LE PIANTE (Regnum Plantae o Embryobionta)
Le piante terrestri o Embryobionta sono organismi eucariotici pluricellulari con pareti costituite di cellulosa, clorofilla a e b e carotenoidi come pigmenti, amido come sostanza di riserva, presenza di cutina sulla superficie esterna. Il ciclo è aplodiplonte, ma le due generazioni (gametofito e sporofito) non sono rappresentate da individui completamente indipendenti ed esistono legami trofici tra di loro. Le meiospore sono dotate di parete ispessita; i gameti sono prodotti all’interno di gametangi pluricellulari (anteridi e archegoni). La riproduzione è oogama; la gamia avviene all’interno del gametangio femminile, dove si forma lo zigote che si sviluppa in un giovane sporofito (embrione) che dipende dal gametofito per il nutrimento. Non esiste riproduzione vegetativa per mezzo di mitospore o conìdi, mentre è diffusa quella per frammentazione. Si ritiene che le Embryobionta si siano originate a partire da organismi del tipo delle alghe verdi, a organizzazione pluricellulare, ciclo aplodiplonte e riproduzione oogama.
Seguendo il filo dell’evoluzione: l’emersione dall’acqua
Le spinte evolutive delle piante terrestri
Si può dire che il cammino evolutivo delle Piante (Embryobionta), a partire da quelle Alghe verdi che nel Paleozoico (circa 450 milioni di anni fa) tentarono l’avventura della vita in ambiente non acquatico, sia la storia di una serie di adattamenti sia vegetativi che riproduttivi all’aridità, a partire dagli originari organismi acquatici.
Le linee guida del processo sono state essenzialmente due:
– il raggiungimento di una maggiore produttività e resa della fotosintesi;
– il perfezionamento dei meccanismi riproduttivi.
È stata proprio la possibilità di una maggiore efficienza fotosintetica la molla che ha fatto scattare il lungo processo di emersione dall’acqua: i vantaggi dell’ambiente subaereo erano essenzialmente la maggiore disponibilità di CO2 e di luce e la mancanza di concorrenza. A fronte di questi indubbi vantaggi c’era però il problema di come garantire alle cellule clorofilliane l’approvvigionamento di acqua, l’altro fattore necessario per lo svolgimento della fotosintesi. In altre parole: come portare le cellule fotosintetizzanti fuori dall’acqua, garantendo loro l’apporto di acqua come se fossero sommerse? Nel corso del lungo cammino dell’evoluzione, la soluzione è consistita in pratica nel rinchiudere progressivamente l’ambiente acquatico all’interno dell’organismo, anziché averlo a disposizione all’esterno.
Quanto all’affinamento dei processi riproduttivi, questi sono legati all’essenza stessa dell’evoluzione, che consiste nel premiare con una discendenza più numerosa quell’individuo, cioè quell’insieme di caratteri (forme e funzioni), che risulta più adatto ad un determinato ambiente. Ma forme e funzioni non sono altro che l’espressione di combinazioni geniche; e quindi la possibilità di evoluzione di nuove forme sarà legata alla possibilità di esprimere nuove combinazioni da sottoporre alla sperimentazione della selezione. D’altra parte, le nuove combinazioni geniche si originano nei processi di ricombinazione genetica che avvengono in sede di meiosi (riassortimento e crossing-over) e di gamia (costituzione di nuove coppie di cromosomi) e che sono quindi legati alla riproduzione sessuale. Di conseguenza, quanto più sono efficienti e rapidi i meccanismi riproduttivi, tanto maggiore sarà la possibilità di insorgenza di nuove combinazioni da sottoporre al vaglio della selezione.
