Nel corso del IV secolo, la Venetia et Histria fu spesso teatro di cruente guerre intestine e di feroci incursioni barbariche.
307, 312: guerra tra Massenzio e Galerio e tra Massenzio e Costantino
340: guerra tra Costante e Costantino II
351: guerra tra Costanzo II e Magnenzio
361-362: guerra tra Costanzo II e Giuliano l'Apostata
378: incursioni gotiche
388: guerra tra Teodosio e Magno Massimo
394: guerra tra Teodosio ed Eugenio
401-403: invasioni di Alaric
405-406: invasione di Radagaisus
407-410: invasione di Alaric
425: guerra tra Teodosio II e Giovanni
452: invasione di Attila
Passaggio di eserciti tanto per far fronte alle minacce dei barbari sul limes che nel corso delle lotte per il potere (es. scontro a Cibalae in Slavonia tra le truppe di Costantino e quelle di Valerius Valens, un Duca di Licinio o passaggio delle truppe ostrogote di Vidimer in soccorso dell'imperatore Antemio)
Massenzio
L'abdicazione di Diocleziano e di Massimiano il 1° maggio del 305 mise alla prova la stabilità dell'ordinamento tetrarchico e diede inizio ad un lungo periodo di usurpazioni e di lotte civili. Infatti, già nel 306, sia Costantino, il figlio del tetrarca Costanzo Cloro, sia Massenzio, il figlio del tetrarca Massimiano, furono elevati illegittimamente all'Impero: il primo fu acclamato Augusto dalle sue truppe in Britannia il 25 luglio, il secondo fu proclamato imperatore dai pretoriani e dalla plebe di Roma il 28 ottobre.
Galerio, l'Augusto che regnava sulle diocesi illiriche (Pannonie, Mesie, Tracie) -ovvero sulla penisola balcanica tra il mar Nero a oriente e il fiume Inn a occidente- pensò di potersi sbarazzare facilmente del "tiranno" Massenzio: nel 307, radunato il suo esercito, partì quindi dalla sua capitale, Sirmium (Sremska Mitrovica), alla volta dell'Italia. La penisola fu percorsa da nord a sud fino al Lazio dove però, di fronte all'impossibilità di procedere all'assedio di Roma, l'esercito invasore si ammutinò al proprio sovrano: Galerio non aveva infatti tenuto conto che molte delle sue legioni, avendo prestato servizio sotto Massimiano, vedevano in Massenzio non un nemico ma il figlio del loro imperator. Fu così che la sua spedizione in Italia si risolse in un fallimento: costretta ad evacuare precipitosamente la penisola per riguadagnare i paesi danubiani, l'armata di Galerio si abbandonò a feroci saccheggi. Di queste devastazioni ci parla nei seguenti termini lo scrittore cristiano Lattanzio (250-325 ca.) nel "De mortibus persecutorum":
"Galerio autorizzò i soldati a disperdersi nel più vasto raggio possibile per depredare e distruggere ogni cosa, affinché quanti avessero voluto inseguirlo non potessero trovare di che vivere. In questo modo fu devastata la parte d'Italia che quelle schiere funeste percorsero: tutto fu saccheggiato, le mogli furono contaminate, violate le vergini, torturati genitori e mariti perché consegnassero figlie e mogli e sostanze, mentre come prede di barbari venivano asportate le greggi e le bestie da soma. Così costui, un tempo imperatore romano, ora flagello d'Italia, dopo aver devastato ogni cosa come un nemico, si ritirò verso la propria residenza."
È legittimo supporre che la Venetia et Histria, in quanto confinante con i territori (il Norico, la Pannonia) soggetti a Galerio, e in quanto attraversata dalle vie di comunicazione per Sirmium abbia risentito più delle altre province italiane degli effetti di questi indiscriminati saccheggi. Ma, qualunque sia stato l'impatto della spedizione del 307 sull'economia della nostra provincia, è certo che la concentrazione nella Venetia et Histria della maggior parte dell'esercito di Massenzio, -il quale assommava a ben 188.000 uomini-, deve aver comportato, nel 312, un deleterio aumento della pressione fiscale e delle requisizioni ai danni dei provinciali. Non va dimenticato inoltre che, in quello stesso anno, le truppe massenziane concentrate nell'Italia nord-orientale per timore di un attacco di Licinio, il successore di Galerio, furono debellate nei pressi di Verona da Costantino.
