L’esclusa è il primo romanzo di Luigi Pirandello (1867-1936), pubblicato nel 1901. L’autore non ha ancora la ricchezza di interessi e l’attitudine decisa che verrà sviluppando nelle novelle e poi affermando nel teatro, ma cerca la sua strada nel gusto ancora naturalistico del tempo. Marta Ajala, la protagonista, viene scacciata di casa dal marito dietro il sospetto d’un tradimento, che si riduce invece a qualche lettera appassionata e filosofeggiante che le indirizza un raffinato intellettuale del luogo, Gregorio Alvignani, deputato al Parlamento. Creduta colpevole da tutti e perfino dal padre, Francesco Ajala, che, quando la figlia si rifugia presso di lui, si chiude in un isolamento ostinato mandando in rovina i suoi affari e morendo all’improvviso d’un colpo al cuore, Marta, dopo avere cercato invano di guadagnare in pace la vita nel paese per sé e per la madre, accetta un posto di maestra a Palermo. Ma qui, giovane, bella, circondata dall’ammirazione e dalle galanterie dei suoi colleghi, diventa davvero la facile vittima dell’Alvignani, incontrato di nuovo per caso. Così quando Rocco, il marito, convintosi alla fine dell’innocenza della moglie, corre a richiamarla presso di sé e trova anzi nell’Alvignani un inaspettato patrocinatore della riconciliazione, Marta, in uno scatto di avvilimento e di disperazione, deve confessargli la verità. Ora Rocco, pur sentendo un improvviso ribrezzo per la donna tanto desiderata, non ha la forza di allontanarla ancora da sé, e dinanzi al cadavere della madre, morta nella miseria e nell’abbandono perché suo padre ha compiuto verso di lei lo stesso gesto che egli ha compiuto nei riguardi di Marta, le chiede perdono, con vergogna e violenza, e la supplica di restare con lui.
Dall’Esclusa, il Pirandello ricavò nel 1919 la commedia L’uomo, la bestia e la virtù.
La prima fase della narrativa pirandelliana: il lento abbandono del verismo e la deformazione grottesca del reale
La parabola narrativa di Luigi Pirandello ci aiuta a definire alcuni caratteri evolutivi della narrativa italiana di fine secolo nel suo progressivo distacco dai modelli del verismo. La poetica che si regge sulla presunta obiettività del reale, decifrabile nel rigoroso intreccio di cause ed effetti dei singoli eventi umani e fenomeni sociali, viene sentita dall’autore come un inaccettabile vincolo strutturale, che non consente di elaborare compiutamente, a livello narrativo e poi teatrale, una profonda ed esauriente analisi delle ragioni del vivere, sotto il profilo della sua complessità e problematica drammaticità.
Il romanzo verista, pur nella varietà dei suoi esiti regionali, ben lontani dal rigore “scientifico” del naturalismo francese, aveva caratterizzato il panorama artistico italiano degli anni ’80 e ’90 . Le tematiche, accanto al bozzettismo ed alla descrizione attenta di ambienti e figure della piccola borghesia e delle classi popolari, si erano orientate con Luigi Capuana anche verso l’analisi di passioni abnormi e patologiche, verso l’esame di psicologie contorte. Tale interesse, che per altra via era già stato di Fogazzaro in “Malombra”, porta l’artista a seguire rigorosamente le vicende a partire dalle loro lontane cause fino ai loro estremi drammatici effetti. Tali vicende vengono presentate come esempi di ad una realtà umana scientificamente studiabile, osservabile, clinicamente interpretabile.
“Giacinta” il romanzo di Capuana, pubblicato nel 1879, testimonia chiaramente il tentativo della narrativa italiana di avvicinarsi alle teorizzazioni del naturalismo francese, imitando in qualche modo il “romanzo sperimentale” di Zola. La forte considerazione di Capuana per il medico e pensatore Camillo De Meis, fervente positivista, si affianca all’influsso decisivo del fisiologo francese Claude Bernard, ispiratore del metodo sperimentale adottato dal romanzo naturalista di Zola e dei Goncourt, teorizzato da Ippolite Taine. Sarà proprio per esortazione e consiglio di Capuana che Pirandello nel 1893 inizierà la composizione di “Marta Ajala” il suo primo romanzo, che poi sarà pubblicato nel 1901 con il titolo de “L’esclusa”. Come vedremo, anche questo romanzo, per il tipo di vicenda presentata – la triste storia di una donna, ripudiata dal marito per un adulterio non commesso, emarginata dalla famiglia e dalla società per la presunta colpa e poi riaccettata proprio nel momento in cui essa tradisce per bisogno – può in qualche modo riallacciarsi alla tipologia sopraccennata, soprattutto per l’incisività con la quale Pirandello studia il carattere di Marta e la sua particolare reazione all’isolamento sociale.