È sotto l’azione della pressione esercitata soprattutto da queste due spinte evolutive principali che le piante svilupperanno soluzioni innovative. La diversità delle forme vegetali che sono presenti oggi sulla Terra è il risultato dell’azione della selezione sulle innumerevoli soluzioni comparse nel corso dell’evoluzione. Di queste, la stragrande maggioranza non ha avuto nessun seguito, perché rappresentava un peggioramento, cioè una soluzione meno adatta alle condizioni ambientali del momento. Altre hanno avuto uno sviluppo più o meno esteso nel tempo e sono poi scomparse (estinzione di interi gruppi di vegetali), in seguito al cambiamento delle condizioni ambientali e/o alla comparsa di forme più adatte, evolutivamente vincenti. Solo una piccolissima parte delle forme comparse sulla terra sono ancora presenti: alcune quasi immutate rispetto ai predecessori presenti milioni di anni fa, perché tuttora adatte al proprio ambiente di vita; altre come risultato di ulteriori evoluzioni. Si può dire che ogni gruppo vegetale attuale rappresenti una innovazione premiata dalla selezione, o in altre parole una tappa evolutiva.
Come risolvere il problema dell’approvvigionamento di acqua?
Il primo problema che si trova ad affrontare il vegetale al momento dell’emersione dall’acqua è la difesa dal disseccamento: si sa bene che un’alga portata a terra si dissecca rapidamente. La prima soluzione adottata dalle piante terrestri è stata la cutinizzazione delle pareti esterne per renderle impermeabili: la cutina è una sostanza presente in tutte le Embryobionta. Un ulteriore passo evolutivo è stata la comparsa di tessuti specializzati nella protezione: un’epidermide cuticolarizzata nelle forme erbacee, i tessuti secondari di protezione (sughero) quando compaiono delle forme legnose. Naturalmente era necessario che la protezione non impedisse gli scambi gassosi con l’esterno, necessari al metabolismo della pianta. Ecco che quindi sulla superficie impermeabilizzata sono comparse delle piccole aperture, inizialmente molto semplici e poi via via sempre più complesse, fino ad arrivare a stomi con apertura regolata dal turgore delle cellule di guardia. Questi si ritrovano in forma abbastanza simile in tutte le piante terrestri, a partire dagli sporofiti di alcune Briofite.
Cosa c’entrano il ciclo ontogenetico e il rapporto fra sporofito e gametofito?
Le piante terrestri sono tutte aplodiplonti. Gametofito e sporofito fuori dall’ambiente acquatico hanno seguito due cammini evolutivi molto diversi, in funzione del diverso destino delle cellule da loro prodotte: rispettivamente, gameti e spore.
I gameti hanno come funzione quella di unirsi nella gamia. Per questo motivo non possono certo dotarsi di una parete spessa e impermeabile, che impedirebbe la fusione delle due cellule: la gamia deve quindi necessariamente avvenire in ambiente umido. Se questo non è un problema in ambiente acquatico, le cose si fanno più difficili nelle piante terrestri, che svilupperanno soluzioni per far sì che la gamia avvenga sempre in ambiente protetto e mai direttamente in ambiente subaereo. Il tipo di gamia premiato dalla selezione in ambiente terrestre è l’oogamia, dove almeno uno dei due gameti (l’oosfera) resta immobile, non viene mai liberata all’esterno e può essere costantemente protetta dal gametangio femminile (archegonio).
Dal momento che i gameti non possono avere una parete spessa e impermeabile, sono cellule particolarmente esposte al rischio di disseccamento. Ecco perché il gametofito delle piante terrestri sarà obbligato a vivere in ambiente umido, e finché sarà costituito da un organismo indipendente dallo sporofito (Briofite), dovrà crescere appressato al suolo, con portamento plagiotropo.
Le spore, invece, hanno la funzione di diffondere l’organismo, almeno nelle prime forme di vita terrestre. Potendosi difendere dal disseccamento per mezzo di una spessa parete impermeabile e resistente costituita di sporopollenina, le spore possono sfruttare il vento come vettore per rendere la diffusione più efficiente e portare la specie a colonizzare territori più lontani. Inoltre, poiché la diffusione per mezzo delle spore è avvantaggiata da una maggiore elevazione, lo sporofito subirà una forte pressione selettiva verso lo sviluppo in altezza e il portamento ortotropo.