Uccisione di Costantino II
A quattro mesi dalla morte di Costantino, il 9 settembre del 337, furono proclamati Augusti i suoi tre figli -Costantino II (Flavius Iulius Constantinus), Costanzo II (Flavius Iulius Constantius), Costante (Flavius Iulius Constans)- e l'ascesa al trono dei tre sovrani fu seguita dallo sterminio di tutti i collaterali maschi della famiglia del defunto imperatore, ad eccezione dell'undicenne Gallo e di Giuliano, il futuro Apostata, che aveva allora appena 6 anni.
Senza tener conto delle volontà di Costantino, i tre imperatori, incontratisi a Viminacium (Kostolac), vollero procedere ad una ridefinizione dei rispettivi ambiti territoriali: Costantino II, -che, in un primo momento, aveva ottenuto il governo della Gallia, della Spagna e della Britannia-, e Costanzo II, -che, per volontà paterna, regnava sull'Asia e l'Egitto-, cercarono quindi di approfittare della giovane età del quattordicenne Costante, signore dell'Italia, dell'Africa, della Pannonia e della Dacia, e di relegarlo al rango di subordinato. La conseguenza di tale spartizione fu lo scoppio nel 340 della guerra: mentre Costanzo era alle prese con i Persiani, Costantino II, per impedire l'accesso nel suo territorio di Costante, che allora si trovava nell'Illirico, passò dalla Gallia in Italia: cadde però vittima di un'imboscata nei pressi di Aquileia e Costante prese possesso, indisturbato, dei suoi domini.
Magnenzio
Il 18 gennaio del 350, Costante, il quale era rimasto signore indiscusso dell'Occidente dopo l'uccisione del fratello Costantino II, cadde a sua volta vittima di una congiura architettata ad Augustodunum (Autun) in Gallia dal comes Magnenzio (Flavius Magnus Magnentius). Dopo aver usurpato il potere, il comes semi-barbaro (era figlio di una franca e di un celta della Britannia) ritenne preminente mettersi al riparo da una possibile offensiva dell'imperatore d'Oriente Costanzo II: piuttosto che marciare su Roma, preferì quindi assicurarsi il controllo dei passi delle Alpi orientali. Fu difatti in tale settore che si svolsero le varie fasi del conflitto tra le due partes dell'Impero: respinto un primo attacco dell'esercito orientale al passo di Atrans (Trojane), Magnenzio passò alla controffensiva e giunse sul finir dell'estate sulle rive della Drava, a Mursa (Osijek). Qui, il 28 settembre del 351, ebbe luogo lo scontro definitivo tra le due armate, "forze utilissime -osserva lo storico Eutropio- per le guerre contro gli stranieri, forze tali da procurare immensi trionfi e invece distrutte in quella battaglia": furono infatti ben 54.000 i caduti, 24 dei 36 mila "occidentali" e 30 degli 80 mila "orientali". La diserzione delle truppe migliori dell'usurpatore, sottoposte ai comandi del generale franco Silvanus, decise l'esito della battaglia in favore di Costanzo II ma Magnenzio ebbe comunque modo di mantenere il controllo di Emona (Ljubljana/ Lubiana), di rafforzare le fortificazioni delle Chiuse alpine (Claustra Alpium) e di insediarsi ad Aquileia. Fu necessaria quindi una seconda offensiva, progettata con cura a Sirmium dall'imperatore d'Oriente, per dissolvere la resistenza dell'avversario: penetrate per vie secondarie nel cuore delle Chiuse, le truppe orientali espugnarono la fortezza di Ad Pirum (Hrusica) e imposero a Magnenzio di abbandonare Aquileia per dirigersi in Gallia.
