L'avvenimento della scrittura - Studentville

L'avvenimento della scrittura

La scrittura in Derrida.

Il modello di testo che propone Derrida non ò più omogeneo e padroneggiabile dall’autore che lo ha scritto, ma piuttosto strutturato in modo plurale e differenziale, pensabile come un tessuto di tracce e rinvii che ne fanno una manifestazione eventuale, un punto in perpetua trasformazione di un originario movimento di scrittura che impedisce qualsiasi sua riduzione ad una semplice forma di presenza. In realtà  il proposito di Derrida sarà  proprio quello di mostrare come ogni possibilità  di presenza, di pienezza, di significato appartenga da sempre al movimento della significazione, ovvero a quell'”apertura della prima esteriorità  in generale” che lega costitutivamente ogni presenza alla non-presenza dell’altro, ogni vita alla morte, ogni dentro ad un fuori. Per comprendere correttamente la sua prospettiva non si dovranno però intendere tali termini all’interno di semplici strutture oppositive, che li ricomprenderebbero all’interno di una logica dell’identità , quanto piuttosto si dovrà  tentare di pensarli come coppie che si sollevano da quel fondo, da quella “riserva” costituita dal modo di accadere della traccia (che ò già  doppia, mai semplicemente se stessa, sempre eccedente, rinviante ad altro), dal quel gioco che si crea tra i segni di un testo e che corrisponde al lavoro attivo e supplementare della dif- ferenza, ovvero alla legge strutturale anonima, eccentrica e nascosta che ò sottintesa ad ogni movimento significante. Al fine di ritrovare tale funzionamento autonomo dell’operazione testuale, Derrida propone così una pratica di lettura che, invece di proteggere i testi e di riconfermarli nella chiusura secolare da cui ò nata la metafisica logocentrica e fonocentrica, li percorra sotterraneamente per aprirli dall’interno, guardando attraverso quella fessura che tali limitazioni, nonostante tutto, lasciano intravedere. L’intero progetto della Grammatologia può essere letto come un tentativo di decostruzione di quelle figure concettuali della metafisica occidentale che, formatesi in un preciso momento storico ed organizzatesi tutte attorno alla centralità  di determinati nomi e forme verbali (quali ad esempio prossimità , immediatezza, voce, essere… ), hanno assunto nel tempo una consistenza e una solidità  tali da apparire come innocenti descrizioni linguistiche di strutture naturali ed eterne. Il testo in particolare si apre con l’annuncio di un movimento del linguaggio appena percettibile, quello del “significante del significante”, della lingua come scrittura, per cui essa, da semplice ed inconsistente doppio, “comincerebbe a debordare l’estensione del linguaggio”, a comprenderlo e a contaminare con la sua esteriorità  ogni possibilità  in generale di significato: “L’avvenimento della scrittura ò l’avvenimento del gioco; il gioco oggi si riconsegna a se stesso, cancellando il limite a partire dal quale si ò creduto di poter regolare la circolazione dei segni, e trascinando con sè tutti i significati rassicuranti, costringendo alla resa tutte le piazzeforti, tutti i rifugi del fuori-gioco che vegliavano sul campo del linguaggio” Tale avvenimento significa innanzitutto l’inizio della delimitazione dell’epoca metafisica, dominata dal privilegio della phonò, ovvero da un sistema linguistico che crede nella trasparenza e nella naturalità  della sostanza fonica, nella vicinanza della voce alla presenza piena, e che da tale illusione produce l’idea di un senso esistente anteriormente, che non ha bisogno del significante per essere ciò che ò, che può “aver luogo”, nella sua intelligibilità , prima della sua “caduta” fuori, della sua trascrizione verbale e sensibile. In tale struttura logocentrica la scrittura (come evidentemente appare nell’ideale della scrittura fonetica) scadeva al ruolo di tecnica rappresentativa, di strumento pratico per la traduzione di una parola piena e pienamente presente a sè e al suo significato. L’operazione di Derrida tenterà  di mostrare invece come non solo tale concetto di scrittura abbia una portata storicamente limitata all’epoca della nostra cultura onto-teologica, ma che costituisca anzi la condizione stessa della possibilità  dell’apparire e del mantenersi di tale epoca, “che si avvicinerebbe ora a ciò che ò propriamente il suo esaurimento”. Esempio illuminante che testimonia questo stato dei fatti ò quella che Derrida chiama ” la morte della civiltà  del libro “: l’idea del libro ò infatti quella di un luogo che riunisce in una presenza simultanea la totalità  del significante, che può essere