La nostra analisi tenterà di focalizzare le due prospettive fondamentali della narrazione pirandelliana .Da un lato la forza quasi “documentaria”, con cui viene palesata l’esistenza di pregiudizi culturali inammissibili contro la donna nella Sicilia dell’Ottocento, cementati da un malinteso senso dell’onore; per altro verso la tragica lotta di un essere , debole e solo, che cerca vanamente di conservare una sua dignità sociale e una sua coerente identità di persona. Da un lato un interesse di stampo naturalistico e quasi “sociologico” per il caso, il “documento umano” culturalmente e regionalmente tipizzato,dall’altro un più originale e pirandelliano interesse per le ragioni interne dell’agire, un primo avvio all’analisi psicologica della contorta e scomoda condizione esistenziale, universalmente considerata.
In questo difficile equilibrio consiste quello che definiamo il lento abbandono del verismo nella narrativa pirandelliana e l’approdo ad una deformazione grottesca della realtà, che sovverte ogni prevedibilità, ogni rapporto di cause ed effetti scientificamente definibili. La indubbia originalità della vicenda consiste infatti nella sua inaspettata conclusione, nel ribaltamento di ogni logica interna alla morale tradizionale. E il tutto affiancato da un pessimismo amaro sui possibili spazi di libertà riservati ai singoli. Tali spazi sono inesistenti e come un tragico fato incombe su ognuno. Marta è condannata ad essere ciò che la società presuppone erroneamente di lei, Rocco, il marito , è costretto ad accettare una donna totalmente “altra ” rispetto a quella che aveva sognato di riavere.
E’ difficile dunque ricondurre la valenza fondamentale dell’opera e l’inesorabile determinismo della vicenda ai canoni del naturalismo, piuttosto che alle dinamiche dello psicologismo pirandelliano. Tentiamo pertanto di allargare un po’ il discorso.
Non va dimenticato lo spiccato regionalismo della nostra narrativa di fine secolo. Esso è teso innanzitutto a cogliere il profondo legame che unisce l’uomo ad un certo tipo di ambiente naturale ed ad un certo tipo di società. E’ questo legame che consente la precisa caratterizzazione dei personaggi a partire da una istintiva adesione alla cultura ed ai valori della loro terra.
Il modello proposto da Verga con il suo ciclo di romanzi e soprattutto con le sue novelle continua ad operare in profondità, seppur attraverso importanti e sostanziali evoluzioni.
La più evidente è forse quella di Gabriele D’Annunzio, che carica ed esaspera a tal punto l’istintualità dei suoi personaggi (“Novelle della Pescara”, le tragedie di argomento abruzzese), così da mettere in ombra la serietà dell’analisi obiettivante dei rapporti tra soggetto-ambiente naturale e contesto sociale.
Anche Pirandello mutua elementi di quella cultura, che, sul finire dell’Ottocento, non cessa di sentire gli influssi del regionalismo verista. La Sicilia entra prepotentemente nell’immaginario pirandelliano, come terra natale, sede di storia – “I vecchi e i giovani” – e di valori antropologicamente condivisi. Questa terra ha una sua originalità ed una sua integrità, una sua omogeneità di tradizioni, di valori e di linguaggi che Pirandello ripetta. Si pensi, a questo proposito alla sua tesi di laurea sulla fonetica dei dialetti di Girgenti ed alla prima produzione teatrale in dialetto, oltre ai numerosissimi personaggi, ambienti e situazioni che sono mutuati dall’ambiente isolano (Sciascia ricorda come molti dei cognomi dei personaggi pirandelliani siano rintracciabili ancor oggi nell’elenco telefonico di Agrigento, di Girgenti, di Porto Empedocle).