Giuliano assedia Aquileia
Giuliano, figlio di Giulio Costanzo, il fratello di Costantino ucciso nel corso delle "epurazioni" del 337, era stato nominato Cesare da Costanzo II e destinato alla difesa della Gallia contro i Franchi e gli Alamanni (355). Dopo aver riportato la splendida vittoria di Strasburgo (357), le sue truppe rifiutarono però di aggregarsi all'armata che Costanzo II stava allestendo in vista della guerra contro i Persiani e, nel febbraio del 360, lo acclamarono Augusto. La morte improvvisa di Costanzo II nel novembre del 361 consegnò di fatto l'impero nelle mani di Giuliano. L'imperatore dovette tuttavia cingere d'assedio Aquileia, che occupata da due legioni e da una coorte di arcieri insorte, aveva fatto causa comune con i soldati credendo che Costanzo II fosse ancora vivo. Sulla città conversero varie armate: la cavalleria del generale Iovinus che, attraversate le Alpi, era già entrata nel Norico fu richiamata e ai reparti di passaggio per Aquileia fu ordinato di procedere all'assedio. La resistenza degli Aquileiesi fu tenacissima e costrinse gli assedianti a costruire enormi torri montate su navi e, persino, a deviare il corso del Natisone: infatti, come ricorda lo storico Ammiano Marcellino, per la presenza del fiume "non si trovava un luogo adatto né per avvicinare gli arieti, né per disporre le macchine, né per scavare gallerie". Tutti i tentativi di espugnare la città furono vani e cresceva intanto in Giuliano, a Naissus (Nis<), il timore che gli assediati potessero impadronirsi con una sortita dei passi delle Alpi Giulie e bloccare i rifornimenti che aspettava per dare avvio alla guerra contro i Persiani. Solo quando furono persuasi della morte di Costanzo, gli Aquileiesi aprirono le porte della città ed accolsero i soldati di Giuliano. La faccenda fu sottoposta quindi al giudizio del prefetto del pretorio Mamertinus che, sollecitato dall'imperatore "mite e clemente", si limitò a condannare al rogo l'ufficiale che aveva sobillato le legioni e a passare per la spada Romulus e Sabostius, due membri del senato aquileiese. Nel corso dell'assedio della città (361-362), le campagne circostanti ad Aquileia ebbero a soffrire varie razzie e devastazioni: scrive infatti Ammiano che "i soldati del presidio devastavano le campagne vicine, per cui disponevano in abbondanza del necessario e dividevano la maggior parte della preda con i loro commilitoni".
Monte Croce Carnico
Sul finire dell'autunno del 374, l'imperatore Valentiniano I era alle prese con gli Alamanni sul fronte renano. Con successo, a quanto pare, visto che lo storico Ammiano gli attribuisce una vittoria sui barbari nella regione dell'alto Neckar e la devastazione di alcuni distretti dell'Alamannia. Dopo alcuni successi, già nel 373 aveva creduto opportuno fortificare il confine dal Mare del Nord fino alla Rezia, erigendo fortezze, torri e castelli, tanto in territorio romano che sull'altra riva del Reno. Per realizzare quest'opera immane aveva richiesto l'intervento dei migliori architetti imperiali e aveva deciso di intraprendere colossali opere ingegneristiche come la deviazione del Neckar mediante condutture di rovere.
Animato, fin dall'inizio del suo regno, dallo zelo di rafforzare i confini, Valentiniano pensò fosse venuto il momento di estendere le linee fortificate anche al confine sul Danubio. A tale scopo, ordinò al comandante delle truppe dell'Illirico, Aequitius, di costruire degli accampamenti per guarnigioni anche aldilà del fiume, nelle terre dei barbari Quadi. Come tutta risposta a questa provocazione -e alla proditoria uccisione, ordita da un alto dignitario romano, del loro re, i Quadi, oltrepassato il Danubio, devastarono le province pannoniche. I Sarmati, sempre bramosi di rapine, penetrarono anch'essi nel territorio imperiale e sbaragliarono le due legioni di stanza nella provincia Valeria.
Il prefetto del pretorio Probus spedì da Sirmium (l'odierna Sremska Mitrovica) un allarmante appello all'imperatore, intento a costruire fortezze nella regione di Basilea. Prima di intervenire, Valentiniano attese però il rapporto di un suo uomo di fiducia, il notarius Paternianus: le strade del Norico erano rese difficili dal ghiaccio e sarebbe stato difficile approvvigionare i soldati, i cavalli e le bestie da soma. L'esercito imperiale partì dunque da Treviri solo l'anno seguente, a primavera ormai avanzata, e raggiunse Carnuntum (l'attuale Petronel, nella Bassa Austria) in giugno. Di qui, passò ad Aquincum (Buda) e, costruito un ponte, penetrò nel territorio dei Quadi e lo saccheggiò con ferocia.
Invasioni: incursioni gotiche dopo Adrianopoli
Nel 375, avanzando attraverso le steppe della Russia, gli Unni penetrarono in Europa. Dopo aver vinto i Sàrmati Alani, essi attaccarono il potente regno degli Ostrogoti. Vista l'inutilità della resistenza, il re ostrogoto Ermanaric si suicidò e il suo successore Vithimer trovò la morte in battaglia. A sua volta, il re dei Visigoti, Athanaric, dopo un vano tentativo di resistere agli invasori, fu abbandonato dalla sua gente la quale chiese, con una petizione all'imperatore Valente, di essere accolta nel territorio romano in cambio del servizio militare. Allettato dall'idea di poter disporre di tanti formidabili guerrieri, Valente accosentì ad ammettere i Visigoti nell'Impero e, nel tardo autunno del 376, essi furono traghettati al di qua del Danubio in territorio romano. Dopo averne disperse le tribù nella Diocesi della Tracia, i funzionari romani sfruttarono vergognosamente i Goti, che, afflitti dalla fame, si vendevano in schiavitù in cambio di un pasto di carne di cane. Scoppiarono quindi dei tumulti di cui approfittarono i resti degli Ostrogoti per passare il Danubio sotto la guida dei nobili Alatheus e Safrax. I Visigoti e gli Ostrogoti, unitisi agli schiavi traci condannati al lavoro nelle miniere, presero infine a saccheggiare le città e le ville dell'Illirico. Dopo aver invano richiesto l'aiuto militare del nipote Graziano, figlio di Valentiniano I e imperatore dal 375 della Pars Occidentis, Valente si scontrò con i Goti ad Adrianopoli il 9 agosto del 378: due terzi del suo esercito campale e lo stesso imperatore perirono nella battaglia.
