De Officiis, Libro 1, Par. da 1 a 5 - Studentville

De Officiis, Libro 1, Par. da 1 a 5

Libro 1 Paragrafo 1
Quamquam te Marce fili annum iam audientem

Cratippum idque Athenis abundare oportet praeceptis institutisque philosophiae propter summam et doctoris auctoritatem et urbis

quorum alter te scientia augere potest altera exemplis tamen ut ipse ad meam utilitatem semper cum Graecis Latina coniunxi

neque id in philosophia solum sed etiam in dicendi exercitatione feci idem tibi censeo faciendum ut par sis in utriusque

orationis facultate. Quam quidem ad rem nos ut videmur magnum attulimus adiumentum hominibus nostris ut non modo Graecarum

litterarum rudes sed etiam docti aliquantum se arbitrentur adeptos et ad dicendum et ad

iudicandum.

Libro 1 Paragrafo 2
Quam ob rem disces tu quidem a principe huius aetatis

philosophorum et disces quam diu voles; tam diu autem velle debebis quoad te quantum proficias non paenitebit. Sed tamen nostra

legens non multum a Peripateticis dissidentia quoniam utrique Socratici et Platonici volumus esse de rebus ipsis utere tuo

iudicio–nihil enim impedio–orationem autem Latinam efficies profecto legendis nostris pleniorem. Nec vero hoc arroganter

dictum existimari velim. Nam philosophandi scientiam concedens multis quod est oratoris proprium apte distincte ornate dicere

quoniam in eo studio aetatem consumpsi si id mihi assumo videor id meo iure quodam modo

vindicare.

Libro 1 Paragrafo 3
Quam ob rem magnopere te hortor mi Cicero ut non solum

orationes meas sed hos etiam de philosophia libros qui iam illis fere se aequarunt studiose legas–vis enim maior in illis

dicendi–sed hoc quoque colendum est aequabile et temperatum orationis genus. Et id quidem nemini video Graecorum adhuc

contigisse ut idem utroque in genere elaboraret sequereturque et illud forense dicendi et hoc quietum disputandi genus nisi

forte Demetrius Phalereus in hoc numero haberi potest disputator subtilis orator parum vehemens dulcis tamen ut Theophrasti

discipulum possis agnoscere. Nos autem quantum in utroque profecerimus aliorum sit iudicium utrumque certe secuti

sumus.

Libro 1 Paragrafo 4
Equidem et Platonem existimo si genus forense dicendi

tractare voluisset gravissime et copiosissime potuisse dicere et Demosthenem si illa quae a Platone didicerat tenuisset et

pronuntiare voluisset ornate splendideque facere potuisse; eodemque modo de Aristotele et Isocrate iudico quorum uterque suo

studio delectatus contempsit alterum. Sed cum statuissem scribere ad te aliquid hoc tempore multa posthac ab eo ordiri maxime

volui quod et aetati tuae esset aptissimum et auctoritati meae. Nam cum multa sint in philosophia et gravia et utilia accurate

copioseque a philosophis disputata latissime patere videntur ea quae de officiis tradita ab illis et praecepta sunt. Nulla enim

vitae pars neque publicis neque privatis neque forensibus neque domesticis in rebus neque si tecum agas quid neque si cum

altero contrahas vacare officio potest in eoque et colendo sita vitae est honestas omnis et neglegendo

turpitudo.

Libro 1 Paragrafo 5
Atque haec quidem quaestio communis est omnium

philosophorum. Quis est enim qui nullis officii praeceptis tradendis philosophum se audeat dicere? Sed sunt non nullae

disciplinae quae propositis bonorum et malorum finibus officium omne pervertant. Nam qui summum bonum sic instituit ut nihil

habeat cum virtute coniunctum idque suis commodis non honestate metitur hic si sibi ipse consentiat et non interdum naturae

bonitate vincatur neque amicitiam colere possit nec iustitiam nec liberalitatem; fortis vero dolorem summum malum iudicans aut

temperans voluptatem summum bonum statuens esse certe nullo modo potest.

Versione tradotta

Libro 1,

Paragrafo 1
Marco, figlio mio, so bene che tu, ascoltando già da un anno le lezioni di Cratippo, e per di più in

Atene, sei in possesso di un cospicuo bagaglio di precetti e dottrine filosofiche, grazie alla straordinaria autorità del

maestro e della città, (l'uno può arricchirti di scienza, l'altra di esempi); tuttavia, come io per mia utilità ho sempre

abbinato le lettere latine con le greche, e ciò non solo nel campo della filosofia, ma anche nella pratica dell'eloquenza,

penso che tu debba fare altrettanto, per usare con uguale disinvoltura l'uno e l'altro idioma. In questo campo io, se non

m'inganno, ho dato un grande aiuto ai miei connazionali, al punto che non solo coloro che ignorano di lettere greche, ma anche

i dotti ritengono d'aver raggiunto risultati non di poco conto nell'arte del ben parlare e del ben

pensare.