tale solo a patto che gli preesista una totalità  di significato (“il libro della natura” o di Dio) che ne regoli così la sua iscrizione; ò con tale operazione di “protezione enciclopedica” che l’epoca logocentrica si ò opposta all'”energia dirompente, aforistica della scrittura”, si ò garantita cioò la possibilità  della sua stessa sopravvivenza. “Ma se il Libro fosse solo, in tutti i sensi dell’espressione, un’epoca dell’essere… se la forma del libro non dovesse più essere il modello del senso? “, solo in tal modo potrebbe farsi strada la possibilità  di un illegibilità  radicale, originaria, non più in relazione ad una leggibilità  perduta o non trovata, ma anteriore alla stessa epoca del libro. L’annuncio della distruzione del libro rientra nel più ampio proclama della ” morte della parola “, della scomparsa “del primo significante”, del privilegio dell’ espressione orale come luogo di produzione dei primi simboli “in prossimità  assoluta con l’essere”, nelle vicinanze immediate con un senso interamente leggibile, e che permette di preservarlo dal movimento corrosivo ed ambiguo del processo della significazione. Il modello di questo logos puro e naturale ò contemporaneo all’epoca teologica, “il segno e la divinità  hanno lo stesso luogo e tempo di nascita”: come il verbo divino ò parola assoluta di una soggettività  creatrice infinita, che crea le cose solo nominandole, così il linguaggio della metafisica, anche se espresso tramite un soggetto umano e finito, disponendo della voce come significante puro, ò ancora pensabile in un rapporto immediato con il senso. Quando poi, al momento dei grandi razionalismi del XVII secolo, si costituirà  l’idea di una soggettività  come presenza assoluta a sè, come coscienza intuitiva che avviene nell’evidenza di sè, tale logos corrisponderà  alla voce interiore della coscienza che intende se stessa, all’espressione spontanea della propria verità  ed interiorità  che non trae dal di fuori nulla, e che fonda perciò la possibilità  di un’esperienza originaria di un significato che si produce in un’ideale cancellazione del significante: “nella chiusura di quest’esperienza la parola ò vissuta come l’unità  elementare e indecomponibile del significato e della voce, del concetto e di una sostanza d’espressione trasparente”. Di contro a questa parola se-dicente, ad un “logos che crede di essere padre di se stesso”, parola della vita (interiore) che sfugge al movimento del segno, la scrittura appare sempre seconda, istituita, “lettera morta e portatrice di morte”, scrittura “del di fuori”, perversa ed artificiosa, esiliata nell’esteriorità  del corpo e delle passioni, ovvero in quel luogo ove si sono emarginate tutte le minacce all’unità  del senso. Sulla scorta del pensiero nietzscheano, Derrida vede invece nella scrittura (e nella lettura) un’operazione “originaria” nei confronti del senso (il che non vuol dire, per semplice inversione, “che il significante sia ora fondamentale o primo”), il rischio permanente che minaccia di “spezzare il nome”, di immobilizzare nella ripetizione della lettera la creazione spirituale nella parola, di interrompere con uno sdoppiamento l’unità  privilegiata e immediata del suono e del senso nella voce. Benchè infatti l’intenzione dichiarata dell’ideale di scrittura fonetica sia evidentemente quella di proteggere “l’integrità  del “sistema interno” della lingua” dall’esteriorità  della notazione, dal pericolo della raffigurazione, di fatto succede che essa da sempre non vi riesca: “quel modello particolare che ò la scrittura fonetica non esiste; mai una pratica ò fedele in modo puro al suo principio”. Il fuori, ciò che dovrebbe rappresentare l’accidentale, l’inessenziale rispetto al dentro, alla logica interna ed interiore della parola, viene in realtà  spesso analizzato con accenti che tradiscono una paura ingiustificabile verso ciò che dovrebbe solamente aggiungersi in modo esteriore ad una lingua inalterabile ed indipendente nella sua essenza. Il “vestito” della parola si trasforma così in travestimento, intrattenendo un rapporto con la sostanza che ri-copre “che ò tutto meno che di semplice esteriorità “, producendo piuttosto una serie di ambigui e al tempo stesso seducenti effetti di “inversione e perversione” tra immagine e cosa, tra grafia e parola, tra significante del significante e significante del significato: “in questo gioco della rappresentazione, il punto d’origine diventa inafferrabile”; la “perversione” di questo rincorrersi di rimandi risiede proprio nell’allontanare indefinitamente la possibilità  di risalire chiaramente alla fonte e nel lasciar