La suddivisione amministrativa
L’Italia, fino a Diocleziano, aveva conservato la divisione augustea; ma l’autonomia municipale aveva ingenerato disordine finanziario, per cui gli imperatori presero a esercitarvi un controllo per mezzo di curatores e di correctores. Questo istituto passò poi anche all’Italia, che però ebbe un unico corrector. Diocleziano la divise in un forte numero di distretti alle dipendenze di veri governatori.
Questa divisione dell’Italia fu preceduta probabilmente dall’altra più grande in pars annonaria e pars urbicaria o suburbicaria. Queste due regioni corrispondevano ai territori poi amministrati dal ” Vicario d’Italia (Italia Settentrionale) e dal ” Vicario della città di Roma ” (Italia Centro-Meridionale), e costituivano insieme la ” Diocesi Italiciana “, che nel 297 era divisa in dodici distretti, più tardi divenuti diciassette. L’Italia Settentrionale comprendeva sette distretti: Venetia et Histria con capitale Aquileia; Liguria con capitale Milano; Aemilia, eccettuata Ravenna, con centro Piacenza; Flaminia et Picenum annonarium con capitale Ravenna; Alpes Cottiae; Raetia prima con centro Curia (Coira, Chur); Raetia secunda con capitale Augusta Vindelicorum (Augsburg). L’Italia Centro-Meridionale comprendeva dieci distretti: Tuscia et Umbria con capitale Firenze; Campania con capitale Capua; Lucania et Bruttii con capitale Regium; Apulia et Calabria; Samnium; Flaminia et Picenum suburbicarium; Valeria; Sicilia; Sardegna; Corsica.
Decadenza dell’Impero.
Crisi agricola e sociale
L’aspetto dell’Italia nell’ultimo periodo dell’Impero è caratterizzato dalla divisione fra Settentrione e Mezzogiorno con i centri d’attrazione Milano e Roma, e dalle diverse condizioni delle due parti, obbligate a fornire legna, vino, bestiame e altre derrate alle due città. Questi prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento, della caccia, della pesca, ecc. erano in parte legati alle condizioni geografiche, tuttavia nei primi secoli dell’era cristiana l’economia agricola si trasformò per opera dell’uomo. Verso la fine dell’Impero però vi fu un aumento dei terreni incolti.
V’era stata la formazione d’importanti organizzazioni industriali nell’Italia Settentrionale e l’organizzazione annonaria della Pianura Padana; ma la storia di alcune città ci presenta nell’ultima sua fase una crisi demografica. Pochi centri emergevano, come Milano, Torino, Ravenna e Aquileia. Nella proprietà terriera ormai tendeva a prevalere il latifondo, costituito in parte notevole dai demani imperiali, lavorato con mano d’opera servile da una famiglia rustica; se si trattava di pascoli, anche pochi schiavi erano sufficienti a custodire immensi greggi di pecore. La media e la piccola proprietà tendevano a scomparire.
Intanto mutava la struttura sociale: scomparsa o quasi la vecchia aristocrazia, non fu sostituita neppure da una classe media di equivalente valore, perché questa era formata in grande maggioranza da liberti di varia origine, spesso abili e trafficoni ma alieni dallo spirito della romanità che era stato gloria delle categorie scomparse, mentre i nuovi arrivati pretendevano privilegi senza attaccamento allo Stato. Allo Stato restava solo il proletariato agricolo e militare; ma anche le condizioni di questo erano diventate assai gravi.
Crisi dell’industria
Nè migliori erano le condizioni dell’industria e del commercio, già singolarmente fiorenti (costruzioni, mobilio, metallurgia, ceramica, industrie tessili, di lusso, ecc.). Centri famosi della produzione di ceramiche erano Modena, Arezzo, Cuma e Cales; attiva era la produzione laniera a Pollenzo, Parma, Modena, Luceria, Canusio, Taranto. Ma tutto fu compromesso con l’applicazione di provvedimenti che finirono col sopprimere la libera attività, vincolando i coltivatori alla terra, gli artigiani ai loro mestieri, i soldati alle armi, i curiali ai loro oneri municipali. Ciò che colpisce è lo spopolamento che si nota nelle province, non esclusa l’Italia. Le sue cause sono svariatissime: limitazione della prole, celibato, antagonismo fra campagna e città, pestilenze, guerre civili, invasioni, razzie, distruzioni, ecc. Nelle città maggiori il fenomeno appare meno, per l’immigrazione dalle campagne disertate e dalle città minori. Inoltre la miseria nelle campagne gettò sulle grandi strade bande di vagabondi che facilmente si trasformavano in briganti.
