La pubblicazione di “Umano, troppo umano” (1878), dedicato a Voltaire, segna una vera e propria svolta nella filosofia di Nietzsche. Egli continua l’aspra polemica nei confronti della cultura del proprio tempo e delle esaltazioni del progresso storico, ma non scorge più nell’arte la via per uscire dalla decadenza, bensì nella scienza. Il pensatore tedesco ora guarda con interesse e simpatia, da una parte, all’illuminismo e alla tradizione dei moralisti francesi del Seicento e del Settecento e, dall’altra, alle scienze naturali. In questa fase la scienza è valutata in modo positivo da Nietzsche non tanto perchò in grado di pervenire a conoscenze oggettive, quanto come forma di atteggiamento metodico e, insieme, libero e spregiudicato di fronte ai valori correnti, ai presupposti, alle abitudini e alle regole imposte dalla società . Infatti, la scienza stessa ha la sua origine e la sua giustificazione nei bisogni della vita e i suoi risultati si sono storicamente trasformati in condizioni di vita, cosicchò la conoscenza si è imposta come un bisogno tra gli altri, essenziale per vivere e, in quanto tale, ha assunto un potere sempre più vasto nel mondo moderno. Ma questo potere crescente non dipende dal fatto che la scienza sia un sapere disinteressato, che abbia come scopo la “verità ” e sia capace di carpirla. Intanto, è necessario osservare, a parere di Nietzsche, che anche l’ “errore” può essere utile alla vita e che la stessa promozione della scienza nell’età moderna è avvenuta grazie ad alcuni errori inconsapevoli. Alla scienza, infatti, sono stati erroneamente attribuiti il potere di cogliere la bontà e la sapienza divina che regge l’universo e la prerogativa di essere lo strumento fondamentale per realizzare la felicità umana. Sono questi errori che hanno fatto aumentare l’importanza della scienza nella vita moderna. In realtà , la rappresentazione del mondo, fornita dalle scienze, non coglie affatto le cose come sono in se stesse, in quanto non può andare oltre l’apparenza. Anche la scienza, infatti, ben lontana dall’essere disinteressata e pacifica e, quindi, in contrasto con i presunti istinti cattivi degli uomini, nasce dal bisogno vitale di avere certezze e rassicurazioni, per poter sopravvivere: è tale esigenza che ha fatto escogitare i princìpi erronei sui quali si fonda la scienza, come l’esistenza di legami causali tra cose ed eventi o la possibilità di numerare e di compiere astrazioni e generalizzazioni, al fine di cogliere presunte essenze stabilite delle cose. Ammettere che la scienza possa nascere da errori e finzioni pare in contrasto con i consueti giudizi di valore, eppure è possibile, secondo Nietzsche, che l’apparenza, l’illusione, l’interesse personale abbiano per la vita un valore superiore alla verità e al disinteresse, anzi è possibile che i due piani siano intrecciati, anzichò contrastanti. La filosofia e la scienza hanno la loro origine più profonda e recondita, più che nell’istinto di conoscenza, in un istinto vitale che si è servito della conoscenza come strumento per la vita stessa. Soprattutto il dominio della morale si è costruito, stando a Nietzsche, a partire da presupposti ed errori inconsapevoli, che la stessa tradizione filosofica non ha mai messo in discussione. Questo compito può appartenere solamente ad una nuova filosofia di “spiriti liberi”, che assuma l’aspetto di una sorta di chimica delle idee e dei sentimenti morali, orientata all’individuazione analitica delle componenti. Ma questa analisi deve avvenire in maniera storica, ossia procedere a rintracciare le condizioni che hanno reso possibile il sorgere di queste idee, scoprendone l’origine e ricostruendone storicamente le trasformazioni. Si tratta, in altre parole, di elaborare una “genealogia della morale”, senza assumere l’uomo di oggi come un’entità fissa e immutabile nel tempo: anche l’uomo per Nietzsche, come tutte le cose, è divenuto e diviene. Ciò significa che non esistono valori assoluti, ma che i valori e