Così i destini delle due generazioni si separano fin dall’inizio, ma il cammino evolutivo delle piante terrestri ha selezionato organismi che hanno scelto due strade evolutive diverse: la prevalenza del gametofito nelle briofite, quella dello sporofito nelle piante vascolari (tracheofite).
LE BRIOFITE (Bryophyta)
È probabile che le prime piante terrestri fossero organismi simili a briofite, comparsi in ambienti umidi vicini all’acqua. Ci sono tuttavia studiosi che ritengono possibile la derivazione delle briofite da tracheofite primitive. Nell'insieme, le briofite comprendono poco meno di 20.000 specie.
Si tratta di piante piccole, a crescita plagiotropa, prive di veri tessuti vascolari lignificati. L’assorbimento e il trasporto dell’acqua e dei soluti avvengono per capillarità e interessano tutta la superficie della pianta. Anche se mancano veri tessuti vascolari, in molti muschi (Bryopsida) e in alcune epatiche possono essere presenti cordoni centrali di cellule con funzione conduttrice: idroidi privi di protoplasma a maturità circondati da leptoidi, cellule vive con nuclei degenerati e pareti trasversali con perforazioni. Idroidi e leptoidi sono funzionalmente analoghi a xilema e floema, anche se meno efficaci e privi di funzione di sostegno, dal momento che mancano di ispessimenti di lignina. La fase dominante è il gametofito.
Riproduzione e ciclo. La diffusione avviene per mezzo delle meiospore. Queste sono tutte uguali fra loro (piante isosporee) e possono rimanere quiescenti per lunghi periodi in attesa delle condizioni di umidità favorevoli alla germinazione. In molte briofite, dalla spora si origina inizialmente un gametofito filamentoso poco differenziato (il protonema), simile nell’aspetto a un’alga verde ramificata. Dal protonema si sviluppa il gametofito adulto (detto anche gametoforo), che porta nelle forme più comuni formazioni laminari funzionalmente simili a foglie (foglioline o fillìdi), a disposizione in genere spiralata su strutture simili a piccoli fusti (fusticini o caulìdi). I fillìdi vengono da alcuni autori considerati vere foglie, ma si differenziano da queste essenzialmente per la mancanza di tessuti vascolari. Sono per lo più costituiti da un solo strato di cellule con cuticola sottilissima, nei muschi (Bryopsida) hanno una nervatura mediana e sono privi di stomi. Sui gametofori sono presenti anche i rizoidi, strutture piliformi uni- o pluricellulari il cui aspetto ricorda quello delle radici; i rizoidi hanno funzioni principalmente di ancoraggio al substrato e solo parzialmente di assorbimento. Esistono tuttavia gametofiti a organizzazione più semplice e di aspetto più simile a alghe laminari (forme “tallose” di epatiche e antoceroti, prive di organi differenziati simili a radice, fusto e foglia). I gametofiti adulti sono spesso micorrizzati e in genere hanno durata di vita pluriennale. I gameti vengono prodotti per mitosi entro gametangi avvolti da una parete pluricellulare: gametangi maschili (anteridi) e femminili (archegoni). Esistono briofite omotalliche o bisessuali o monoiche (cioè con gametofiti che portano anteridi e archegoni sullo stesso individuo) oppure eterotalliche o unisessuali o dioiche (solo anteridi o solo archegoni).
