[T2]Introduzione [/T]
Se qualcuno avesse chiesto a un Romano colto in che anno era cominciata una vera letteratura in latino, costui probabilmente avrebbe risposto indicando il 513 dalla fondazione di Roma, cioè il 240 a.C. Era quello lanno in cui Livio Andronico, uno schiavo liberato, proveniente dalla città greca di Taranto, aveva fatto rappresentare per la prima volta un testo scenico in lingua latina, presumibilmente una tragedia. Prima di quella data significativa, esisteva solo un periodo vuoto ed oscuro, esteso per più di 5 secoli. Una simile concezione delle origini può sembrare semplicistica, ma è ragionevole in quanto presuppone, come ogni erudito romano avrebbe certo presupposto, che la letteratura è una produzione artistica fissata in una scrittura: vale a dire che una letteratura nasce come tale quando è capace di padroneggiare un proprio repertorio di moduli espressivi, di temi e motivi caratteristici, di convezioni del gusto e della cultura. Di altre forme popolari non scritte e delloriginario patrimonio folkloristico , gli eruditi e gli antiquari romani probabilmente si vergognavano, se pure ne conoscevano i resti: essi avrebbero preferito trovare un grandissimo da poter opporre ad Omero:<>, secondo la tradizione, della letteratura greca e maestro di tutti i poeti per i Greci Omero era il sommo poeta ed il padre di tutti i generi, comprese la tragedia e la commedia. I Romani tentano di ricostruire la loro preistoria letteraria, cercando un poeta che cancelli con la sua eccellenza ogni traccia di tutti i tentativi precedenti ancora imperfetti. Per ricostruire la letteratura romana è necessario tenere in considerazione:
1. Cronologia e diffusione della scrittura;
2. Le forme comunicative non letterarie;
3. Le forme pre-letterarie: i carmina
Comunque esse sono informazioni tratte da fonti letterarie romane arricchite da elementi storici, archeologici e linguistici.
[T2]Cronologia e diffusione della scrittura[/T]
Sin dai tempi più antichi gli abitanti del Lazio si affidavano alla scrittura per registrare semplici messaggi: un invito a bere su una coppa da vino; la firma di un artigiano un recipiente artisticamente lavorato, come nel caso della Cista Ficoroni (un vaso cilindrico).L uso della scrittura dunque, era legato a momenti della vita praticai Romani non scrivevano solo su materiali duri e abbiamo perciò solo graffiti ed iscrizioni e ci mancano documenti di tipo funerario. La presenza di iscrizioni di tipo strumentale sembra provare che a Roma nel periodo arcaico cera una certa capacità di scrivere anche tra persone di media condizione. Luso della scrittura diventa indispensabile per una serie dio funzioni pubbliche: conservazione di oracoli, liste di magistrati e sacerdoti, statuti, leggi, memorie di famiglia. Già nella Roma medio-repubblicana il quadro dell alfabetizzazione si presenta assai ampio ed articolato per una notevole estensione della capacità di leggere e di scrivere. Anche se gli scribi in quel periodo erano considerati dei semplici artigiani della scrittura.
[T2]Le iscrizioni [/T]
I rari documenti epigrafici pervenuti sono spesso poco chiari e di ardua interpretazione per le difficoltà linguistiche, ma testimoniano che nella Roma arcaica del 600 a.C. era già diffusa la scrittura per uso privato e pubblico, per lo meno nei ceti dominanti e nella classe sacerdotale; si tratta di una scrittura alfabetica di derivazione greca, proveniente dalle città della Magna Grecia.
Decisamente oscura, anche per il testo lacunoso, è l’iscrizione del cosiddetto Lapis Niger (pietra nera), risalente ai secc. VII-VI a.C., incisa su un cippo a forma di parallelepipedo trovato, alla fine del 1800, nel Foro romano sotto un lastricato di marmo nero, che la tradizione indicava come la tomba di Romolo. Esso reca le norme religiose per interdire l’accesso a un recinto sacro; compare anche un rex, una figura sacerdotale. Il testo è in caratteri greci e in scrittura bustrofedica (“come i buoi che arano”), per cui le righe si alternano da destra a sinistra e da sinistra a destra, con le lettere opportunamente orientate.