le norme morali, alle quali la vita viene di volta in volta assoggettata, hanno la loro radice nella vita stessa e, quindi, sono il prodotto di fattori “umani, troppo umani”. Una filosofia storica è, dunque, in grado di mostrare che il mondo non possiede di per sò significato morale, ma lo ha assunto storicamente. Dare al mondo un significato morale significa, infatti, interpretare la natura in senso antropomorfico, ovvero orientata finalisticamente, proprio come l’agire umano, a realizzare scopi di per sò buoni, ma le nozioni di buono e cattivo sono estranee in quanto tali alla natura: “Il divenire è di per sò innocente”. La morale scaturisce, quindi, da una falsa interpretazione della natura, ossia da errori, che hanno portato l’uomo a distinguersi dagli animali e che si sono successivamente fusi con gli istinti, i quali non sono nò buoni nò cattivi e, sovente, in contraddizione tra loro. In particolare, l’uomo è stato educato alla moralità , secondo Nietzsche, tramite un processo che lo ha guidato ad attribuire a se stesso qualità puramente immaginarie, arrivando a concepirsi come un io sostanziale e unitario, che possiede una preminenza gerarchica sulla natura e sugli altri animali. In “Al di là del bene e del male”, Nietzsche precisa che alla base delle filosofie dogmatiche vi sono superstizioni popolari, come è quella circa l’esistenza dell’anima, oppure giochi di parole o, ancora, generalizzazioni arbitrarie a partire da pochi dati. Tale è anche la presunta certezza dell’ “io penso” cartesiano: è difficile infatti, se non impossibile, a parere di Nietzsche, che sia io a pensare, che debba esistere qualcosa che pensi e che pensare sia l’attività , e l’effetto di un essere concepito come causa del pensiero. Per sostenere ciò dovrei già sapere che cosa sia il pensare; nò si può escludere che un pensiero venga per iniziativa propria, non perchò sono io a volerlo. Tra queste concezioni illusorie e fallaci rientra l’errore fondamentale di pensare che esista una libertà del volere: da ciò scaturisce la credenza nell’esistenza di azioni morali di cui ciascuno sarebbe responsabile. Questa credenza presuppone che chi compie un’azione, la compia sulla base di una conoscenza. In questo senso Socrate e Platone avevano avuto il pregiudizio che alla retta conoscenza dovesse seguire la retta azione; ma questo, secondo Nietzsche, è continuamente smentito dai fatti, il che dimostra che non esiste ancora un ponte che unisca conoscenza e azione. Ciò significa che nello svolgimento dell’azione entrano in gioco fattori non riducibili alla sola conoscenza, i quali sfuggono all’agente: la scelta di compiere una certa azione non è mai, dunque, del tutto libera e consapevole. La conclusione cui Nietzsche perviene è che non si può dimostrare che il vero movente delle azioni risieda nella libertà del volere; esso va piuttosto ricercato nell’istinto di conservazione o, meglio, nell’istinto che spinge a procurarsi piaceri e ad evitare dolori. Ma, se è così, cade la possibilità di valutare moralmente un’azione sulla base del fatto che essa sia scelta liberamente. Quale è allora la base dei nostri giudizi morali? Alcune azioni dannose compiute nei nostri confronti sono da noi giudicate moralmente “cattive” in base all’assunto erroneo che chi le compie a noi sia dotato di una volontà libera: da questa nostra credenza scaturisce il desiderio di vendetta. In realtà queste azioni, che sembrano “cattive” a chi le subisce, sono compiute dall’agente al fine di procurare piacere a se stesso, non dolore a un altro; ma l’ errore intellettuale di credere che alla base delle azioni ci sia la libertà del volere porta ad attribuire maggior valore alle azioni considerate libere e, quindi, ad imputare all’agente libero gli effetti della sua azione anche sugli altri, attribuendogli la responsabilità di essi. Ma così, quando si formula un giudizio di valore su un’azione, non si assume più come unità di misura l’agente stesso e il fatto che tale azioni risulti