Negli anni successivi alla sconfitta di Adrianopoli, con l'imperversare dei Goti nell'Illirico, una violentissima pestilenza che decimava allora le truppe dei barbari dilagò per tutti i Balcani. Una terribile epizoozia s'accompagnò quindi alla peste, sterminando le mandrie e le greggi della Tracia, della Pannonia e della Macedonia. Le città e le campagne balcaniche, saccheggiate dai barbari, furono devastate dalla carestia che si propagò in seguito anche nell'Italia settentrionale e, in particolare, nella Venetia et Histria. Qui la zona più colpita fu senza dubbio la parte orientale della provincia: alcune bande di incursori goti devono infatti aver valicato le Alpi Giulie e razziato le borgate rurali dell'Istria e dell'area montana compresa tra Aquileia ed Emona (Ljubljana). Nelle campagne della Venezia orientale gli effetti di queste incursioni erano a quanto pare visibili a quasi 20 anni di distanza da quegli eventi: San Girolamo rammenta, infatti, nel 391, la "solitudo" e la "raritas bestiarum" di quelle regioni e, nel 397, la presenza di fattorie ("villulae") che, pur avendo sfuggito l'assalto dei barbari, si trovavano ancora semidistrutte. Ma l'intera Italia settentrionale, e non solo la sua parte orientale, dovette essere prostrata dalla carestia se, con accenti di grande sconforto, così si espresse il vescovo di Milano Sant' Ambrogio nell' "Esposizione del Vangelo secondo Luca" : "seppur risparmiati dalla guerra, la carestia ci rese pari a quanti ne furono coinvolti e debellati".
L'eco dei timori degli abitanti del Norditalia di fronte al nemico incombente può essere colta in un altro scritto del vescovo di Milano, il "Per la dipartita del fratello", databile al 378: "…se tu sapessi che ora l'Italia è minacciata da un nemico così vicino, quanto saresti afflitto, come deploreresti che la nostra estrema salvezza consista ormai nel vallo delle Alpi e che con barricate di legno si costruisca un muro a difesa del nostro onore!" Dal passo si evince anche che i lavori di fortificazione delle Chiuse (Claustra) dovettero essere allora particolarmente alacri, probabilmente per iniziativa dell'imperatore Graziano, che, in un'altra opera ambrosiana, il "Sulla fede", è detto "aver a lungo difeso l'Italia dal nemico barbaro".
La situazione, quantomai tesa, fu resa ancor più drammatica dall'esodo dei profughi illirici che, insidiati dalla fame e dai Goti, cercarono rifugio al di qua delle Alpi Giulie. I fuggiaschi erano certamente numerosi -una costituzione imperiale li definisce infatti "numerosa manus"- e non ebbero vita facile una volta giunti nella Venetia et Histria: indifesi di fronte alle angherie degli speculatori, caddero vittime dei latifondisti del Norditalia che li sfruttarono come braccianti o, peggio, li ridussero in catene come schiavi. La questione di questi scampati (Illiriciani) restò a lungo irrisolta al punto che, ancora nel 408, l'imperatore Onorio fu costretto a promulgare in loro favore la costituzione cui si è sopra accennato.