Dello stesso periodo e parimenti di difficile interpretazione è la lunga iscrizione sul cosiddetto Vaso di Dueno, un vasetto di terracotta usato forse per qualche rito sacrificale o come contenitore di cosmetici, trovato nell’avvallamento tra il Quirinale e il Viminale. La scrittura va da destra a sinistra e le parole non sono separate l’una dall’altra. Forse si allude alla destinazione votiva del vaso stesso, oppure a una fanciulla che invia all’innamorato un dono; si ricava solo un dato, e forse erroneo: che fu opera di un certo Dueno.
Facilmente decifrabile, anche perché di un periodo molto più recente, è la cosiddetta Cista Ficoroni (dal nome dello scopritore), un’iscrizione incisa su un cofanetto di bronzo di forma cilindrica trovato a Preneste (oggi Palestrina): Dindia Malconia mi diede alla figlia; Novio Plauzio mi fece a Roma. Vi sono forti dubbi sull’autenticità della breve scritta sulla Fibula Praenestina, primo documento pervenutoci in lingua latina, anch’essa rinvenuta in una tomba di Preneste: su una fibbia d’oro del 600 a.C. è inciso il nome dell’orafo o del donatore e quello del destinatario: Manio mi fece per Numerio. La scritta è in caratteri greci, da destra a sinistra senza intervallo tra le parole.
Le tombe degli Scipioni
Di grande interesse documentario sono le iscrizioni sepolcrali incise sui sarcofaghi della potente famiglia degli Scipioni, fuori Porta Capena, sulla via Appia. Rappresentano la prima testimonianza diretta del verso saturnio e rivelano una buona conoscenza delle epigrafi funerarie greche. L’epitaffio in onore di Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 298 a.C., è un rifacimento dell’originale posteriore al 200, come dimostra la lingua, mentre senz’altro più remoto è quello per il figlio omonimo: Moltissimi Romani sono concordi che questo unico / fu il migliore tra gli uomini onesti / Lucio Scipione. Figlio di Barbato. / Costui fu console, censore, edile presso di voi. / Egli conquistò la Corsica e la città di Aleria, / consacrò come dovuto un tempio alle Tempeste.
Le forme comunicative non letterarie
Luso della scrittura fu legato alla necessità di avere precise registrazioni ufficiali trattati, patti internazionali e di leggi. Abbiamo innanzitutto tracce di remotissime leges regiae che dovrebbero risalire alla fase monarchica dei primi secoli ed erano dominate da una imposizione rigidame3nte sacrale. Invece costituì una forte conquista civile e politica la composizione delle Leggi delle 12 t5avole, così dette perché erano affidate a dodici tavole di bronzo esposte nel Foro Romano. Le leggi sarebbero state stilate da unapposita commissione fra il451 e il 450.
Un altro antichissimo uso della scrittura riguardava i calendari. I giorni dellanno erano divisi in fasti e nefasti a seconda che vi fosse permesso o vietato il disbrigo degli affari pubblici. Ben presto il termine fasti cominciò a designare non solamente il calendario annuale ma anche le liste dei magistrati nominati anno per anno. Altre registrazioni ufficiali furono gli annales che cominciarono a formare una vera e propria memoria collettiva dello stato romano. Alla tradizione ufficiale degli annales possiamo affiancare luso dei commentari. Il termine sarà usato da Giulio Cesare per indicare le sue narrazioni della guerra gallica e della guerra contro Pompeo. I commmentarii si presentavano come opere non professionali.
all’evoluzione linguistica e, pertanto, a creare l’ambiente adatto alla nascita della letteratura.
[T2]Il diritto [/T]
Non si possiede nulla purtroppo di molti documenti storicamente importanti: è questo il caso dei trattati (foedera) di alleanza, di pace, di commercio con i vari popoli con cui i romani di volta in volta venivano in contatto, come quello commerciale con Cartagine del 509 a.C. e il patto con la Lega Italica del 493 a.C. Gli storici romani riportano un arido elenco di trattati, che non riferisce nulla sulla sostanza dei patti conclusi, né sui principi del primitivo diritto internazionale.