invece apparire solo l’avvicendarsi dei rinvii di specchi che sdoppiano in se stessi ciò che riflettono, facendo perdere la semplicità  e la singolarità  della sorgente. Il punto ò che per Derrida “l’usurpazione ci rimanda necessariamente a una profonda possibilità  d’essenza”, mettendoci ormai nella situazione di intravedere come tale operazione di inversione e di disseminazione non appartenga solo alla scrittura, non colga indebitamente, pervertendolo, l’ordine “naturale” di un linguaggio puro ed innocente, ma costituisca il modo di accadere proprio di ogni significanza: “la scrittura non ò segno di segno, salvo dire questo, il che sarebbe più profondamente vero, di ogni segno”. Una volta preso atto di quella che Saussure denomina l'”arbitrarietà  del segno”, dell’istituirsi immotivato e convenzionale di uno spazio di iscrizione e distribuzione di differenze regolato da leggi autonome, si dovrebbe ormai essere nelle condizioni di escludere ogni possibile gerarchia o privilegio tra ordini di significanti. Superata la nozione di segno come immagine, come figura legata da rapporti di somiglianza con ciò che rappresenta, e quindi chiarito il funzionamento della lingua e della scrittura facendo riferimento alla capacità  autonoma di sostenersi propria dei sistemi di segni, dovremmo ora esser nelle condizioni storiche di ammettere la “possibilità  di un sistema totale di segni”, in cui il collegamento tra significanti non ò più modellato sul legame lineare che univa il suono al senso, ma avviene attraverso una “rete pluridimensionale” di rimandi, e lo apre così ad essere investito da ogni direzione possibile di ogni possibile senso. Da qui il ricorso di Derrida alla nozione di traccia istituita per decostruire il concetto logocentrico di segno, e per offrirci un punto di vista non più fonocentrico entro cui elaborare un modo per concepire l’accadere della scrittura. La traccia ò in primo luogo immotivata, il che non significa che sia in balia dell’uso dei singoli soggetti parlanti, ma semplicemente che non ha “nella realtà  alcun “aggancio naturale” col significato”, ovvero che non ò vincolata da alcun legame che in maniera necessaria, sicura, univoca le assicuri un unico modo di rinviare ad una presenza unitaria. Essa rappresenta la possibilità  dell’annunciarsi del “totalmente altro” come tale, cioò dell’accadere, in ciò che non ò esso stesso, di qualcosa il cui modo di esistere ò “senza alcuna semplicità , alcuna identità .. “. La differenza, infatti, per apparire come tale, non può mai presentarsi in maniera piena, ma solo nella dissimulazione del suo “come tale”, ovvero attraverso una struttura di rimando in cui si segna il rapporto all’altro non disponendosi nella presenza del significato, ma piuttosto nel differimento, ovvero nel modo proprio della traccia. In questo movimento del differire, la peculiarità  del significante ò quello di prodursi incessantemente come struttura di rinvio, di distrarsi continuamente da sè, di non essere mai prossimo, vicino, nella pienezza di sè. “Ciò che inaugura il movimento della significazione ò ciò che ne rende impossibile l’interruzione. La cosa stessa ò un segno”: per Derrida una volta inaugurata la possibilità  del senso, esiste solo il differimento dei segni, ovvero il gioco di rinvio di strutture doppie che funzionano solo in una rete di infinite potenzialità  di significazioni, mai nella semplicità  dell’ evidenza intuitiva, nell’esperienza fenomenologica della forma pura della presenza. Una volta chiarito da Saussure come la condizione del “valore linguistico”, ovvero del potere di significazione del segno, risieda nel suo carattere differenziale, nel suo apparire solo entro una struttura di opposizioni, e superato a partire proprio da questa stessa direzione il pregiudizio fonocentrico, Derrida può suggerire, attraverso la nozione strategica di traccia, l’ ipotesi di un linguaggio che sia sempre stato nelle condizioni della scrittura, segno di segno e mai parola piena. Ed ò in tale scrittura totale (o archiscrittura) che si dovrà  vedere la possibilità  generale di ogni movimento di significazione, di ogni articolazione differenziale tra i segni e di ogni rapporto all’altro. D’altra parte, il pensiero della traccia come “origine assoluta del senso”, come “dif-ferenza che apre l’apparire e la significazione”, ma che ò essa stessa già  da sempre in posizione di traccia, mai semplice presenza di senso, equivale anche al dire che non c’ ò alcuna origine assoluta del senso, alcun fondo anteriore, esistente solo come presenza piena e sottratto alla condizione del rinvio ad un passato, ad un