studentville

La Vertigine di Giovanni Pascoli

G. Pascoli: La vana ricerca di una chiara speranza religiosa all'interno del mistero che circonda l'uomo - La vertigine.

La cosiddetta poesia cosmica di Giovanni Pascoli allontana per un momento l’attenzione del poeta dalla contemplazione quasi ossessiva dei piccoli particolari della vita della natura e lo fa rivolgere al cielo, fino a misurarsi con le grandi categorie universali dello spazio e del tempo, dando vita a sensazioni forti di straniamento dalla realtà, di autentico spossessamento di certezze fisiche, fino all’abbandono inerte a dimensioni surreali.

La vertigine è un’originalissima condizione psicofisica di totale abbandono alle forze imponderabili del cosmo, che paiono incredibilmente risucchiare il corpo (e la mente) del poeta, vittime della forza centripeta della Terra, improvvisamente incapace di attrarre alla sua superficie gli esseri che la popolano. Il vento cosmico  trascina dolcemente ma irrevocabilmente l’uomo verso la profondità infinita dello spazio-tempo, fino ad un termine ultimo che non  è dato di conoscere. La morte – concettualmente – può intendersi come tale limite invalicabile.

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Ecco che tutto pare anticipare un’esperienza religiosa, in quanto il poeta non sembra voler vivere passivamente tale spossessamento e desidera rintracciare l’oggetto della sua finale speranza, cogliendo una verità ed un senso ultimo nella sua esperienza di uomo:

non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?

E’ la ricerca di Dio, che tuttavia si rivela vana. La dimensione della positiva fede religiosa sfugge all’animo di Pascoli, avvolto angosciosamente nel mistero della vita:

La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,
di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!

La vertigine
da Nuovi poemetti

Si racconta di un fanciullo che aveva perduto
il senso della gravità…

Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;
voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d’altrettanto non va su, sotterra!
Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s’effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.
Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell’oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
Ma quando il capo e l’occhio vi si piega
giù per l’abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega…?
Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!
a un nulla, qui, per non cadere in cielo!

Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,
su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!
Su quell’immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.
Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:
se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!
veder d’attimo in attimo più chiare
le costellazioni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!
precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso.
sprofondar d’un millennio ogni momento!
di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,
di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!

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