La Sicilia è anche del resto terra di superstizioni e di vuoti formalismi, di religiosità un po’ ottusa, limpida metafora della contraddittoria vicenda umana, densa di umori sotterranei e di misteriosi significati, metafora molto adatta a demistificare le insulse convenzioni sociali, a smascherare la “Forma” che cela l’autenticità della “Vita” operante silenziosamente in ciascuno di noi.
E’ certo da esaminare più sistematicamente l’influenza che l’ambiente siciliano, con le sue connotazioni e le sue rigide strutture sociali, operò sulla evoluzione del pensiero di Pirandello. Per ora basti ricordare che nelle prime sue opere le tracce di questa cultura sono maggiormente evidenti; esse costituiscono il punto di partenza per l’analisi del vivere umano, forse non ancora universalmente inteso, ma non certo soltanto tipizzato localmente.
Anche sotto questo aspetto appare interessante esaminare la vicenda di Marta Ajala. “L’esclusa” ci dà modo di cogliere alcune problematiche relative alla famiglia ed alla società della Sicilia dell’Ottocento con le sue tipiche connotazioni (chiusura del nucleo familiare di fronte alla comunità, obbedienza a pregiudizi, mancata solidarietà dei congiunti verso chi è vittima di un malinteso senso dell’onore, difficile identificazione e riconoscimento della figura femminile in ruoli socialmente utili).
Sotto tale punto di vista “L’esclusa ” parrebbe essere un romanzo tipicamente verista, centrato attorno all’esame di un “documento umano” esemplare di un contesto sociale ben delimitato.
Del resto il romanzo, se ben analizzato, astrae da tali rigide determinazioni e si apre ad una più larga interpretazione.
Esso ci illumina sulle ragioni più intime che creano contraddizioni insanabili all’interno del legame di coppia generalmente inteso, con una chiara critica all’istituto famigliare nel suo complesso, come sede alienata dei rapporti umani.
Anche se l’analisi appare ancora fortemente condizionata da precisi fattori culturali e storici (la Sicilia del tempo) si intravede infatti, implicitamente tra le righe, una problematica più vasta tipica delle opere mature.
Le scelte “esistenziali” appaiono obbligate e a determinarle non è solo il contesto sociale. Le relazioni umane sempre ed ovunque si intrecciano inautentiche e sfasate, tanto da far perdere significato alle scelte, ai sentimenti, alle coerenti aspirazioni ed agli ordinati programmi di vita. In questo senso “L’esclusa” è solo marginalmente un romanzo verista.
Gradualmente nell’opera di Pirandello si elaboreranno invenzioni e soluzioni narrative profondamente originali – non facilmente accettate dal pubblico – volte alla continua, disperata ricerca di significati da assegnare al cieco intreccio delle relazioni umane, dei sentimenti, delle passioni e soprattutto all’oscura impenetrabilità della coscienza. L’autore opererà scelte nuove di genere, passando dal romanzo al teatro, ed elaborerà strutture artistiche più complesse, dove il peso della meditazione e della riflessione, dell'”Umorismo” e del pessimismo si faranno più invadenti, lasciando meno spazio agli intrecci narrativi, volutamente resi imprevedibili e paradossali, problematici e aperti. Non è senza significato analizzare come nel primo romanzo di Pirandello tali elementi siano intuibili, seppur, come detto, ancora mascherati da un impianto narrativo sostanzialmente veristico.
Marta Ajala: l’impossibile emergere dell’identità femminile
“L’esclusa” appare divisa in due sezioni, ciascuna delle quali segmentata, rispettivamente in 14 e in 15 macrosequenze narrative. La figura di Marta Ajala campeggia con evidenza all’interno di una struttura narrativa, che non manca di lasciare spazio ad altri personaggi e ad una cornice socio-economica ed ambientale definita con assoluta precisione.
Il richiamo ad alcuni episodi del romanzo servirà a tratteggiare meglio il contesto in cui si matura il dramma della protagonista.