qui-da-sempre, che la traccia ritiene sempre in sè: “lo strano movimento della traccia annuncia tanto quanto ricorda”. Non potendo perciò ricorrere a concetti metafisici organizzati tutti sulla semplicità  e sull’omeogeneità  della presenza, si mostra come l’accadere della struttura della traccia non potrà  prestarsi ad alcuna descrizione scientifica e positiva, a meno di tradirne la sua radicale passività , il suo rapporto costitutivo ad un passato assoluto che non potrà  mai essere restituito all’evidenza della presenza. Un altro modello utile ad illustrare l’accadere decentrato di un linguaggio non più dominato dal privilegio della voce ò per Derrida quello offerto dalla “scrittura teatrale”, visiva, immaginifica dei sogni: la parola, infatti, riveste nella sintassi onirica un ruolo paritetico agli altri elementi della messa in scena, ridiventando un gesto, un segno corporeo che non fa più da semplice tramite per un concetto, ma che si impone come una forma dotata di una fisicità  che può avere un volume, effetti seduttivi ed emanazioni sensibili. Tale scrittura psichica, più simile ad una geroglifica che ad una fonetica, ò scrittura originale, primaria, irriducibile nel suo funzionamento a subordinata e posteriore trasposizione di una parola viva e piena, comportando aspetti ideogrammatici, pittografici, pluridimensionali e visivi che nella linearità  della parola orale, della “catena parlata”, tendono ad appiattirsi, fino a scomparire. Anche dalla radicalizzazione di questo modello, dal decentramento rispetto alla metafisica della presenza in cui ò ancora immerso, per Derrida si offre indirettamente la possibilità  di attingere al senso di ogni scrittura in generale come a quello di un movimento della traccia, che, pur operando con elementi comunque codificati (lungo il corso di una storia individuale e collettiva), ò costitutivamente cancellazione di sè, non permette di essere avvicinata da alcun codice di lettura che la esaurisca. Ogni segno, verbale o non-verbale, può funzionare infatti a diversi livelli, entrando in configurazioni che non sono “prescritte” da una sua essenza, ma che scaturiscono dal gioco incessante della differenza, dal suo essere preso in una rete pluridimensionale di rimandi percorribile in direzioni non prestabilite. I segni così appaiono articolati come degli “indovinelli figurati”, come dei rebus mai leggibili a partire da una chiave interpretativa universale; così come avviene per colui che sogna, ogni esperienza inconscia “inventa la propria grammatica”, “produce i propri significanti”, introducendo nelle sue operazioni un “residuo puramente idiomatico”, un “corpo verbale” che inaugura ogni volta una nuova significanza e limita così definitivamente ogni possibilità  di traduzione. Essendo quindi la materialità , il corpo dell’espressione verbale a lavorare ed agire nel sogno, ad imporsi e a non lasciarsi attraversare o trascurare a favore del significato (come avviene invece nel discorso cosciente), appare chiaro come qualsiasi sua traduzione completa sia impossibile, dovendo ogni passaggio ad un altro significante lasciar cadere proprio il corpo all’ opera. Messe in relazione al soggetto parlante, la passività  della traccia e la sua struttura differenziale ci rimandano all’incoscienza fondamentale del linguaggio, al radicamento della parola cosciente nella lingua che la eccede e la costituisce; ma per evitare il semplice rovesciamento di una metafisica della soggettività  in una speculare “metafisica della scrittura”, Derrida sottolinea che “Costituendolo e dislocandolo ad un tempo, la scrittura ò altro dal soggetto, in qualsiasi senso lo si intenda. Essa non potrà  mai essere pensata sotto al sua categoria; in qualsiasi modo modificata, sia essa affetta in modo cosciente o inconscio, essa sarà  legata, per tutto il filo della sua storia, alla sostanzialità  di una presenza impassibile sotto gli accidenti, o all’ identità  del proprio nella presenza del rapporto a sè” Per descrivere la situazione di un soggetto che ò consegnato a un linguaggio che continuamente lo disperde ò esemplare a questo proposito per Derrida la figura del poeta, l'”uomo della parola e della scrittura” per eccellenza. Egli ò al tempo stesso il soggetto del libro, la sua sostanza e il suo padrone, e il suo oggetto, suo servitore e tema. Mentre il libro ò articolato dalla voce del poeta, il poeta si trova ad essere modificato e letteralmente generato dallo stesso poema di egli cui ò il padre, ma che producendosi si spezza e si piega su se stesso, diventando soggetto in sè e per sè: “la scrittura si scrive, ma insieme si immerge nella