I Goti ai confini orientali della Venetia et Histria e i rapporti romano-gotici
L'"emergenza gotica" fu superata, almeno sul piano formale, con lo stanziamento, in qualità di "federati, dei Visigoti nella provincia della Mesia e degli Ostrogoti di Alatheus e Safrax in Pannonia. In virtù, dunque, di un trattato (foedus) stipulato intorno al 380, gli Ostrogoti (e una parte di Vandali e Unni) si insediarono in una regione confinante con la Venetia et Histria, dove, in cambio della difesa del territorio romano, furono loro garantite l'autonomia politica e la fruizione di un tributo annuo. Non si sa molto di questo periodo e si ignora come questi cavalieri germanici, sensibilmente "orientalizzati" e destinati ben presto a cadere sotto l'egemonia unna, abbiano convissuto con la popolazione pannonica romana o romanizzata. E' probabile, ad esempio, che i nuovi venuti abbiano appreso allora le tecniche della coltivazione della vite e dell'ulivo e pare comunque assodato che Aquileia, la metropoli della Venetia et Histria, abbia rivestito un ruolo importante nell'evangelizzazione -e indirettamente nella romanizzazione- dei nuovi arrivati. Non va dimenticato inoltre che Amantius, il vescovo della città pannonica di Iovia celebrato nel suo epitaffio come "degno di essere desiderato da un popolo staniero" e di essere alla guida spirituale di "due popoli", era originario di Aquileia.
I contatti tra i Goti e i Romani non ebbero però inizio all'indomani della stipula del "foedus" ed è lecito anzi asserire che l'instaurarsi di tali rapporti risaliva a tre secoli prima dello stanziamento dei Goti nell'Impero: già nel I secolo, stoffe, utensili, armi e monili romani affluivano infatti nelle regioni del Baltico occupate dai Goti. Qui, sin dall'epoca preistorica, si raccoglieva una preziosa resina fossile, l'ambra, che, attraverso un'antichissima via trans-continentale, raggiungeva gli empori dell'Nord-Adriatico. Nell'età preromana, i popoli della futura Venetia et Histria, i Veneti, i Carni, gli Istri e i Liburni, si erano arricchiti con questi commerci e lungo la via dell'ambra erano circolati gli uomini, le merci e le idee. Fu per questa via che i segni della scrittura nord-italica erano giunti nelle regioni del Baltico e della Scandinavia: rielaborati, essi diedero vita all'alfabeto runico di cui si servirono i Goti. Una volta stabilito il loro dominio sull'area adriatico-danubiana, ai Romani non sfuggì l'importanza del percorso dell'ambra: le fonti attestano infatti che, su mandato dell'imperatore Nerone, un esploratore romano a cavallo ripercorse quella via dalla città romana di Carnuntum fino alle coste del mar Baltico.
In virtù dunque degli intensi scambi commerciali tra il mondo mediterraneo e i Goti del Baltico, alcuni termini di origine latina-come wein, vino, aket, aceto, paurpura, porpora, sakkus, sacco, aurkjus, orcio- penetrarono allora nella lingua di questi Germani; altri, -relativi tanto alle istituzioni civili e militari di Roma (Agustus, Augusto, karkara, carcere, arka, forziere, militon, militare, Naubaimbair, novembre) quanto alla vita quotidiana e al mondo agricolo (anakumbjan, giacere a banchetto, lukarn, lucerna, intrusgjan, innestare, alew, olio, gards, recinto, weinagards, vigna)- fecero invece il loro ingresso nella lingua gotica, nel III secolo, a seguito delle scorrerie dei Goti nelle province dell'Oriente romano e del loro massiccio incorporamento nell'esercito imperiale: si ricordi, a tale proposito e a titolo d'esempio, che il padre dell'imperatore-soldato Massimino proveniva "e Gothia".
Molte famiglie di militari d'Oltralpe misero dunque radici nel territorio imperiale e così, se da un lato si assiste ad una progressiva ricezione del latino nella lingua gotica, dall'altro è attestato l'ingresso di alcuni termini gotici nel latino parlato nel Norditalia e, in particolare, nella Venetia et Histria: già nella prima metà del III secolo, nelle iscrizioni aquileiesi si riscontra infatti l'uso di un termine gotico come brutis per designare la nuora. Gli abitanti dell'Italia nord-orientale dovevano avere inoltre una certa consuetudine con i barbari del Nord: le unità di cavalleria dislocate a Verona e ad Aquileia almeno dai tempi dell'imperatore Gallieno (260) erano formate soprattutto da Germani e le strade della Venetia erano spesso percorse da reparti barbari in marcia verso il limes danubiano. Per quanto concerne, nello specifico, i Goti, non si può poi tacere che, dopo le vittorie dell'imperatore Claudio il Gotico (xxx), un grande numero di schiavi e di coloni gotici furono stanziati con le loro famiglie in Italia.