Nell’archegonio, che ha in genere una forma più o meno a fiasco, è contenuta una sola oosfera (chiamata anche ovocellula o uovo), che rimane immobile nella cavità basale (ventre) dell’archegonio. Negli anteridi vengono prodotti numerosi gameti maschili biflagellati (spermio spermatozoidi), che a maturità vengono espulsi dal gametangio e sfruttando un velo d’acqua nuotano fino al collo dell’archegonio, attratti da stimoli chemiotattici. Le cellule all’interno del collo e del ventre dell’archegonio gelificano, formando un mezzo liquido che consente l’arrivo del gamete maschile fino all’oosfera, la gamia (o fecondazione) e la formazione dello zigote e del successivo embrione, che si sviluppa all’interno dell’archegonio e viene da questo nutrito. La necessità della presenza di un velo d’acqua per consentire il percorso del gamete maschile fino all’archegonio è uno dei fattori che limitano la diffusione delle briofite ad ambienti umidi. Dall’embrione si sviluppa, senza che vi siano soste nell’accrescimento, lo sporofito adulto, costituito in genere da un piede inserito nel ventre dell’archegonio per l’assorbimento del nutrimento dal gametofito, da una seta non ramificata con funzione di sviluppo in altezza (in genere dotata di un cordone conduttore interno di idroidi e leptoidi) e da una capsula, dotata di stomi ad apertura regolabile e muniti di cellule di guardia. La capsula è costituita dallo sporangio, all’interno del quale avviene la meiosi con formazione delle spore. Lo sporofito è in genere di breve durata e rimane per tutta la sua vita ancorato al gametofito e dipendente almeno in parte da questo per il nutrimento. A maturità la capsula si apre, in genere con meccanismi di deiscenza regolati da meccanismi igroscopici (opercolo, peristoma) e libera le spore nell’aria. Nei muschi ogni capsula può contenere anche qualche milione di spore. Di alcune specie di briofite non si conosce lo sporofito: è possibile che si riproducano solo per via agamica.
È importante ricordare che nelle briofite ogni gametofito essendo aploide forma ogni anno gameti con corredo genico sempre identico, con grande limitazione delle possibilità di insorgenza di nuovi caratteri e quindi di evoluzione. Inoltre, nelle specie omotalliche che portano sia anteridi che archegoni sullo stesso gametofito, è estremamente probabile l’incontro di gameti identici, con formazione di sporofiti completamente omozigoti in cui i fenomeni di ricombinazione genica sono inefficaci, consistendo semplicemente nello scambio di cromosomi o di porzioni di cromosomi perfettamente identici. In questi casi, l’unica possibilità di comparsa di nuovi caratteri sarà legata alle mutazioni spontanee.
Le briofite possono propagarsi anche vegetativamente, per frammentazione del tallo o per formazione di gemme, gruppi di cellule specializzate destinate a questo scopo, che in alcune epatiche sono contenute in apposite strutture a forma di scodelletta poste sulla superficie del gametofito.
Sistematica. Le briofite comprendono i tre gruppi dei muschi, delle epatiche e degli antoceri, da molti considerati a livello di classi: Bryopsida, Marcanthiopsida e Anthocerotopsida. Altri autori le considerano invece come tre divisioni a sé stanti (Bryophyta, Marchantiophyta o Hepatophyta, Anthocerophyta), sulla base della convinzione condivisa da molti che le briofite non siano monofiletiche, cioè non si siano originate tutte a partire da un antenato comune.
Dei tre gruppi, i muschi (Bryopsida), con oltre 10.000 specie circa, sono il gruppo di briofite più diffuso ed a loro in particolare si riferiscono le caratteristiche descritte precedentemente. Comprendono il gruppo degli sfagni, che vivono negli ambienti acidi e freddi delle torbiere (vedi più avanti). Gli sfagni hanno pareti impregnate di fenoli, sostanze antisettiche che rendono i loro tessuti resistenti alla decomposizione.
Nelle epatiche (Marchantiopsida), che comprendono circa 8.000 specie, i gametofiti di aspetto nastriforme a morfologia dorsoventrale hanno portamento particolarmente appiattito al suolo. Possono essere fogliosi, ma con fillìdi privi di nervatura centrale, oppure privi di foglie e di aspetto talloso. Sull’epidermide possono essere presenti aperture (pori), funzionalmente simili a stomi rudimentali, ma privi di cellule di guardia e sempre aperti. Gli sporangi sono spesso privi di seta.