propria rappresentazione”. In questa situazione, l’unica esperienza di libertà  a cui il poeta può accedere, la sua “saggezza” consiste tutta nell’attraversare la sua passione, ovvero nel “tradurre in autonomia l’obbedienza alla legge della parola”, nel non lasciarsi sopraffare, abbassare a semplice servitore del libro. L’unica forma di libertà  a cui può accedere un uomo che appartiene radicalmente, visceralmente ad un tradizione linguistica, sarà  allora quella che passa attraverso il riconoscimento dell’essenzialità , della costitutività  dei propri legami; tale “identificazione” però, per essere emancipante, non può implicare la chiusura, la semplice delimitazione di uno spazio a cui si deve appartenere in maniera esclusiva, quanto piuttosto costituire l’esperienza di un radicamento ad un “laggiù”, ad un “oltre-memoria”, ad un altrove che non ò solo un passato assoluto, che ò già  da sempre stato (e non ò una semplice forma modificata del presente, un presente-passato), irrimediabilmente perduto, ma anche l’apertura della possibilità  di un’ avventura a-venire, di una traversata dei segni sempre lontana da qualsiasi forma di prossimità  e vicinanza, da qualsiasi viaggio dalla meta prestabilita e sicura. Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità  del senso, occultamento dell’ origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività  e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà  del poeta, alla possibilità  di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve “assumere le parole su di sè” e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo “nell’uomo che scruta perchè non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino”. Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità , il poeta si deve affidare al lavoro “fuori del giardino”, alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità  ò la possibilità  di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un assenza, il poeta non solo si troverà  così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’ assenza, che “tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile”. Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore: “Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto”. Così ogni scrittore, scrivendo, sacrifica la propria esistenza alla parola; ma questo stesso atto ò anche consacrazione dell’esistenza per mezzo della parola. L’ambiguità  essenziale che sta tra le significazioni, l’assenza che non si lascia inscrivere dalla lettera, irriducibile dall’ordine del discorso o della logica dell’ identità , ò per Derrida originariamente necessaria al senso. Pretendere di dire il silenzio che “sottintende” il linguaggio, di riempire il simbolismo vuoto che marca il tempo morto in ogni testo, significa infatti non aver compreso e conosciuto il linguaggio, “il fatto che esso ò la rottura stessa della totalità “, non avere avuto esperienza che ciò che la lettera dice ò nell’ “involgersi su di sè del linguaggio”, che ò nel vuoto che il linguaggio ottiene la possibilità  di essere significante. Più che sostenuto dal contenuto discorsivo, infatti, ò nella cesura, nell’interruzione – tra le lettere, le parole, le frasi, i libri – nella discontinuità  e nell’inattualità , che il sorgere delle significazioni trova uno spazio di manifestazione, in cui esse vivono grazie alla “morte che si aggira tra le lettere”. Se “una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio”, e se la scrittura procede aforisticamente, per frammenti, per lapsus, ciò non accade in virtù di una semplice scelta stilistica o per dichiarare uno scacco, ma perchè solo questa può essere la “forma dello scritto”, di un movimento che insegue e proviene da un’assenza, da una rottura, da un pensiero su un essere che non ò nè si manifesta mai esso stesso, non ò mai presente, in questo momento, fuori della differenza. Derrida, per evidenziare il “movimento di emancipazione” del segno sia rispetto al soggetto parlante che e al contesto, e quindi anche rispetto alla situazione ideale di presenza della voce, introduce il termine spaziatura; la scrittura, prestandosi alla possibilità  di marcare il “tempo morto”, disponendo di un simbolismo vuoto (di pause, di punteggiatura, di bianchi… ), segna il rapporto originario che lega ogni linguaggio alla morte: “la spaziatura come scrittura ò il divenir-assente e il divenir- inconscio del soggetto”. àˆ infatti in ogni spaziatura silenziosa o non esclusivamente fonica delle significazioni, in ogni spazio non fonetico, che sono possibili concatenazioni e coabitazioni che non obbediscono più alla linearità  del