Tale dramma, seguito dall’autore nell’attenta articolazione del dato psicologico, è reso possibile, alimentato ed infine esasperato dai ciechi pregiudizi di una cultura e di un ambiente, che Pirandello ritiene doveroso studiare e rappresentare in tutte le sue manifestazioni. Non solo: il dramma di Marta è anche il dramma di altri personaggi, i quali si trovano ad essere vittime e produttori al tempo stesso di alienazione e sciocca autodistruttività. Se Marta è “l’esclusa” per eccellenza, chi fomenta acredine, spirito di rivalsa, chi giudica senza conoscere, chi rifiuta il confronto e la comunicazione si autoesclude da ogni forma di libertà e di felicità, si annienta scioccamente.
Il romanzo si apre con la squallida cena in casa Pentagora dopo il ritorno di Rocco, che ha abbandonato il tetto coniugale ed ha scacciato Marta per il presunto tradimento.
Qui si trovano riuniti il padre di Rocco, Antonio, anch’egli a suo tempo vittima del supposto tradimento della moglie Fana (scacciata di casa), il figlio Nicolino, che pare difendere la memoria della madre, la sorella Sidora e la strana Epponima, detta ironicamente Poponica, serva di casa Pentagora, “vera signora, caduta in bassa fortuna..” forse la prima figura “umoristica” del romanzo pirandelliano.
Rocco solo ed angosciato cerca invano comprensione per la sua situazione: si sente incerto, turbato ed estraneo alla vecchia casa. L’atmosfera è soffocante, si respira una vuota malinconia, una morale priva di prospettive.
Il vecchio Pentagora con malcelata arroganza e freddo cinismo parla del destino, per gli uomini della famiglia, di essere traditi dalle mogli. Tutte sante le donne prima di essere sposate, quindi, divenute mogli…”hanno per mestiere quello d’ingannare i mariti”. Rocco è vittima suo malgrado di questa rozza logica, che vede nella donna uno strumento di possesso. Il senso dell’onore violato non lascia spazio per alcuna condivisione di sentimenti, per alcuna comprensione delle ragioni degli altri.
Mentre la casa dell’adolescenza viene percepita come un rifugio amaro, in cui ogni spazio di vitalità e di amore non trova ragion d’essere, la casa coniugale abbandonata alla sua solitudine, ormai priva di presenze umane, viene ripensata per un momento da Rocco in tutta la sua spoglia bellezza quasi metafisica, aperta ai raggi lunari. E’ un momento: ben presto subentra un altro cruccio, quello costituito dalle dicerie del paese sul ripudio della moglie.
L’idea di un duello riparatore sembra aiutarlo a ritrovare una forza che, come persona, stenta davvero a provare.
Già in questa prima macrosequenza, apparentemente di impianto naturalistico ed organizzata con una scrittura volutamente impersonale, si avverte la frantumazione della realtà. Personaggi e situazioni rivelano in modo disarticolato l’esistenza di una dimensione illusoria del vivere, all’interno della quale si continua pur ad agire. Rocco ripugna certo di condividere la sciocca logica paterna della naturale infedeltà femminile e della predestinazione dei Pentagora a subire il tradimento coniugale, eppure si limita a vivere dolorosamente, nel suo animo, gli effetti dell’inconscia ribellione. In realtà subisce, fin dall’inizio la “cultura” del sospetto e della vendetta, accettando la prospettiva del ripudio come l’unica plausibile.
La serva Epponima (Poponica) è invece la prima emblematica oggettivazione dell’alienazione della donna,così come della sua possibile – e, per quella cultura, del tutto accettabile – degradazione sociale:
“Ed ecco la signora Poponica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrare tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole sconciate dal lavoro, in una giacca smessa dal padrone, legata per le maniche attorno alla vita a mo’ di grembiule. La tintura dei capelli, l’aria mesta del volto davano a vedere chiaramente che quella povera signora, caduta in bassa fortuna avrebbe forse desiderato di più che il disperato amplesso di quelle maniche vuote.”
Rocco rivive fino in fondo il suo dramma colloquiando con il professor Luca Blandino che tenta di dissuaderlo dal duello riparatore con l’Alvignani dall’alto della sua logica razionale meno legata ai pregiudizi sociali. Egli inoltre soffre ripensando al colloquio chiarificatore avuto con il padre di Marta, Francesco Ajala. Costui, uomo fiero, non aveva saputo dargli torto completamente per il comportamento tenuto verso la figlia: in cuor suo una semplice lettera poteva costituire una prova di colpevolezza più che sufficiente. La logica dell’onore macchiato dal sospetto di adulterio è senza dubbio operante anche in lui.
