Lo storiografo Hobsbawn ha acutamente osservato che il XX secolo inizia con lo scoppio della prima guerra mondiale, facendo notare che tutto ciò che è avvenuto negli anni del Novecento precedenti al conflitto è come se appartenesse ancora al secolo passato: proprio in virtù di questo inizio "ritardato", il secolo XX si configura agli occhi di Hobsbawn come "secolo breve". Si può però notare come anche il primo conflitto mondiale, che nell'ottica hobsbawmiana segna l'avvio del nuovo secolo, sia in realtà il momento culminante di processi storici, politici e filosofici che affondano le loro radici nell'Ottocento. Sarebbe del resto riduttivo ravvisare la causa del primo conflitto "totale" esclusivamente nell'attentato perpetrato a Sarajevo il 28 giugno 1914 ai danni dell'arciduca asburgico Francesco Ferdinando: esso fu solo la causa scatenante che fece esplodere in tutta la loro tragicità quelle trasformazioni ideologiche e culturali maturate sotto la "scorza" della pacata e tranquilla "bella èpoque". Interpretando hegelianamente la storia, si può essere indotti, infatti, a ritenere che nella profondità della realtà stessero già attuandosi processi di cambiamento irreversibile che, alla vigilia della prima guerra mondiale, "bussavano alle porte" della realtà per prorompere all'esterno: e l'omicidio di Francesco Ferdinando fu ciò che aprì i battenti e consentì alla nuova situazione di affiorare in superficie. Indubbiamente, uno dei principali fattori storici ed ideologici che causarono lo scoppio del conflitto fu il radicale mutamento di significato cui fu soggetto il concetto di nazione: se al principio dell'Ottocento la nazione era intesa come un'entità meramente culturale, come comunità di genti accomunate dalla stessa cultura, dalla stessa religione e dalla stessa lingua, nella seconda metà del secolo essa si connotò di nuovi significati, fino ad allora pressochò sconosciuti. La nazione divenne allora lo strumento di dominio dei popoli sugli altri popoli e perse il significato culturale rivestito in precedenza: la più fulgida espressione della parabola del concetto di nazione è rappresentata dalla figura di Crispi, il quale, dopo aver esordito come fervente garibaldino e come difensore della "nazione" concepita come entità culturale, mutò rapidamente atteggiamento nella seconda metà dell'Ottocento e finì per aderire al nazionalismo aggressivo di matrice bismarckiana. Proprio Bismarck può essere la chiave di lettura del nuovo significato rivestito dal concetto di nazione: anti-democratico dichiarato, egli portò l'esercito e l'imperialismo alle stelle e, con la Conferenza di Berlino, diede il via, legittimandolo, a quell'imperialismo selvaggio in cui si avventurarono gli europei nella seconda metà dell'Ottocento. Questo provvedimento, con cui si dichiaravano conquistabili gli stati extra- europei, non fece altro che dilazionare nel tempo le tensioni accumulatesi tra le varie nazioni europee: infatti, se momentaneamente esse venivano scaricate all'esterno, una volta occupati tutti i territori colonizzabili, le tensioni sarebbero nuovamente affiorate e lo scontro che ne sarebbe scoppiato avrebbe assunto carattere mondiale, coinvolgendo inevitabilmente anche i nuovi stati occupati.
