L’emigrazione Italiana fra Ottocento e Novecento
Emigrazione degli Italiani verso l’America alla fine dell’Ottocento e i suoi effetti sullo Stato Italiano
A partire dal 1885 iniziò la «grande emigrazione» degli Italiani verso l’America. Già nei decenni precedenti vi era stata un’emigrazione di una certa entità, ma essa era prevalentemente continentale (Francia, Svizzera, Austria, Germania) e stagionale, in quanto si ripeteva di anno in anno (un esempio è quello delle mondine, che nel periodo primaverile-estivo si spostavano da varie regioni verso le province di Vercelli, Novara e Pavia allo scopo di estirpare appunto le erbe cattive dalle risaie).
Le partenze transoceaniche e permanenti rappresentavano un fenomeno di scarsa consistenza: 6400 negli Stati Uniti dal 1820 al 1850; 8000 in Uruguay tra il 1835 ed il 1842.
Dopo il 1870 l’aumento della popolazione fece salire notevolmente il flusso migratorio continentale e transoceanico, con prevalenza del primo fino al 1895. Poi le partenze per i Paesi al di là dell’Atlantico prevalsero sempre più.
Intorno al 1880 si registrava una media annua di circa 109.000 emigranti; nel 1900 salirono a circa 310.000; nel 1913 furono addirittura 873.000. L’emigrazione riprese dopo la prima guerra mondiale, raggiungendo nel 1920 le 615.000 unità e si mantenne sempre alta fino al 1927, quando il fascismo chiuse il flusso migratorio.
In totale, tra il 1876 ed il 1925, lasciarono l’Europa più di 9 milioni di Italiani, e quasi altrettanti furono gli emigranti stagionali e quelli che lasciarono definitivamente la penisola pur rimanendo sul continente.
Gli Stai Uniti soprattutto, ma anche l’Argentina ed il Brasile, furono i principali Paesi di destinazione dei nostri emigranti. Oggi negli USA vi sono più di 6 milioni di abitanti di origine italiana e più di 5 milioni nell’America Latina.
Gli emigranti, nella stragrande maggioranza, erano contadini e braccianti poveri e analfabeti cacciati dai loro paesi dalla disoccupazione e dalla fame. Parteciparono inizialmente all’emigrazione le zone montuose dell’Abruzzo, poi anche le parti pianeggianti del Tirreno e dello Jonio, le zone meno fertili della Campania e tutte le zone montagnose e quelle dominate dalla malaria. Le Puglie contribuirono soprattutto con le province di Foggia e Lecce; molto intensa fu l’emigrazione dalla Basilicata e dalla Calabria; l’esodo dalla Sicilia fu inizialmente lento, ma ben presto raggiunse punte altissime; minore invece fu l’apporto della Sardegna, per il secolare spirito di sacrificio e per la fierezza di quella popolazione. Altissime furono anche le partenze dal Veneto, in cui la pellagra infieriva sui miseri contadini.
L’emigrazione era vista con favore dal Governo, che però non fece nulla per assistere e per tutelare in qualche modo gli emigranti. L’atteggiamento favorevole della nostra classe politica scaturiva dal presupposto che le rimesse degli emigranti sarebbero servite per affrontare e risolvere i secolari problemi del Mezzogiorno e delle altre zone depresse della penisola.
In effetti, oltre alle rimesse che ammontarono nel periodo 199/1913 a 2 miliardi e 700 milioni di lire di allora, trassero un vantaggio indiretto dall’emigrazione anche coloro che restarono nella terra natìa, perché il salasso di manodopera fece lievitare le paghe dei braccianti agricoli. A ciò si aggiunse un certo risveglio del Meridione sotto lo stimolo delle nuove idee, dell’esempio di intraprendenza che gli emigranti, quando tornavano in Patria, definitivamente o per far visita ai parenti, portavano nei loro paesi.
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