Il dramma di Marta è ampiamente analizzato in tutta la prima parte del romanzo. La giovane attende un figlio da Rocco, ma ora è costretta a vivere la gravidanza lontana dalla sua casa e dal marito. In famiglia non trova del resto alcuna comprensione per il suo stato. La madre Agata, completamente succube del marito, non sa offrire quel conforto spirituale di cui la figlia necessiterebbe, così come la più giovane sorella Maria, chiusa in una vuota religiosità, subisce passivamente la vergogna dello scandalo praticamente senza alcuna reazione.
Il personaggio che rivive, assecondandolo e subendolo assieme, più di ogni altro, il peso del pregiudizio contro la donna è comunque Francesco Ajala. Egli finisce, condividendo la logica della colpevolezza della figlia, di rivolgere contro se stesso e contro la sua famiglia tutta l’aggressività e la violenza di tale logica. Il ripudio della figlia da parte di Rocco, lo porta ad un vero e proprio autoannientamento fisico e psicologico. Rifiuta di vedere chiunque, misconosce la stessa funzione di padre, isolandosi nella sua stanza, rifiutando il cibo, rinunciando al lavoro e morendo miseramente la sera stessa in cui Marta partorisce un figlio senza vita.
Pirandello volutamente calca i toni tragici della vicenda
Marta, perso il figlio, stenta a guarire. La conceria, affidata dal padre, prima della morte, al nipote di Agata Paolo Sistri, fallisce, lasciando la famiglia nella miseria.
Gradualmente, attorno alla giovane, cadano tutte le forme di sostegno, viene meno ogni possibilità, seppur parziale, di realizzazione esistenziale, di ricostruzione della personalità.
Il precoce abbandono degli studi a sedici anni per il matrimonio con Rocco, voluto dalla famiglia, e realizzato senza vero amore, ha lasciato Marta insoddisfatta di sè, indifferente ad una vita che non ha mai sentito come sua. In questa prospettiva si spiega anche l’ingenua risposta alle lettere dell’Alvignani. Niente più che un gioco intellettuale, per sentirsi apprezzata più che corteggiata.
Nella situazione di isolamento ed abbandono, di bisogno economico e di evidente ostilità dell’ambiente esterno, Marta finisce per perdere ogni certezza, ogni valore ed ogni punto fermo del suo passato. La preghiera, la religiosità, la ricerca di perdono vengono rifiutate come vuote pratiche, superstiziose e false.
La stessa amicizia di Anna Veronica, una donna altrettanto sfortunata e perseguitata dalle preclusioni dell’ambiente, le appare insignificante. Marta ora è solo capace di rancore per chi l’ha accusata ingiustamente e per chi, come il padre, non ha saputo difenderne l’onore. Incomincia del resto a nutrire voglia di riscatto.
La famiglia, dipendente nei ruoli lavorativi esclusivamente dalla componente maschile, ora rischia di sfasciarsi. Il lavoro della donna può essere necessità e forma di realizzazione allo stesso tempo. Marta si prepara agli esami, che potrebbero abilitarla all’insegnamento, si ripresenta al Collegio, da cui era uscita sedicenne, sostiene le prove, le supera brillantemente, seppur tra l’indifferenza sdegnosa di quasi tutte le vecchie compagne. Ottenuto un posto di supplente temporanea, che risolve qualche problema economico, Marta deve subire però i nuovi attacchi della cittadinanza in riferimento alla sua dubbia moralità. Viene privata ripetutamente del posto di lavoro e costretta al trasferimento a Palermo.
L’aspetto più avvilente della situazione consiste nel fatto che Marta è in balia delle decisioni di un potere cieco, quello della burocrazia ministeriale- cooperante con il potere politico e mosso, in ultima analisi, dai pregiudizi locali- contro il quale essa nulla può fare.
Rocco Pentagora e l’Alvignani vogliono soccorrerla in qualche modo, ognuno con scopi non disinteressati. Il primo promettendo aiuto economico a lei ed alla famiglia, a patto che essa rinunci all’insegnamento. Intollerabile appare infatti lo scandalo provocato dalla sua pubblica presenza.