E' poi opportuno annoverare tra le cause che portarono allo scoppio della prima guerra mondiale anche quello che è passato alla storia col nome di "revanscismo" francese: a desiderare ardentemente la guerra come strumento di dominio non furono soltanto i tedeschi, ma anche i Francesi. Infatti, se i Tedeschi vollero a tutti i costi la guerra poichè si sentivano "ingabbiati" in un territorio che, per la sua scarsa estensione, non corrispondeva al primato economico della Germania, i francesi, dal canto loro, erano assetati di vendetta e aspiravano fortemente ad una rivalsa sulla Prussia e, più in generale, sulla Germania che, guidata da Bismarck, aveva inflitto loro una pesante sconfitta con la guerra franco-prussiana. E tuttavia Bismarck, una volta edificata la Germania, cercò in ogni modo di garantire la pace e la tranquillità in Europa, lui che pochi anni prima l'aveva messa a ferro e fuoco con tre guerre (contro Danimarca, Austria e Francia) per assicurarsi una posizione di primato. E per garantire la tranquillità sul territorio europeo non potè far altro che scaricare nei territori extra-europei gli appetiti espansionistici delle varie potenze, dando il via alla caccia coloniale. Ciò che più temeva il cancelliere tedesco era un'alleanza tra Inglesi, francesi e Russi: alleanza che si realizzò quando, nella conquista coloniale dell'Africa, i Francesi che procedevano da Ovest a Est si incontrarono a Fashoda (1898) con gli Inglesi che invece si muovevano da Nord a Sud. Vi furono grandi tensioni tra i due contingenti militari, tanto che si temette una guerra: alla fine ebbe la meglio la diplomazia e si arrivò addirittura a stipulare un'alleanza tra i due stati, alleanza che fu poi estesa anche alla Russia, da poco sconfitta dalla nuova potenza giapponese. Da allora in poi le tensioni politiche e militari tra la nuova alleanza e il mondo germanico divennero insostenibili e scoppiarono in tutta la loro violenza nel primo conflitto mondiale. E' opportuno ricordare che la guerra venne anche intesa come strumento per scaricare all'esterno le tensioni sociali, acuitesi esponenzialmente a seguito della nascita dei Partiti Socialisti nelle varie nazioni europee: l'unica soluzione per far fronte ad un movimento operaio che rivendicava l'uguaglianza e propugnava la democrazia fu vista nella guerra, ovvero nella possibilità di inviare al fronte i rivoluzionari riottosi e, soprattutto, nella possibilità di militarizzare la società stessa, smantellando le istituzioni parlamentari e revocando ogni forma di democrazia.
Ma è soprattutto sul versante ideologico e filosofico che si possono rintracciare le motivazioni che fecero esplodere, in tutta la sua violenza, il conflitto mondiale: a tal proposito è interessante ricordare quanto ha asserito il filosofo torinese Norberto Bobbio. Egli ha infatti osservato come, con la prima guerra mondiale, si sia assistito ad uno stravolgimento del motto di Marx presente nelle Tesi su Feuerbach: se Marx diceva che i filosofi si erano fino ad allora limitati ad interpretare il mondo, senza cambiarlo, e che era giunto il momento che le classi operaie lo mutassero nella sua essenza, con la nuova temperie culturale si affermò sempre più l'idea che non era giunto il momento di mutare il mondo, ma di impadronirsene.
E in effetti, se a fine Ottocento il positivismo, con la sua esasperata fiducia nella scienza e nella ragione, aveva trovato un terreno fertile presso le masse, è anche vero che presso il "popolo degli intellettuali" esso era stato ormai surclassato, quasi come con un capovolgimento dialettico alla Hegel, dall'irrazionalismo e dal decadentismo, avversi ai dogmi della ragione: ed ò su queste basi ideologiche che poggia il concetto di "razza" che in quegli anni andava sempre più affermandosi e che avrebbe presto dato vita alla più grande tragedia della storia dell'umanità . Con la nozione di razza, infatti, si sovrapposero la sfera razionale invalsa presso le masse e quella irrazionale prevalente presso gli intellettuali, cosicchè si cercò di dimostrare razionalmente un qualcosa, come la razza, che sfuggiva ad ogni razionalità e che anzi era in netta antitesi con essa. La stessa concezione di nazione in termini aggressivi e militaristi trova il suo riscontro sul versante culturale: se per Fichte la nazione era un'entità meramente culturale, sganciata da ogni imperialismo di sorta e anzi avversa ad esso, inteso come minaccia della purezza culturale del popolo, con Hegel, invece, si afferma sempre più la convinzione che un popolo, per essere davvero tale, debba essere dotato di un forte esercito che non si limiti a difendere i confini nazionali, ma che si spinga anche al di là di essi per schiacciare e sottomettere gli altri popoli. Ed è in questa prospettiva che sorge l'imperialismo e, in ultima istanza, il primo conflitto mondiale; e tuttavia vi è un'insormontabile contraddizione nell'accettazione di questo imperialismo volto a conquistare il maggior numero di territori possibili: se, infatti, il nazionalismo insegna che la nazione è il simbolo del popolo, allora perde ogni significato lo spingersi oltre i confini nazionali per acquisire nuovi territori in nome della nazione; ed è molto discutibile anche la giustificazione addotta per legittimare questo atteggiamento, ovvero la pretestuosa convinzione che, al di là delle singole nazioni, esistano un'unica nazione slava o un'unica nazione germanica e che esse vadano riconquistate "manu militari".