Anche delle leges regiae (leggi regie), che si facevano risalire a Romolo e ai suoi successori, non sono rimasti che pochi frammenti riportati da giuristi posteriori. Sicuramente non erano scritte ma tramandate oralmente all’interno della classe dominante; si basavano probabilmente su norme consuetudinarie riguardanti il rituale sacrale e il diritto privato. Secondo la tradizione sarebbero state raccolte da un pontefice, Sesto Papirio, all’epoca di Tarquinio il Superbo in un libro, lo Ius civile Papirianum.
Enorme importanza storica e giuridica hanno le Leggi delle XII Tavole, la prima legislazione scritta del diritto romano, che Livio, secoli più tardi, definì “la fonte di ogni diritto pubblico e privato”. All’epoca di Cicerone costituivano ancora un importante testo scolastico. Dietro le richieste sempre più impellenti della plebe, che esigeva una maggiore certezza del diritto, vennero redatte da una commissione di dieci magistrati, i Decemviri legibus scribundis, nel 451-450 a.C. e scritte su dodici tavole di bronzo esposte nel Foro. Hanno anche grande rilevanza dal punto di vista letterario: pur non essendo l’originale ma versioni posteriori in cui è stato modificato qualche vocabolo, sono il primo documento di prosa organizzata del periodo delle origini. Lo stile è conciso: Se un ladro ruba di notte, e il derubato lo uccide, venga ritenuto ucciso legalmente. Oppure: Nei riguardi di uno straniero vale il diritto di rivendicazione. O ancora: Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia libero dalla patria potestà . Pur non escludendo un’influenza greca, le leggi sono chiaramente il frutto delle consuetudini dei romani e del loro senso pratico. Le XII Tavole non costituiscono un complesso sistematico di tutto il diritto privato e pubblico, sono un importante passo in avanti verso la parificazione dei diritti dei cittadini romani. La sostituzione del diritto consuetudinario con uno scritto rappresentava una grande conquista della plebe; era stato, infatti, interesse dei ceti dominanti, che detenevano il monopolio del potere giudiziario, mantenere una legislazione affidata alla memoria dei giudici.
[T2]La cronaca [/T]
Grande importanza avevano per i romani i “fasti”, un vero e proprio calendario civile, redatto dai pontefici. Riportava i giorni dell’anno in cui era lecito dedicarsi alle attività pubbliche (fasti), e quelli in cui non era lecito per motivi religiosi (nefasti). Vi erano inoltre annotati le cerimonie, i mercati, le calamità naturali, gli spettacoli, gli avvenimenti astronomici, i prodigi. In seguito la parola fasti (fasti consulares; fasti pontificales; fasti triumphales) indicò anche gli elenchi dei magistrati in carica annuale, gli atti ufficiali, le vittorie militari.
[T2]L’oratoria e Appio Claudio Cieco [/T]
L’eloquenza ebbe in Roma una lunga tradizione, che risaliva almeno ad Appio Claudio Cieco (secc. IV-III a.C.). Con la storiografia del resto essa era l’unica attività intellettuale degna di un aristocratico, necessaria per fare carriera nella vita politica. Non è giunto nulla delle orazioni di Cornelio Cetego (il primo di cui si ha testimonianza), censore nel 209 e console nel 204, di Scipione l’Africano Maggiore (236-183 a.C.), del console L. Emilio Paolo, il vincitore di Perseo a Pidna (168 a.C.), ma è probabile che l’oratoria si attenesse strettamente ai fatti, poco curandosi della forma espositiva. Dalla seconda metà del sec. II a.C. si moltiplicarono le occasioni di pronunciare discorsi: le frequenti campagne militari, l’accesa lotta politica, la questione agraria e i frequenti processi costrinsero gli uomini politici, per ottenere consenso, a meglio curare l’esposizione che diventò sempre più elegante e raffinata. Non è rimasto però nulla di Cornelio Scipione l’Emiliano, il distruttore di Cartagine (146 a.C.), del suo amico Gaio Lelio (ca 235-160 a.C.), dei due tribuni della plebe Tiberio (162-133 a.C.) e Gaio Gracco (154-121 a.C.), di Emilio Scauro, console nel 115, a eccezione di qualche sintetico giudizio di Cicerone, il quale sostiene che l’eloquenza aveva raggiunto la maturità con Marco Antonio (143-87 a.C.) e L. Licinio Crasso (115 ca-53 a.C.). Quest’ultimo, di tendenze conservatrici, come censore aveva fatto chiudere nel 92 a.C. la scuola di retorica di Prozio Gallo, perché troppo democratica. Probabilmente alla scuola era legata la Retorica ad Herennium, di autore ignoto, il cui testo è giunto completo in ogni sua parte.