L’Alvignani la favorisce invece, con la sua influenza politica, presso gli ambienti romani, al fine di farle ottenere il trasferimanto a Palermo. In entrambi i casi Marta si sente usata, manovrata dagli uomini proprio come un oggetto, senza alcuna possibilità di costruirsi liberamente il suo futuro.
Da questo momento essa lotterà coraggiosamente per riappropriarsi della sua identità sociale, per riaffermare la sua personalità, con una scelta che vuole coraggiosa e non compromissoria.
Vivere del proprio lavoro in una città, che non la conosce e che forse saprà accettarla.
Nella seconda parte del romanzo Piarandello ci mostra Marta, appunto, impegnata a ricostruire una nuova vita per sé e per quanto rimane della propria famiglia, ritagliandosi uno spazio fatto di autoisolamento e di realizzazione nell’insegnamento. Il suo ruolo appare esclusivamente strumentale: quello di permettere la rinascita economica della famiglia e di ricostruire l’equilibrio psicologico ed esistenziale della madre e della sorella Maria.
“…Morta? Tutto morto per lei? Viva solamente per far vivere gli altri? Sì, sì, se ne sarebbe magari contentata se , esclusa così dalla vita, le avessero almeno concesso di vivere in pace dello spettacolo dolce e quieto di quella casetta, ch’era come edificata sul sepolcro di lei…”
Marta appare segnata da tale “morte” spirituale, che non cancella il suo dramma, e la inchioda ad un sacrificio doloroso.
All’inizio i migliorati rapporti con i colleghi, la nuova dimora tranquilla, la città meno pettegola sembrano realizzare, seppur parzialmente, i suoi desideri di quiete e serenità. La donna sembra non chiedere altro.
La vita però preme con la sua impetuosità. Marta è donna attraente ed entra, suo malgrado, all’interno di relazioni umane forti, diviene oggetto di attenzioni e poi di desideri di altri uomini, scatena passioni, sconvolge il misero equilibrio di esistenze disperate ed alla fine è costretta a prendere atto della impossibilità di autoescludersi dalla vita, rinnegandosi sul piano dei sentimenti.
Sperimenta in questa fase l’impossibilità di intrecciare relazioni soddisfacenti – che non siano legate all’idea dei possesso amoroso di lei, donna fascinosa e appetibile – e si ritrae quasi con ribrezzo dalle proposte amorose del professor Falcone, mentre deride altri suoi spasimanti, incontrati al Collegio dove insegna.
Si realizza con chiarezza il dramma dell’ incomunicabilità, o meglio dell’ incomprensibilità e frantumazione della realtà in tante pseudo verità irrelate.
Marta si “vede vivere” – l’espressione è pirandelliana – , di volta in volta, negli occhi della sorella Maria o in quelli della madre (che non intuiscono il suo dramma di solitudine e di esclusione dal mondo), in quelli dei colleghi di lavoro, i professori Nusco, Mormoni e Falcone, (diversamente invaghiti di lei) ed infine, purtroppo, ancora in quelli di Rocco Pentagora (venuto a Palermo alla ricerca di nuove prove di tradimento o forse solo per non essersi saputo staccare da lei).
E sempre Marta sa di essere inautenticamente giudicata, sa di apparire diversa da quella che è, coglie con dolore e angoscia come le attese degli altri siano totalmente prive di senso per lei, a lei del tutto estranee. Intanto la sua personalità si sfalda lentamente.
In alcune pagine del romanzo, appare nitido un concetto caro a Pirandello, teorizzato da lì a poco nel saggio intitolato “L’umorismo” (1908): il sentimento del contrario. Per evidenziare ancor meglio l’irriducibilità dei punti di vista dei personaggi, l’inconciliabilità delle esistenze dei singoli e contemporaneamente la dura necessità delle scelte di vita, l’autore mette in risalto certe paradossali contingenze, che richiamano, seppur indirettamente, i significati portanti della vicenda.
Il professor Falcone, brutto e deforme nella foggia dei piedi, corteggia con disperata tenacia Marta e ne è duramente respinto. La donna prova tutto il disgusto di quest’attenzione, che intuisce quasi morbosa. La sua solitudine, la sua esclusione dagli affetti veri, vengono offese dal rozzo corteggiamento dell’uomo, tanto che essa non riesce neppure a provare pietà per lui.