utile o dannosa per lui, ma l’effetto di essa sugli altri, ovvero se è utile o dannosa per essi. Questo comporta l’acquisizione di una posizione di primato degli altri, ossia della società , rispetto all’individuo. Questo significa che la società per imporsi ha dovuto lottare contro la ricerca egoistica del piacere e dell’utile da parte degli individui e, per questa via, è pervenuta ad attribuire una superiorità di valore a moventi dell’azione diversi dall’utile e dal piacere. Si è così formata la credenza erronea che la morale non si sia sviluppata a partire dall’utilità , senza rendersi conto che non si è trattato di altro che della sostituzione e affermazione dell’utile sociale nei confronti dell’utilità puramente individuale. La società è così divenuta l’officina fondamentale dei giudizi di valore. Con l’avvento della società prende avvio l’istituzione di una gerarchia tra i beni: storicamente sono variate le entità considerate beni, ma la gerarchia di valore tra esse è sempre stata fondata, secondo Nietzsche, sulla distinzione tra i più forti che dominano e i più deboli che sono assoggettati, “i signori e gli schiavi”: i primi sono detti “i buoni” e i secondi “i cattivi”. Un’analisi dei termini, usati nelle varie lingue per designare chi è buono e chi è cattivo, mostra, a parere di Nietzsche, che per buoni s’intendevano originariamente i nobili, i più forti, i più ricchi e i più potenti e per cattivi, viceversa, i deboli, gli ignobili, i poveri, gli schiavi. Ciò confuterebbe la credenza che il giudizio di “buono” sia formulato originariamente da coloro ai quali è data prova di bontà , ossia dai destinatari di azioni altruistiche. In realtà , la matrice di questo giudizio è nei “buoni”, ossia nei più potenti, che in quanto tali giudicano se stessi buoni. Sono questi a vietare a tutti gli altri di agire arbitrariamente perseguendo il proprio piacere individuale, perchò ciò metterebbe a rischio il loro potere e la loro autorità . Bene o male è allora in primo luogo tutto ciò che, rispettivamente, garantisce e rafforza o minaccia e indebolisce il potere del gruppo dominante. Ciò che, in linea generale, induce i più ad accogliere la gerarchia dei valori imposta dai “signori” è la paura: in questa situazione essi non misurano le cose e le azioni in base al piacere o al dispiacere che esse procurano loro, ma fingono di condividere i giudizi di valore dominanti. Col tempo questi giudizi si trasformano in abitudini, inducendo ad attribuire un valore supremo al sacrificio di sò e all’altruismo. Ciò vuol dire che i più non fanno nulla per se stessi, ma soltanto per conformarsi ad un modello di uomo, che è solo una finzione costruita dalla società e da chi detiene il potere per il proprio vantaggio. Ogni azione è in sò unica, individuale e irripetibile, ma appena è compiuta coscientemente, non sembra più tale, bensì tende a conformarsi alle opinioni e ai valori della maggioranza, ovvero ad un modello imposto dalla società . Nella “Gaia scienza” dice Nietzsche: “Solo come animale sociale l’uomo imparò a diventare cosciente di sò”: la coscienza non appartiene all’uomo in quanto individuo, ma a ciò che di comunitario e gregario è in lui. E’ questo che lo induce a subordinarsi all’utile della comunità , dando luogo a quello che Nietzsche chiama “istinto del gregge”. Con l’introduzione della morale si apre dunque un solco fra la natura e la società , cosicchò la morale viene a configurarsi come strumento di dominio e repressione dell’individualità , soggiogata alla comunità . Con questa tesi, Nietzsche si oppone a ogni tentativo ottimistico di costruire una storia edificante, in cui l’istituzione della società , la formazione dell’etica e dello Stato rappresentino tappe di uno sviluppo lineare e di un progressivo perfezionamento dell’umanità rispetto ad una condizione primitiva e retrograda. Al contrario, secondo Nietzsche, la civiltà presente è divenuta solo una forma generale di addomesticamento.
- 1800
- Filosofia - 1800