Nel piccolo gruppo delle Anthocerotopsida (solo un centinaio di specie al mondo) i gametofiti sono tallosi, di aspetto simile a quelli di alcune epatiche. Gli sporofiti a forma di corno e privi di seta sono verdi e fotosintetizzanti e hanno epidermide con stomi muniti di cellule di guardia. Questi sporofiti vivono per alcuni mesi, accrescendosi grazie ad un meristema intercalare presente alla base. Alcune specie ospitano simbiosi con cianobatteri azotofissatori.
Interesse ecologico e applicativo. Le briofite sono presenti in ambienti diversi, come il sottobosco delle foreste, i prati, le rocce, i tronchi degli alberi. Dal momento che non hanno radici o altri organi ipogei che si approfondiscono nel terreno, questi vegetali non necessitano di un terreno profondo e riescono a vivere anche dove è presente un substrato sottilissimo, purché vi sia umidità sufficiente. La mancanza di efficienti tessuti conduttori e la fisiologia della riproduzione (necessità di acqua per l’incontro dei gameti) limita infatti la loro diffusione a ambienti con presenza di umidità. La maggior parte delle briofite è tuttavia in grado di superare periodi anche prolungati di mancanza di acqua (e condizioni termiche estreme) in uno stato disidradato di vita latente, per poi riprendere la normale attività vegetativa nel giro di poche ore in presenza di acqua, grazie ad una grande capacità di assorbimento rapido. Questa capacità conferisce a molte briofite spiccate caratteristiche di piante pioniere. Questi organismi sono particolarmente diffusi ad elevate altitudini e latitudini, dove le piante vascolari non sono in grado di vivere (tundre artiche e alpine). In alcune cenosi forestali di climi freddi e umidi, come i boschi di abete rosso, le condizioni ambientali del sottobosco (elevata umidità e acidità, scarsa illuminazione, basse temperature) fanno sì che la vegetazione sia dominata da briofite, che svolgono anche un ruolo ecologico importante difendendo il terreno dall’erosione.Tipi di vegetazione come le torbiere sono dominati da sfagni e altre briofite. Spesso sono briofite le prime piante che colonizzano suoli vergini (rocce nude, lave), oppure innescano le successioni secondarie dopo gli incendi. Come altri organismi che assorbono attraverso tutta la superficie, anche molte briofite sono sensibili all’inquinamento e tendono a rarefarsi nelle città, dando luogo ai cosiddetti “deserti di briofite” degli ambienti urbani. Alcune briofite, sensibili selettivamente a determinati inquinanti, possono essere usate come bioindicatori.
L’interesse economico delle briofite è legato soprattutto all’utilizzazione della torba, materiale organico molto assorbente usato principalmente come substrato per la coltivazione delle piante, come ammendante del terreno, come combustibile e in passato anche come emostatico e disinfettante. La torba viene estratta dalle torbiere, che sono comunità dominate da muschi del tipo degli sfagni presenti in ambienti freddi e umidi e caratterizzate da un pH estrememente acido, anche inferiore a 4. L’acidità limita la crescita di altre piante e impedisce la decomposizione dei residui degli sfagni, che si accumulano a costituire la torba. Anche eventuali resti di altre piante e di animali vengono conservati quasi inalterati nelle torbiere, che sono quindi ambienti ideali per la raccolta di dati per gli studi paleontologici e in particolare paleobotanici: attraverso lo studio dei pollini fossili prelevati nei diversi strati delle torbiere è stato possibile sapere quali specie erano presenti nel passato in determinati territori e ricostruire le diverse vegetazioni succedutesi nel tempo. Le torbiere rappresentano habitat di notevole interesse naturalistico, che possono ospitare specie vegetali altamente specializzate (tra cui numerose piante insettivore) ad areale ristretto o frammentato. L’estrazione incontrollata della torba può rappresentare una minaccia per la sopravvivenza di questi habitat e attualmente in molti paesi è vietata o regolata per legge.
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