tempo logico, del tempo della coscienza e della “rappresentazione verbale”. In quanto rapporto del soggetto alla sua morte, il “movimento di deriva” che costituisce ogni scrittura corrisponde, in ritorno, alla costituzione stessa della soggettività , come desiderio di una presenza piena a sè. L’organizzazione della vita si effettua così a tutti i livelli secondo un'”economia della morte”, un lavoro di strutturazione e messa in forma dell’esistenza, del presente vivente ad opera di un’assenza originaria. D’altra parte il nome “scrittura” ò, segna il gioco di due assenze, funziona cioò coprendo, occultando propriamente, ovvero in modo dissimulato, due posti vuoti: quello del signatario, del soggetto della scrittura, e quello del referente; di assenze cioò che, escludendo la pensabilità  e la possibilità  di un significato, interiore o mondano, sprovvisto di significante, “forano il linguaggio”, lo costruiscono come una rete di rimandi nel vuoto, aperta, che accade nella discontinuità  e nella ritenzione della non-presenza. “La traccia affetta la totalità  del segno nelle sue due facce”, contamina tutto il linguaggio con la sua struttura di presenza-assenza, di doppio movimento di “protensione e ritenzione”: solo nel concatenarsi di differenze ò possibile ora l’apparire del senso, solo in quella scrittura che fugge qualsiasi situazione di stasi o di presenza assoluta, che eccede qualsiasi domanda d’essenza, e che, eppure, “non ò nulla”, non ò inesistente o insensata, ma ha comunque una qualche forma di esistenza (che non ò quella della semplice presenza) e permette una qualche forma di senso (che non ò quello pieno, sostanziale ed assoluto della metafisica), “non ò ancora del tutto un segno [separato dalla forza] ma non ò più una cosa [che si oppone al segno]”. La traccia non ò più così nè il significante di un significato (non c’ ò più possibilità  di manifestarsi di un senso fuori del significante) ma neppure l’unico significato di un significante senza significato, di un significante che non ha altra funzione se non quella di significare un altro significante; “… questa differenza non ò niente, ò il furtivo”, un’erosione “essenziale e insieme fugace” che accade alla “maniera del ladro”, che “svuota sempre la parola nella sottrazione di sè”, la potenzialità  espropriante del linguaggio che ruba in fretta le parole che il soggetto crede di avere trovato, “molto in fretta, perchè deve scivolare invisibilmente nel nulla che mi separa dalle mie parole, e trafugarmele prima ancora che io le abbia trovate, perchè, avendole trovate, io abbia la certezza di esserne già  sempre stato spogliato”. Ogni parola, da quando ò parola, ò infatti “originariamente ripetuta”, istantaneamente sottratta, “senza mai essere tolta”, a colui che parla e che se ne crede padrone; e tale sottrazione si produce come un’enigma, come una parola che nasconde la sua origine e il suo senso, che non dice mai da dove viene o dove va “perchè non lo sa”, perchè questa ignoranza, quest’assenza del suo proprio soggetto le ò costitutiva. Allora quello che si chiama il “soggetto parlante” non ò più “quello stesso e quello solo che parla”: facendo esperienza della parola, si scopre da sempre in una situazione di irriducibile secondarietà , di espropriazione radicale rispetto al luogo organizzato del linguaggio in cui ogni tentativo di collocazione ò vano perchè il posto ò sempre mancante; “ò la differenza che si insinua, come mia morte, tra me e me”. Riconoscere l’autonomia del significante, la sua sovrapersonalità  e necessità  rispetto all’ intenzione del soggetto parlante, coincide perciò da questo punto di vista col pensarlo nella sua storicità , ammettere la “stratificazione e potenzializzazione” storica del senso, che, come sistema storico, cioò “aperto da qualche lato”, deborda ogni struttura centrata, e continuamente ò sull’orlo di smembrarsi, di farsi “costellazione in un sistema”. Ogni atto di parola, ed ogni atto di scrittura, diviene così un atto di lettura in un campo storico e culturale da cui si devono attingere le parole e le regole; ciò fa di ogni parola qualcosa di rubato, rubato alla lingua ed anche a se stessa, essendole già  da sempre sottratta la proprietà  e l’iniziativa, ed apre in ogni atto linguistico un foro, spalanca una porta attraverso cui la parola ò sempre sottratta perchè ò sempre aperta: “essa non ò mai propria al suo autore o al suo destinatario e fa parte della sua natura non seguire mai il percorso che conduce da un soggetto proprio ad un soggetto proprio”.

  • 1900
  • Filosofia - 1900

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