Eppure Falcone subisce un dramma di solitudine altrettanto totale ed amaro. Vive infatti con la vecchia madre ed un’anziana zia, che, fuori di senno, sognano la rinata giovinezza e attendono un nuovo del tutto utopico matrimonio. Falcone, intristito da questo clima di follia, ove si idoleggia vanamente solo la bellezza e la giovinezza, cupamente ostile verso la sua deformità non sa che esprimere goffamente i sentimenti. Il matrimonio, nella sciocca prefigurazione delle due donne – che lo vedono come unica salvezza nella vita-, nella disperata speranza del Falcone, nella triste disillusione di Marta appare come una farsa crudele, come un inganno, un’impossibile forma di comunione degli affetti.
La frustrazione di ogni tentativo di Marta di reinserirsi nel flusso vitale, rintracciando la sua vera identità di donna, appare crudelmente evidenziata nelle ultime sequenze narrative.
La giovane si sente improvvisamente incapace di rinunciare alla “vita”, quando l’Alvignani, stanco dell’attività politica e dei contrasti giornalieri, la cerca e dice di volerla. Per lui tutto ciò non è altro che ricerca momentanea di gratificazione, risposta al suo narcisismo. Marta gli si offre, quasi per protesta verso la società, che la considera donna perduta. Come tale si comporta, senza però avere dal suo gesto nè amore nè serenità. Essa tenta di rispondere al vuoto incombente del suo esistere, all’oscura minaccia dei nuovi sospetti di Rocco, alle orribili profferte amorose del professor Falcone. Ma scopre nell’Alvignani viltà e freddezza, che corrispondono in fondo al suo intimo disinganno.
Si prepara intanto la situazione paradossale per eccellenza: lo scambio dei ruoli tra i personaggi. E con esso la totale incomunicabilità, la tragedia di solitudini falsamente condivise.
Marta ha commesso, seppur senza vero amore per l’Alvignani l’adulterio di cui era stata falsamente accusata; Rocco la perdonerà proprio nel momento in cui la ritrova diversa dalle sue attese. Davanti alla madre morente di Rocco, si consuma il freddo abbraccio di una coppia non veramente ricomposta.
Marta non sa confessare la nuova indesiderata gravidanza, frutto del rapporto con l’Alvignani, mentre Rocco di fronte all’estrema solitudine – la morte della madre ha reciso gli ultimi rapporti vitali con la famiglia- rinuncia all’orgoglio ed alla gelosia.
Marta rinuncia al suicidio, estremo gesto di sconfitta, e si rifugia in un rapporto certo difficile da condividere se non impossibile. Le immagini della morte di Fana Pentagora – caduta in miseria dopo il ripudio del marito- rivissute momento per momento nella tragicità macabra dell’agonia, come prefigurazione della a sorte di ogni donna sola, la spingono, riluttante a cedere alle richieste di perdono di Rocco. Eppure Marta non sa e non vuole perdonare neppure adesso!
Sentiamo la protagonista consapevole del suo scacco vitale, dell’imposibilità di qualsiasi accomodamento, di qualsiasi compromesso, che non sia giustificato esclusivamente dal bisogno di pensare alla miseria incombente sulla madre e sulla sorella.
La conclusione è aperta: Marta silenziosa sul suo più recente inconfessabile passato, sanziona la sua recisa ostilità al marito, oppure lascia intravedere un cedimento comprensibile?
Non è solo la nuda dinamica dei fatti a guidare il lettore ai significati più intimi della vicenda, anche se la logica del”contrario”, l’amara paradossalità delle contingenze evidenziano forse meglio il pessimismo dell’autore.
Tutta la psicologia di Marta si delinea plausibile, crudelmente plausibile, nella sua evoluzione.
E’ l’immagine della morte a riavvicinarla a Rocco. La tragica agonia di Fana Pentagora appare come la metafora fondamentale della condizione femminile. La luce fioca dei ceri che circondano il feretro è quasi metafisico richiamo alla debolezza ed alla paura della solitudine che incombe su tutti i personaggi pirandelliani.
E l’autore mostra molta pietà per essi.
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