Anche questo atteggiamento, se letto in trasparenza, affonda le sue radici nell'irrazionalità imperante in quegli anni, la quale si estrinseca anche nelle avanguardie artistiche: tra esse spicca il futurismo italiano, che differisce da quello russo per la radicale avversione ad ogni forma di democrazia e per la marcata simpatia per la guerra e per la violenza. I futuristi rispecchiano perfettamente il clima che si andava respirando in quegli anni in Europa e giocarono un ruolo decisivo nell'ingresso italiano sullo scacchiere bellico; si proponevano di esaltare la violenza, "lo schiaffo e il pugno", salutando la guerra come "sola igiene del mondo" e rifiutando ogni forma di tranquillità e di armoniosa convivenza.
E' poi bene ricordare che, come reazione al positivismo, nella seconda metà dell'Ottocento, fiorì la filosofia di Nietzsche, a cui si ispirarono, senza peraltro comprenderne a fondo il significato, i futuristi e D'Annunzio stesso. Nietzsche, folgorante profeta del superuomo, predicò la disuguaglianza tra gli uomini, riprendendo anche elementi del darwinismo, e prevedendo che il nichilismo fosse alle porte. La bislacca commistione di elementi darwiniani e nietzscheani diede vita alla nozione di superuomo, un ibrido esplosivo che, oltre a testimoniare l'allora imperante necessità di argomentare razionalmente in favore di ciò che razionale non era, può facilmente degenerare in razzismo. E infatti, sebbene Nietzsche si dichiarasse esplicitamente avverso al razzismo, il mito del superuomo andò lentamente trasformandosi in mito della super-razza e i Nazisti poterono così strumentalizzare il pensiero nietzscheano, stravolgendone i contenuti.
Personaggi e poeti come D'Annunzio, la cui sola musa ispiratrice fu la violenza, poterono così scatenarsi in fantasmagoriche perorazioni in favore della guerra e del superuomo, senza in realtà aver compreso pressochò nulla del pensiero nietzscheano (sarcasticamente Benedetto Croce dileggerà D'Annunzio dicendo "letto che ebbe qualcosa di Nietzsche"). Il risultato di questa esaltazione di buona parte degli intellettuali fu che anche buona parte della popolazione civile si lasciò coinvolgere in questo entusiasmo sfrenato per la guerra e supportò le posizioni imperialistiche dell'estrema Destra: a inizio Ottocento sarebbe stato impensabile che il popolo abbracciasse la causa della Destra estremistica, ma dalla seconda metà del secolo, invece, ciò divenne sempre più frequente. Ed è sempre nell'ultima fase dell'Ottocento che si affermò la convinzione che, se le masse non potevano più restare escluse dalla politica, ciononostante ci si poteva servire di esse per far passare idee antidemocratiche e militariste, che imponessero uno stato forte. Il progetto marxista secondo il quale lo stato si sarebbe dovuto estinguere e, secondo le parole di Engels, sarebbe dovuto finire nel " museo dell'antichità , accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo ", naufragava miseramente di fronte al rafforzarsi sempre maggiore dello stato e del suo apparato militare; la stessa fittissima rete di alleanze che si era andata tessendo dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, associata alla profonda crisi attraversata dall'Impero ottomano, spingevano violentemente verso la guerra e il rafforzamento dello stato. Sarebbe scorretto dire che tutta la popolazione aderì alla causa militarista, poichè molti uomini rifiutarono e si opposero alla guerra e alle sue tragedie: ò però certo che le masse erano volubili e potevano farsi allettare anche dalle promesse della Destra, a tal punto da entrare in guerra, come notò Clemanceau, direttore del celebre giornale francese "L'Aurora". Kant aveva dunque sbagliato a sostenere in "Per la pace perpetua" che, se spettasse al popolo decidere di entrare in guerra, non vi sarebbero più guerre: se egli fosse vissuto nel XX secolo anzichè nel XVIII si sarebbe senz'altro ricreduto.
- Tesine