Per l’ultimo periodo dell’Impero, intorno alla popolazione dell’Italia abbiamo solo rare indicazioni. Roma doveva avere nell’età imperiale circa un milione e mezzo di abitanti, forse anche più, ma sotto Valentiniano III questi si erano ridotti a 400.000 e tendevano a ridursi ai 23.000 del tempo di Teodorico. Del pari grave era lo spopolamento delle altre città italiane. Nell’Italia peninsulare, secondo i censimenti, i cittadini romani erano 4.937.000 nel 14 d. C. e si calcolò una popolazione complessiva da 7 a 8 milioni di abitanti. Dopo la costituzione di Caracalla (212) il numero dei cittadini crebbe a milioni in Italia e nell’Impero; ma nel V secolo d. C. tutta l’Italia con le isole si ritiene fosse intorno ai sei milioni di abitanti; nelle province le condizioni demografiche non appaiono migliori.
Ultime grandi opere d’arte in Roma
Roma nel IV secolo d. C. si mostrava ancora nello splendore dei suoi edifici monumentali, anche se l’arte viene decadendo. Dopo la vittoria di Costantino (312), il Senato decretò l’erezione dell’arco di trionfo in suo onore, il più grandioso della romanità; nello stesso tempo si ebbero i restauri delle Mura Aureliane e sorsero numerosi monumenti onorari. I Regionari, oltre le abitazioni, le terme, i ponti, ecc., ricordavano, in Roma imperiale, ben 258 mulini e forni, 335 granai, 424 edicole di divinità, 23 statue equestri, 80 statue d’oro, 84 di bronzo, 34 archi marmorei, 6 obelischi.
Alla fine del IV secolo e nel V le mutate condizioni politiche ed economiche non erano più favorevoli al sorgere di nuove grandi opere d’arte: il saccheggio della città da parte dei Goti nel 410, quello dei Vandali nel 456 e quello di Ricimero nel 472, diedero un grave colpo allo splendore da essa raggiunto.
Abusi e ineguaglianze sociali nel secolo IV
Le condizioni delle due parti dell’Impero nel V secolo erano diverse. La struttura politica, amministrativa, economica dell’Impero d’Oriente era abbastanza solida e il suo funzionamento relativamente regolare. In Occidente si venne annullando l’autorità imperiale e il governo centrale funzionò solo irregolarmente. Nelle province e nella stessa Italia, privata ormai di qualsiasi privilegio, non si obbediva più a un potere superiore, ma spadroneggiavano senza controllo i funzionari imperiali e in parte l’aristocrazia locale, cioè i grandi proprietari terrieri.
La prima preoccupazione del potere imperiale era di ricavare con ogni mezzo le somme necessarie all’erario, anzitutto per le spese militari. Tale sistema perdurò dal IV al V secolo, con gravissime imposte dirette e indirette; ma, con l’esaurirsi delle fonti, da una parte diminuivano le entrate, dall’altra cresceva l’aggravio delle popolazioni.
Mentre le città si impoverivano, le forze economiche si vennero raccogliendo nelle mani di un ristretto numero di grandi proprietari terrieri: alcune famiglie senatorie erano in pratica padrone di un’intera provincia. Tali proprietà rappresentavano l’importanza della classe senatoria, sebbene il Senato avesse perduto quasi ogni importanza: i ricchi proprietari, in realtà, avevano in mano le leve del comando, per cui riuscivano a sottrarsi al pagamento di gran parte delle imposte, sicché il carico fiscale ricadeva sempre più sulle classi inferiori, le sole ancora produttive: fittavoli, coloni, artigiani.