Nel quadro complessivo dei rapporti romano-gotici, non va poi dimenticato il ruolo rivestito dai cristiani fatti prigionieri durante le incursioni del III secolo, dai Goti reduci del servizio nell'esercito imperiale e dai mercanti romani operanti nel barbaricum: costoro rappresentarono, infatti, i primi veicoli di diffusione tra i Goti del cristianesimo. In un secondo momento, la Chiesa trovò opportuno "sponsorizzare" a livello ufficiale l'evangelizzazione di questo popolo con l'invio di presuli e missionari. Tale opera di proselitismo fu senza dubbio proficua com'è dimostrato dalla presenza tra i partecipanti al concilio di Nicea (325) di un vescovo della Gotia. Ma il cristianesimo che si diffuse maggiormente tra i Goti non fu quello canonizzato dal concilio niceno: sedici anni dopo Nicea, nel 341, il visigoto Vulfila, discendente di cristiani catturati durante un raid gotico in Cappadocia, fu consacrato vescovo dall'ariano Eusebio di Nicomedia e cominciò a diffondere la dottrina ariana tra i Visigoti. Rifugiatosi in Mesia, a seguito della persecuzione dei Goti cristiani (tanto "niceni" che ariani) ad opera del re Athanaric, Vulfila curò la monumentale traduzione della Bibbia in lingua gotica e creò un alfabeto nazionale ripreso dalla maiuscola greca, dalla scrittura onciale romana e dai segni runici. L'opera del vescovo visigoto orientò quindi una parte cospicua della sua gente verso la conversione al cristianesimo ariano.
Il contatto con l'Impero, iniziato con i commerci e proseguito in modo in parte pacifico e in parte conflittuale fino al 378, progredì quindi con l'insediamento degli Ostrogoti in Pannonia. Ciò non significa però che i rapporti tra le due parti non fossero travagliati: già nel 391, una nuova minaccia del "nemico" alle Alpi Orientali determinò l'intervento dell'imperatore Valentiniano II. Costui, informato, mentre soggiornava nelle Gallie, che i barbari (Goti, Vandali, Unni) si avvicinavano ai confini d'Italia, agì con tale risolutezza da indurre gli invasori a più miti consigli, mentre i suoi sudditi si stavano appena apprestando alla costruzione di un ulteriore vallo difensivo sulle Alpi ("murum Alpibus addere parabamus" così scrive Ambrogio nell' "In morte di Valentiniano"). I barbari preferirono dunque scendere ad un compromesso e, in ossequio all'imperatore, rimisero in libertà molti italiani ("Itali") che avevano catturato e ridotto in schiavitù.
Scontro tra Teodosio e Massimo
La Venetia et Histria, già provata dalla pestilenza e dalle fames cagionate dalle scorrerie gotiche, cadde preda nel 388 di una grave carestia causata dalle razzie e dalle requisizioni dell'esercito dell'usurpatore Magno Massimo. Costui, inviato da Graziano a combattere i Picti e gli Scoti e proclamato Augusto in Britannia dalle sue truppe vittoriose (383), era riuscito a spodestare e ad uccidere il legittimo imperatore. Ottenuto il consenso degli esponenti più in vista del clero "ortodosso" -e in primis del vescovo di Milano sant'Ambrogio- irritato dalle misure del giovanissimo Valentiniano II in favore degli eretici ariani, Massimo passò in Italia nell'autunno del 387. Così, mentre Valentiniano e la sua corte salpavano da Aquileia alla volta dell'Oriente, l'usurpatore iniziava alacremente ad estorcere tributi agli abitanti dell'Italia settentrionale in vista di una guerra con Teodosio. Varcate le Alpi Giulie, l'usurpatore sembra essersi insediato ad Emona (Ljubljana). Il suo esercito fu però sconfitto a Siscia (Sisak) e a Poetovio (Ptuj) e le armate "orientali", oltrepassate a loro volta le Alpi, giunsero ad Aquileia dove, il 28 agosto del 388, Massimo fu catturato e ucciso. A detta di Ambrogio fu Dio a tributare a Teodosio la vittoria "entro lo stesso vallo delle Alpi". L'esercito imperiale d'Oriente, comandato dal generale franco Arbogaste e composto in larghissima parte da Goti, Unni e Alani (del resto, l'esercito occidentale, capitanato dal barbaro Andragath, era composto da migliaia di barbari cui Massimo si vantò con Ambrogio di fornire le "razioni") soggiornò nell'Italia settentrionale fino al 391 e Teodosio stesso insediò la sua corte a Verona.