Non si conosce nulla degli oratori precedenti Appio Claudio Cieco, il primo di cui si hanno notizie storiche sicure. Patrizio di origine (sec. IV-III a.C.), molto aperto ai problemi sociali della sua epoca, nel 312, da censore, introdusse uomini nuovi in Senato, persino figli di liberti. Fece costruire il primo acquedotto (Aqua Appia) e dette inizio ai lavori della via Appia (regina viarum), la prima grande strada militare che conduceva a Capua. Fu console nel 307 e nel 296; partecipò alle guerre sannitiche e, ormai vecchio e cieco, persuase il Senato a respingere la pace offerta da Pirro, re dell’Epiro, pronunciando (280) un famoso discorso cui Cicerone alludeva come al primo discorso ufficiale mai pubblicato a Roma. Scrisse un Carmen de moribus, raccolta di massime moraleggianti in versi saturni fra cui, delle tre rimaste, la celebre: “Ognuno è artefice del proprio destino” è la più famosa. Non si sa se nei suoi scritti subì il fascino della cultura greca. Si interessò anche di diritto, facendo raccogliere e pubblicare dal suo segretario, Gneo Flavio, il cosiddetto Ius Flavianum, la prima opera latina di procedura giudiziaria. La tradizione gli attribuisce anche una riforma ortografica, con l’introduzione della consonante r intervocalica, al posto della s, e l’abolizione della z.
Più tardi, il collegio dei pontefici pubblicò ogni anno sulla Tabula Dealbata (tavola bianca), esposta presso la Regia (sede del pontefice massimo e del rex sacrorum), non solo i nomi dei magistrati, ma anche gli avvenimenti di pubblica importanza, civile, religiosa, commerciale e militare. Questi documenti, scritti e consultabili con il nome complessivo di annales, registravano il ricordo di avvenimenti fondamentali e perciò fornivano una storia del popolo romano.
Nel sec. II a.C., riuniti in 80 volumi per ordine del pontefice Publio Muzio Scevola, presero il titolo di Annales Maximi. Sfortunatamente un incendio aveva in gran parte distrutto le annate anteriori al 390 a.C.: per questo sono poche le notizie attendibili dei primi secoli della storia di Roma.
Tutti i più importanti magistrati, come i consoli, i questori e i censori, redigevano diari, i commentarii, in cui registravano accuratamente i fatti salienti della loro magistratura e i provvedimenti presi. Era una memorialistica del tutto privata, che però poteva diventare pubblica quando i commentarii venivano depositati presso il collegio dei pontefici. Anche i vari collegi sacerdotali annotavano i loro atti nei Libri pontificum, nei Libri augurum, nei Libri saliorum.
[T2]La storiografia [/T]
Frutto intellettuale del ceto dirigente, come l’oratoria, la storiografia arcaica fu di tipo annalistico (con avvenimenti esposti in ordine cronologico) e nacque per fini politici; fu soprattutto agiografica e del tutto priva di analisi critica.
[T2]Gli annalisti in lingua greca [/T]
I primi annalisti romani scrissero in greco, forse perché influenzati rivolgersi ai lettori non latini delle rive del Mediterraneo. I pochi dalla raffinata prosa letteraria ellenica, forse perché volevano frammenti rimasti degli autori più importanti sono insufficienti per esprimere un giudizio di merito.