Nelle città, i magistrati municipali (” curiali “) furono ridotti a funzionari fiscali del governo centrale e resi responsabili con i loro averi delle imposte da riscuotere, per cui essi cercarono di entrare nella burocrazia statale o nell’esercito o nel clero o perfino di ridursi a coloni. Di fronte a questa situazione si costrinse ciascuno a restare nel proprio ordine, trasmettendosi la qualità di padre in figlio. Anche le condizioni della plebe cittadina, che pure apparteneva alla categoria dei liberi, non erano liete: vi era chi viveva delle pubbliche elargizioni; altri esercitavano un mestiere, ma anche l’artigiano era costretto a restare nella propria arte e a trasmetterla al figlio. Queste costrizioni, con la crisi monetaria, la corruzione dei funzionari, l’oppressione dei deboli, la miseria, portarono all’indebolimento, alle confische, alla vendita all’asta, alla fuga presso i barbari dove si trovavano condizioni più sopportabili, perfino alla vendita dei figli come schiavi. Né valse ad attenuare queste condizioni il defensor civilatis, mutato poi in defensor plebis, istituito per difendere i cittadini contro il potere centrale e gli alti funzionari. Solo restava il crescente potere del vescovo, anch’esso grande proprietario non personale, ma per l’accresciuto patrimonio della Chiesa, il quale così si avviava a diventare magistrato cittadino e ad assumere la rappresentanza di importanti interessi del municipio e della provincia.
Gli abusi e i privilegi erano ben noti al governo e non mancarono disposizioni per colpirli, ma erano un po’ come le grida di spagnolesca memoria. Roma imperiale moriva nell’umiliazione e nell’abbandono; ma un grande retaggio sopravviveva: la sapienza giuridica, che viveva nel Codice Teodosiano, che vivrà nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano.
La crisi del paganesimo
Il culto dell’antica religione mantenne a lungo una sua vitalità, e la religione dello Stato, anche nei secoli III e Il a. C., reagì agli influssi rafforzando i culti arcaici. Senonche la cultura ellenistica, con la sua letteratura e la sua filosofia, determinava un rallentamento degli usi, un affievolimento delle credenze fino a negare i culti e il valore della preghiera, col risultato di uno scetticismo per cui la religione tradizionale doveva finire per vie diverse con l’essere abbandonata dai dotti, dal patriziato, dalla plebe; e si avvertiva poi il bisogno di qualcosa che riempisse quel vuoto, mentre la pratica religiosa si riduceva a semplice formalità.
Nel I secolo a. C., sull’esempio delle monarchie ellenistiche, si posero le basi di uno dei fatti religiosi più caratteristici dell’età imperiale, il culto degli Imperatori. Angusto volle rinnovare l’antica religiosità romana, risuscitando i culti tradizionali, ma non fu molto avverso ai culti stranieri e nuovi; col cumulo delle cariche sacerdotali nella propria persona, avviò l’identificazione fra Stato e imperatore, che divenne persona sacra e divina nel culto della Dea Roma e di Augusto. Nè fu un rinnovamento religioso: rimase una pratica esteriore, indifferente al cuore della gente. Accanto al culto imperiale durante l’Impero si ha la diffusione delle religioni orientali, dei culti di carattere misterico. I Romani, nella loro espansione in Oriente, erano venuti a contatto con civiltà nuove e con forme religiose varie, grossolane e raffinate, sensuali e materialistiche, ascetiche e mistiche: così affluirono a Roma i misteri di Demetra, l’Orfismo, i culti della Magna Mater e di Bellona dalla Frigia, quelli di Baal e di Astarte dalla Siria, quelli di Iside, di Serapide e di Anubi dall’Egitto, quello Persiano di Mitra, il culto del Sole. Dapprima queste divinità furono venerate da piccoli nuclei di persone, ma presto trovarono numerosi proseliti ed ebbero anche culti ufficiali.
Così l’aspetto religioso dell’impero ci si presenta con un culto imperiale praticato senza convinzione, con culti locali nelle province, con culti orientali che fiancheggiano il culto ufficiale, con imperatori di diverse tendenze e preoccupati dalla crisi del paganesimo e dei progressi della religione cristiana.
Il politeismo aveva lasciato molti privi di fede, sfiduciati, mentre gli Accademici con il loro scetticismi, i Cinici, gli Epicurei, lo stesso Stoicismo si erano venuti esaurendo in una specie di rassegnazione malinconica, incapace di una riforma sociale e religiosa, insufficiente a liberare gli animi dal tormento del problema della morte, dell’immortalità, del divino. Ma la filosofia era privilegio di pochi; le masse si rivolsero di preferenza ai culti che parlavano di purificazione dello spirito e attraverso questa assicuravano l’immortalità. Ciò spiega la diffusione delle religioni ricche di elementi mistici adatti a parlare al sentimento e alla coscienza. Tale fusione, o piuttosto confusione di credenze (sincretismo), appare come una preparazione al monoteismo e a quella crisi suprema che apri l’intelligenza e i sentimenti alla rivelazione cristiana.
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