Libro 1, Paragrafo 2
Tu riuscirai ad apprendere dal principe dei filosofi

contemporanei, e apprenderai finché lo vorrai; dovrai volerlo fintanto che non sarai soddisfatto del tuo profitto; ma tuttavia,

leggendo i miei scritti, che non discordano molto dai Peripatetici, giacché gli uni e gli altri vogliamo essere Socratici e

Platonici, tu, quanto alle dottrine, userai liberamente il tuo giudizio personale (io non voglio impedirtelo affatto); ma

leggendo le cose mie renderai certamente più sicuro e più ricco il tuo stile latino. E non vorrei che questa mia affermazione

fosse ritenuta presuntuosa. Difatti, pur ammettendo che molti hanno la capacità di filosofare, se io rivendico a me ciò che è

proprio dell'oratore, cioè il parlare con proprietà, con chiarezza, con eleganza, credo di poterlo fare in certo qual modo con

pieno diritto, giacché a questo lavoro io ho dedicato tutta la mia vita

Libro 1, Paragrafo

3
Perciò ti esorto vivamente, o mio Cicerone, a leggere con amore non solo le mie orazioni, ma anche questi miei libri

filosofici, che ormai le uguagliano per mole e per numero: certo in quelle vi è un maggior vigore di stile, ma è ben degno

d'esser coltivato questo mio stile di scrittura piana e pacata. Francamente, a quanto mi è dato di vedere, nessuno dei Greci

ha avuto finora la fortuna di riuscire allo stesso modo nell'uno e nell'altro genere, coltivando a un tempo quel genere che è

proprio del foro, e questo, più tranquillo, che è proprio del ragionare, anche se non si può includere nel numero di costoro

Demetrio di Falereo, ragionatore sottile, oratore poco vigoroso, ma tuttavia piacevole, per cui si può riconoscere in lui un

discepolo di Teofrasto. Quanto a me, quale sia stato il mio contributo nell'uno e nell'altro genere, non sta a me giudicare;

in realtà io ho praticato entrambi i generi.

Libro 1, Paragrafo 4
Personalmente sono

convinto che Platone, se avesse voluto trattare il genere forense, sarebbe diventato un potentissimo ed eloquentissimo oratore,

e che Demostene, se avesse assimilato del tutto le dottrine apprese da Platone, e avesse voluto esporle, l'avrebbe fatto con

molta eleganza e splendore; e lo stesso giudizio esprimo su Aristotele e Isocrate; purtroppo sia l'uno che l'altro,

innamorato ciascuno della propria disciplina, tenne in poco conto quella dell'altro.
Ora, avendo io stabilito di scrivere

per te qualche cosa in questo periodo e molte altre in avvenire, ho voluto prendere le mosse proprio da quell'argomento che

più si addice e all'età tua e alla mia autorità. Difatti, tra le molte questioni filosofiche, importanti ed utili, trattate

con grande attenzione e ampiezza dai filosofi, a parer mio quelli che hanno la più larga e vasta applicazione sono gli

insegnamenti e i precetti tramandati da essi intorno ai doveri. In verità, non c'è momento della vita - sia negli affari

pubblici che nei privati, sia nei forensi che nei domestici, sia che tu tratti qualcosa per tuo conto sia che tu abbia che fare

con altri - non c'è momento che si sottragga al dovere anzi, così come nell'adempimento del dovere consiste tutta l'onestà

della vita, nell'inosservanza di esso risiede tutta la disonestà. E questo problema è comune a tutti i filosofi: infatti chi è

che potrebbe definirsi filosofo, senza dare alcun precetto d'ordine morale?

Libro 1,

Paragrafo 5
Ma ci sono alcune dottrine che, con la loro definizione del sommo bene e del sommo male, sovvertono ogni

concetto del dovere. Chi, difatti, definisce il sommo bene come del tutto disgiunto dalla virtù, e lo misura non col criterio

dell'onestà, ma con quello del proprio vantaggio, costui, se vuol esser coerente con se stesso, e non è trascinato talora

dalla bontà della propria indole, non potrà praticare né l'amicizia, né la giustizia, né la generosità: certo non può essere

in alcun modo forte, giudicando il dolore il male peggiore, né temperante, ponendo come sommo bene il piacere. E benché questi

principi siano così evidenti, che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione, io li ho ampiamente discussi

altrove.

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