Battaglia sul Frigidus
A partire dal 389, nella parte occidentale dell'Impero, i rapporti tra l'imperatoreValentiniano II e il comandante della fanteria da campo, il generale franco Arbogaste, si erano fatti oltremodo tesi. Dietro a questi dissidi si celavano profondi contrasti di potere: il generale barbaro esercitava infatti una sorta di tutela sul giovane imperatore e appoggiava il partito degli aristocratici pagani, che Valentiniano II aveva sconfessato nel 392vietando la ricollocazione della statua della dea Vittoria nel Senato di Roma. Il 15 maggio di quell'anno, l'imperatore fu strangolato in circostanze rimaste poco chiare e, per cautelarsi contro la reazione di Teodosio, il 22 agosto, Arbogaste fece ascendere al trono d'Occidente un anziano professore di retorica: Eugenio. L'imperatore d'Oriente reagì dapprima con una misura di carattere religioso, promulgando in novembre una legge che vietava in tutto l'Impero il culto degli dei pagani in tutte le forme, anche in privato. Ma, nel gennaio dell'anno seguente (393), dopo aver nominato suo figlio Onorio imperatore d'Occidente, Teodosio passò all'offensiva militare. Disponendo di truppe inferiori per numero, Arbogaste e la sua "creatura" Eugenio ritennero di attendere le colonne nemiche all'uscita dei passi delle Alpi orientali. Per fermare Teodosio, oltre alle truppe schierate ai piedi delle montagne e acquartierate nei fortilizi delle Chiuse (Claustra Alpium,) fu elevata però anche una sorta di "barriera spirituale": alcune statue del dio Giove ("Iovis simulacra") che brandiva contro l'Oriente delle folgori d'oro ("aurea fulmina") furono infatti erette sulle vette delle Alpi Giulie. Ai numi tutelari pagani degli uomini di Eugenio, le cui insegne ritraevano Ercole e Giove, Teodosio contrappose il Dio cristiano cui rivolse una lunga preghiera prima della battaglia. Lo scontro tra i due eserciti ebbe luogo il 6 settembre 394 sul fiume Frigidus (Vipava/ Vipacco), un affluente di sinistra dell'Isonzo. In entrambe le armate era preponderante la presenza barbarica: nelle file dell'esercito orientale spiccava ad esempio per consistenza il contingente dei 20 mila Goti di Alarico e in quello occidentale erano prevalenti i Franchi e gli Alemanni.La sorte della battaglia fu decisa dal tradimento di un ufficiale di Eugenio, Arbitio, e dall'improvviso levarsi del vento di bora che, secondo la tradizione, strappò gli scudi ai soldati "occidentali" e ritorse contro di loro i loro stessi dardi. Eugenio fu fatto prigioniero e ucciso; Arbogaste si suicidò due giorni dopo lo scontro. Una conseguenza di lunga durata dello scontro del 394 tra gli eserciti romani d'Oriente e d'Occidente fu che l'accesso alle piane della Venetia et Histria rimase completamente sguarnito: a detta del poeta Claudiano di Alessandria, le torri e le mura delle Chiuse (Claustra Alpium) furono demolite nel corso della battaglia e, difatti, non si ha più notizia né di un loro utilizzo né della presenza sulle Alpi orientali di armate romane ai tempi delle discese di Alarico in Italia. Sul piano economico, la concentrazione degli eserciti nella Venetia et Histria orientale e lo scatenarsi nel 394 di alcune calamità naturali (terremoti e allagamenti) sortirono degli effetti così disastrosi da imporre al nuovo imperatore d'Occidente Onorio una "relaxatio" delle imposte annonarie nel Norditalia.
Non va poi dimenticato che, nel 395, approfittando della morte di Teodosio, i Marcomanni e altri popoli insediati lungo il corso del Medio Danubio (Vandali Asdingi) penetrarono nell'Impero e devastarono l'intera Diocesi della Pannonia. Le loro orde si spinsero quindi fino all'Adriatico e, probabilmente nell'estate di quell'anno, la regione di Salona (Solin) in Dalmazia fu messa a ferro e a fuoco. Non si ha notizia di scorrerie marcomanne nella provincia della Venetia et Histria, che, come si è detto, confinava con la Pannonia ed era molto più vicina al Medio Danubio di quanto non lo fosse la Dalmazia, ma non si può escludere che singole bande di razziatori barbari possano aver effettivamente raggiunto l'Italia nord-orientale.
Alarico
Piogge torrenziali, piene dei fiumi e inondazioni affliggevano tutta l'Italia settentrionale nell'ultimo scorcio del IV secolo, mentre nuove minacce si profilavano ad oriente della Venetia et Histria. Tali minacce erano costituite in primo luogo dai Visigoti di Alaric e dagli Ostrogoti di Radagaisus: i primi erano i discendenti di quei guerrieri che, sotto la guida di Fritigern, avevano inflitto a Roma la disastrosa sconfitta di Adrianopoli (378), erano stati insediati come "federati" in Mesia (382) e avevano combattuto nelle armate di Teodosio contro l'usurpatore Eugenio (394); i secondi erano stati stanziati, assieme a gruppi di Unni, Alani e Visigoti in Pannonia, ai confini orientali della nostra provincia, già ai tempi dell'imperatore Graziano (382). Inoltre, come se ciò non bastasse, tra il 396 e il 397, i Marcomanni in fuga dalla Boemia si erano installati a nord della Venetia et Histria, nel Norico, e di lì avevano incominciato a perpetrare degli occasionali saccheggi ai danni degli abitanti delle regioni alpine.
