Libro 1 Paragrafo 26
Maxime autem adducuntur plerique ut
eos iustitiae capiat oblivio cum in imperiorum honorum gloriae cupiditatem inciderunt. Quod enim est apud Ennium:
“Nulla sancta societas
Nec fides regni est”
id latius patet. Nam quidquid eiusmodi est in quo non possint plures
excellere in eo fit plerumque tanta contentio ut difficillimum sit servare sanctam societatem. Declaravit id modo temeritas C.
Caesaris qui omnia iura divina et humana pervertit propter eum quem sibi ipse opinionis errore finxerat principatum. Est autem
in hoc genere molestum quod in maximis animis splendidissimisque ingeniis plerumque existunt honoris imperii potentiae gloriae
cupiditates. Quo magis cavendum est ne quid in eo genere peccetur.
Libro 1 Paragrafo
27
Sed in omni iniustitia permultum interest utrum perturbatione aliqua animi quae plerumque brevis est et ad tempus
an consulto et cogitata fiat iniuria. Leviora enim sunt ea quae repentino aliquo motu accidunt quam ea quae meditata et
praeparata inferuntur. Ac de inferenda quidem iniuria satis dictum est.
Libro 1 Paragrafo
28
Praetermittendae autem defensionis deserendique officii plures solent esse causae. Nam aut inimicitias aut laborem
aut sumptus suscipere nolunt aut etiam neglegentia pigritia inertia aut suis studiis quibusdam occupationibusve sic impediuntur
ut eos quos tutari debeant desertos esse patiantur. Itaque videndum est ne non satis sit id quod apud Platonem est in
philosophos dictum quod in veri investigatione versentur quodque ea quae plerique vehementer expetant de quibus inter se
digladiari soleant contemnant et pro nihilo putent propterea iustos esse. Nam alterum [iustitiae genus] assequuntur ut
inferenda ne cui noceant iniuria in alterum incidunt; discendi enim studio impediti quos tueri debent deserunt. Itaque eos ne
ad rem publicam quidem accessuros putant nisi coactos. Aequius autem erat id voluntate fieri; nam hoc ipsum ita iustum est quod
recte fit si est voluntarium.
Libro 1 Paragrafo 29
Sunt etiam qui aut studio rei
familiaris tuendae aut odio quodam hominum suum se negotium agere dicant nec facere cuiquam videantur iniuriam. Qui altero
genere iniustitiae vacant in alterum incurrunt; deserunt enim vitae societatem quia nihil conferunt in eam studii nihil operae
nihil facultatum.
Libro 1 Paragrafo 30
Quando igitur duobus generibus iniustitiae
propositis adiunximus causas utriusque generis easque res ante constituimus quibus iustitia contineretur facile quod cuiusque
temporis officium sit poterimus nisi nosmet ipsos valde amabimus iudicare. Est enim difficilis cura rerum alienarum. Quamquam
Terentianus ille Chremes “humani nihil a se alienum putat”; sed tamen quia magis ea percipimus atque sentimus quae nobis ipsis
aut prospera aut adversa eveniunt quam illa quae ceteris quae quasi longo intervallo interiecto videmus aliter de illis ac de
nobis iudicamus. Quocirca bene praecipiunt qui vetant quicquam agere quod dubites aequum sit an iniquum. Aequitas lucet ipsa
per se dubitatio cogitationem significat iniuriae.
Versione tradotta
Ma i più perdono ogni senso e
ogni ricordo della giustizia, quando cadono in preda al desiderio del comando, degli onori e della gloria. Certo, quella
sentenza di Ennio:
" La brama del regno non conosce né santità di affetti né integrità di fede"
ha un suo ben più vasto
campo di applicazione. In verità, ogni stato e ogni grado che non ammetta supremazia di varie persone, diventa generalmente il
campo di contese così aspre che è assai difficile rispettare "la santità degli affetti". Chiara dimostrazione ne ha dato di
recente la temeraria azione di Gaio Cesare che ha sovvertito tutte le leggi divine e umane per quel folle ideale di supremazia
che egli s'era creato nella mente. E a questo riguardo è assai penoso vedere che sono gli animi più grandi e gl'ingegni più
splendidi quelli in cui per lo più si accendono i desideri d'onori, di comando, di potenza e di gloria. Tanto maggiore cautela
bisogna dunque usare per non commettere errori a questo riguardo.
27
Ma in ogni sorta d'ingiustizia è molto importante considerare se l'offesa viene fatta a causa di un forte
eccitamento dell'animo, che per lo più è breve e passeggero, o per meditato e deliberato proposito. Certo, sono più lievi le
offese che prorompono da qualche improvvisa passione, che non quelle che si fanno con premeditazione e calcolo. E così del
recare offesa ho detto abbastanza.
Parecchie sono le ragioni
che inducono gli uomini a trascurare l'altrui difesa, mancando così al proprio dovere: o non vogliono procurarsi inimicizie,
fatiche, spese, oppure la negligenza, la pigrizia, l'inerzia, o anche certe loro particolari inclinazioni e occupazioni li
trattengono in maniera che essi lasciano nell'abbandono quelli che invece essi avrebbero il dovere di proteggere. Temo
pertanto che non soddisfi appieno ciò che Platone dice a proposito dei filosofi, cioè che essi sono giusti appunto perché,
immersi nella ricerca del vero, tengono in poco e in nessun conto quelle cose che i più agognano con desiderio irrefrenabile,
quelle cose per cui vogliono combattere tra loro persino con le armi. Infatti, se da un lato essi rispettano parzialmente la
giustizia, in quanto non recano né danno né offesa ad alcuno, dall'altro essi la contrastano; infatti impediti dall'amore del
sapere, abbandonano proprio quelli che essi hanno il dovere di proteggere. Proprio per tale motivo i seguaci di Platone
ritengono che i filosofi non debbano neppure accostarsi alla vita pubblica, se non costretti. Molto meglio sarebbe, invece, che
vi si accostassero spontaneamente; perché anche un'azione retta non è giusta se non è
spontanea.
Vi sono anche di quelli che, o per desiderio di ben
custodire i propri beni, o per una certa avversione verso gli uomini, dichiarano di attendere soltanto ai loro affari, senza
credere perciò di far torto ad alcuno. Costoro, se sono esenti da una specie d'ingiustizia, incorrono però nell'altra:
abbandonano l'umana società, perché non dedicano ad essa né amore, né attività, né denaro.
Libro 1, Paragrafo 30
Noi poco fa abbiamo chiarito le due forme dell'ingiustizia, aggiungendovi le cause dell'una e
dell'altra; e prima ancora avevamo definito la vera essenza della giustizia; sicché ora potremo facilmente determinare quali
siano i nostri particolari doveri nelle singole circostanze, se non ci farà velo l'eccessivo amore di noi stessi: perché è ben
difficile il prendersi a cuore gl'interessi altrui. Ha un bel dire Cremete di Terenzio:
"Sono uomo: non c'è nulla di
umano che non mi riguardi";
ma tuttavia, poiché ci toccano ben più i sensi e il cuore le fortune e le sfortune nostre che
non quelle degli altri (queste noi le vediamo, per cosi dire, a gran distanza), diverso è il giudizio che facciamo di di quelli
e di noi. Saggio perciò è il consiglio di chi ci ammonisce di non far cosa alcuna della cui giustizia o ingiustizia siamo in
dubbio. La giustizia risplende di un suo proprio splendore; il solo dubbio implica sempre un sospetto
d'ingiustizia.
- Letteratura Latina
- De Officiis di Cicerone
- Cicerone