Quinto Fabio Pittore (ca 260-ca 190 a.C.), della gens Fabia, fu senatore e combattè contro i Galli e contro Cartagine. Dopo la sconfitta di Canne del 216 fu inviato a consultare l’oracolo di Delfi sulla sorte della città. I suoi Annales, dall’arrivo di Enea alla battaglia di Zama, godettero di buona fama e furono una fonte di notizie per gli storici successivi.
Lucio Cincio Alimento. Di lui si sa solo che fu pretore nel 210 a.C. e che fu preso prigioniero nella seconda guerra punica. La storia trattata nei suoi Annales doveva avere un contenuto analogo a quella di Fabio Pittore, ma non ne ebbe ugual fama, anche se Polibio gli riconosceva una certa obiettività.
[T2]Gli annalisti in lingua latina [/T]
Pochi frammenti rimangono delle opere degli annalisti in lingua latina, successori di Catone. Valerio Anziate era già noto presso gli antichi per la superficialità e le esagerazioni storiche, che compilò ben 75 volumi di Annali fino a Silla. Inoltre citiamo L. Cassio Emina e L. Calpurnio Pisone, le cui opere arrivavano alla distruzione di Cartagine, Cornelio Sisenna (morto nel 67 a.C.), oratore e sostenitore di Silla, la cui opera, Historiae, in 23 libri, fu apprezzata da Sallustio e Cicerone.
[T2]La poesia: i carmina [/T]
I primi documenti sono per lo più carmina sacrali oppure frammenti delle antiche leggi. La forma di questi carmina è misteriosa e comprendono: leggi, preghiere, formule rituali, giuramenti, profezie, proverbi e scongiuri.
Le forme più antiche di carmina riguardano una produzione di carattere religioso e si possono individuare due importanti carmina: il saliare e l Arvale.
Il primo era il canto di un venerando collegio sacerdotale, i Salii. Erano i sacerdoti Del dio Marte, che ogni anno, nel mese di marzo recavano in processione i 12 scudi sacri, gli ancillia, uno degli scudi era il famoso scudo caduto dal cielo, sacro pegno della divina protezione su Roma.
Un po meno fantasmatico è per noi il carmen Arvale. Nel mese di maggio i Fratres Arvales, un collegio di dodici sacerdoti che la leggenda voleva promosso nientemeno che da Romolo, levavano un inno di purificazione dei campi implorando la protezione da Marte.
Alla poesia funeraria appartengono tra gli esempi più noti gli Elogia degli Scipioni. Uno degli epitafi elogia non solo le virtù militari ma anche quelle intellettuali dello scomparso.
Alla poesia popolare appartengono proverbi, maledizioni, scongiuri, precetti agricoli, canti di lavoro e ninne-nanne. Un tipo di poesia popolare lontana dalla sfera religiosa è caratterizzata dai versi fescennini che avevano forte potere di scongiuro contro il malocchio. Oltre a questi ricordiamo i carmina triumphalia. In occasione del trionfo, i soldati improvvisavano canti in cui alle lodi del vincitore si mescolavano liberamente scherni e pasquinate. Altri furono i carmina convivalia anche venivano intonati dai convitati dopo un banchetto per ringraziare la famigli ospitale. In tutta la letteratura romana forte fu linflusso della cultura greca.
[T2]I carmina religiosi [/T]
Tra i più antichi canti della poesia religiosa, risalenti al sec. VI a.C., vi è il Carmen Saliare, legato ai riti magico-religiosi dei Salii, è uno dei primi testi romani pervenuti, di cui sono rimasti pochi e spesso incomprensibili frammenti, conservati dagli eruditi latini. Ogni anno, in marzo e in ottobre, per celebrare l’apertura e la chiusura della stagione della guerra, i Salii (da salio: salto), i dodici sacerdoti di Marte, percorrevano in processione, vestiti da antichi guerrieri, i luoghi più importanti di Roma, intonando preghiere di invocazione agli dei, danzando e battendo con il piede il suolo con colpi forti e regolari in ritmo ternario, percuotendo con bastoni gli ancilia, i dodici scudi sacri di bronzo. Secondo la tradizione il collegio dei sacerdoti Salii era stato fondato dallo stesso Numa Pompilio per custodire l’ancile caduto miracolosamente dal cielo, pegno divino per la salvezza di Roma, e gli altri undici perfettamente uguali al primo, costruiti dal fabbro Mamurio Veturio.