Il popolo visigoto nutriva e manifestava un'aperta ostilità nei confronti dei Romani, mentre, al contrario, i suoi capi erano lungi dall'auspicare la fine di un Impero all'interno del quale ambivano ad incrementare il loro potere: lo stesso Fritigern aveva a lungo negoziato in segreto la pace con l'imperatore Valente prima che la battaglia di Adrianopoli scoppiasse per l'improvvida iniziativa personale di due ufficiali romani. Anche i suoi "successori" avevano preso risolutamente un atteggiamento filo-romano per rafforzare la loro posizione tanto nelle gerarchie militari imperiali che nei confronti dei loro connazionali: Fravittas uccise di sua mano l'anti-romano Eriulf, sposò una donna romana, assunse il nome di Flavius e debellò, per conto dell'Impero, i briganti dell'Isauria; Modares disertò i suoi e, alla testa di un esercito romano, inflisse loro una dura sconfitta (382); Munderic ascese al rango di duca della frontiera araba; Gainas da soldato di ventura divenne in dieci anni il comandante dei mercenari visigoti al servizio dell'Impero; anche Tribigild, prima di ribellarsi nel 400 contro il governo imperiale dell'Oriente aveva fatto carriera nell'esercito romano. Dal canto suo Roma, incapace di sopraffare militarmente i barbari, non poteva che favorire queste velleità dei loro capi: sappiamo, ad esempio, che l'imperatore Teodosio fu molto attento a non urtare la suscettibilità di questi pericolosi "federati" punendo i funzionari che avessero offeso i Visigoti e celebrando con funerali di stato la morte di Athanaric.
Seppur legato da relazioni di familiarità ai membri dell'aristocrazia imperiale e benché "organico" alle strutture romane -gli era stato riconosciuto il titolo di comandante militare dell'Illirico (magister militum per Illyricum)-, il nuovo capo dei Visigoti Alaric non era -né poteva essere- indifferente ai sentimenti ostili che la società tribale gotica nutriva nei confronti di Roma: la sua elezione nel 395 rappresentò quindi una soluzione di compromesso tra i filo-romani e i fautori della guerra contro l'Imperium.
Avvezzo agli intrighi della politica imperiale, il re dei Visigoti approfittò delle lotte di potere che vedevano contrapposti il generale di origine vandala Stilicho, -già braccio destro di Teodosio e ora reggente dell'appena decenne imperatore d'Occidente Onorio-, e alcuni dignitari "anti-germanici" della corte del diciasettenne imperatore d'Oriente Arcadio: il prefetto del pretorio Rufinus (assassinato nel 395), l'eunuco Eutropius (giustiziato nel 399) e l' "antigermanica" -seppure figlia di un ufficiale barbaro- imperatrice Eudoxia – (assassinata nel 404).
Forse su istigazione del governo orientale, nell'autunno del 401, Alaric oltrepassò dunque le Alpi Giulie, mentre le truppe di Stilicho erano impegnate nel Norico e in Rezia a combattere contro i Vandali e gli Alani. La prima città a farne le spese fu Aquileia, che venne assediata, ma i 30 mila Visigoti di Alaric misero ben presto a ferro e a fuoco l'intera pianura padana fino alla capitale dell'impero d'occidente, Milano, anch'essa cinta d'assedio mentre Onorio provvedeva a trasferire la corte imperiale da Milano alla più sicura città di Ravenna.
Stilicho, accordatosi con i Vandali e gli Alani, costrinse quindi Alaric a desistere dall'assedio di Milano e, dopo aver inseguito i Visigoti nella valle del Tanaro, li affrontò e li sconfisse di misura a Pollentia (Pollenzo) il 6 aprile del 402. Per riavere le donne e i bambini che erano caduti nelle mani dei Romani, Alaric accettò quindi di ritirarsi in Istria, donde prese le mosse, nell'estate successiva, una nuova invasione visigota della pianura padana. Anche questa volta fu per merito del generale vandalo se l'esercito di Alaric, decimato dalla fame e dalle epidemie, fu fermato e sconfitto nella battaglia di Verona (403). Lungi però dal volere annientare un potenziale alleato nella guerra con l'Impero d'Oriente, Stilicho fece stanziare i Visigoti come federati nella Savia.
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