È invece pervenuta una versione completa e attendibile del Carmen Arvale, risalente al sec. VI, perché il testo veniva trasmesso di generazione in generazione. È un canto propiziatorio affinché gli dei invocati diano fertilità ai campi. Il carmen si trova nei numerosi frammenti di un’epigrafe del 218 d.C. degli Acta fratrum Arvalium, in cui il collegio sacerdotale registrava la propria attività. Il canto, in versi saturni, ognuno ripetuto tre volte tranne l’ultimo ripetuto cinque volte, costituiva il momento culminante della processione della festa Ambarvalia nel mese di maggio. Il carmen, di difficile interpretazione, invoca i Lari, Marte e i Semoni perché proteggano i campi (arva) dalle pestilenze. Veniva eseguito durante il rito della purificazione dei campi e in altre cerimonie dai fratres Arvales, il collegio di dodici sacerdoti, tutti patrizi, dediti al culto della divinità agricola Dia, la terra nutrice, istituito secondo la tradizione da Romolo.
[T2]Altri tipo di carmina:[/T]
Il carmen arvale veniva cantato dai Fratelli Arvali (da arva: campi coltivati) durante un rito di purificazione delle campagne, allinizio di maggio.
I carmina populariaerano una serie di filastrocche, preghiere, ninna nanne di origine popolare destinate ad accompagnare il lavoro dei contadini nei campi.
Il carmen Priami narrava la caduta di Troia.
Il carmen Nelei aveva quasi certamente qualche connessione con la leggenda di Romolo e Remo.
I carmina triumphalia erano dei canti, o per lo più dei motteggi che i soldati rivolgevano al loro comandante portato in trionfo, accompagnati da scherzi spesso licenziosi. Il verso da cui erano caratterizzati era il versus quadratus.
[T2]IL VERSO SATURNIO [/T]
Il saturnio, l’unico verso usato nella poesia latina arcaica, prende il nome dal dio Saturno che, secondo il mito, si era rifugiato nel Lazio dopo la cacciata dal cielo; è detto anche faunio, in onore di Fauno, il dio indigeno che lo avrebbe inventato. Il poeta Ennio scrive che gli antichi canti erano in saturni e che a questo verso ricorrevano i vati e i fauni, intendendo forse così indicare il suo uso nei canti della tradizione religiosa e agreste. È un verso imprevedibile, dalla struttura estremamente fluida sulla cui natura gli studiosi non sono unanimi: ha un ritmo quantitativo, costruito cioè secondo una precisa successione di sillabe lunghe e brevi, oppure accentuativo, basato cioè su una determinata alternanza di sillabe toniche e sillabe atone, oppure, ancora, quantitativo e accentuativo insieme. Il fatto è che nei pochi versi pervenuti, circa duecento tra epigrafici e letterari, non si riscontrano due saturni uguali. È probabile comunque che nei primi secoli il verso avesse un ritmo accentuativo di origine indoeuropea, e successivamente, in fase soprattutto letteraria, diventasse quantitativo, perché più adatto alla natura della lingua latina. Già nel I sec. d.C. il grammatico Cesio Basso sosteneva fosse quantitativo: composto da due membri o cola che formano un dimetro giambico catalettico e da un itifallico o tripodia trocaica; aggiungeva però che aveva trovato un solo verso formato così. Usato a lungo nei secoli delle origini, il saturnio fu adottato in letteratura da Livio Andronico e da Nevio e poi scomparve per sempre, sostituito dall’esametro di origine greca, forse perché troppo irregolare per il gusto sempre più raffinato degli autori
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