Libro 1 Paragrafo 36
Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali
populi Romani iure perscripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum nisi quod aut rebus repetitis geratur aut
denuntiatum ante sit et indictum. [Popilius imperator tenebat provinciam in cuius exercitu Catonis filius tiro militabat. Cum
autem Popilio videretur unam dimittere legionem Catonis quoque filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed cum amore
pugnandi in exercitu remansisset Cato ad Popilium scripsit ut si eum patitur in exercitu remanere secundo eum obliget militiae
sacramento quia priore amisso iure cum hostibus pugnare non poterat.
Libro 1 Paragrafo
37
Adeo summa erat observatio in bello movendo.] M. quidem Catonis senis est epistula ad M. filium in qua scribit se
audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello Persico miles esset. Monet igitur ut caveat ne proelium ineat;
negat enim ius esse qui miles non sit cum hoste pugnare. Equidem etiam illud animadverto quod qui proprio nomine perduellis
esset is hostis vocaretur lenitate verbi rei tristitiam mitigatam. Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur quem nunc
peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad
hanc mansuetudinem addi potest eum quicum bellum geras tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen durius effecit iam
vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo qui arma contra ferret remansit.
Libro 1
Paragrafo 38
Cum vero de imperio decertatur belloque quaeritur gloria causas omnino subesse tamen oportet easdem
quas dixi paulo ante iustas causas esse bellorum. Sed ea bella quibus imperii proposita gloria est minus acerbe gerenda sunt.
Ut enim cum civi aliter contendimus si est inimicus aliter si competitor (cum altero certamen honoris et dignitatis est cum
altero capitis et famae) sic cum Celtiberis cum Cimbris bellum ut cum inimicis gerebatur uter esset non uter imperaret cum
Latinis Sabinis Samnitibus Poenis Pyrrho de imperio dimicabatur. Poeni foedifragi crudelis Hannibal reliqui iustiores. Pyrrhi
quidem de captivis reddendis illa praeclara:
Nec mi aurum posco nec mi pretium dederitis
Nec cauponantes bellum sed
belligerantes
Ferro non auro vitam cernamus utrique.
Vosne velit an me regnare era quidve ferat Fors
Virtute
experiamur. Et hoc simul accipe dictum:
Quorum virtuti belli Fortuna pepercit
Eorundem libertati me parcere certum est.
Dono ducite doque volentibus cum magnis dis.
Libro 1 Paragrafo 39
Regalis
sane et digna Aeacidarum genere sententia. Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt est in eo ipso
fides conservanda ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis cum de captivis commutandis Romam missus esset iurassetque se
rediturum primum ut venit captivos reddendos in senatu non censuit deinde cum retineretur a propinquis et ab amicis ad
supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere.
Libro 1 Paragrafo
40
Regalis sane et digna Aeacidarum genere sententia. Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt
est in eo ipso fides conservanda ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis cum de captivis commutandis Romam missus esset
iurassetque se rediturum primum ut venit captivos reddendos in senatu non censuit deinde cum retineretur a propinquis et ab
amicis ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere.
Versione tradotta
E
appunto la regolare condotta della guerra è stata scrupolosamente definita dal diritto feziale del popolo romano. Da ciò si può
dedurre che non è guerra giusta se non quella che si combatte o dopo aver chiesto riparazione dell'offesa, o dopo averla
minacciata e dichiarata. [Era a capo d'una provincia il comandante Popilio, nel cui esercito militava come coscritto il figlio
di Catone. Parve opportuno a Popilio congedare una legione, e quindi congedò anche il figlio di Catone che a quella legione
apparteneva. Ma poiché, per desiderio di combattere, egli volle rimanere nell'esercito, Catone scrisse a Popilio che, se
permetteva a suo figlio di restare, l'obbligasse a prestare un secondo giuramento militare perché, sciolto dal primo, non
poteva legittimamente combattere col nemico]. Tanto rigorosa era l'osservanza del diritto anche nella condotta della
guerra.
[C'è una lettera del vecchio Catone al figlio Marco,
nella quale scrive d'aver saputo che egli era stato congedato dal console, mentre si trovava come soldato in Macedonia, nella
guerra contro Perseo. L'ammonisce dunque di guardarsi bene dall'entrar in battaglia: " non è giusto - dice - che chi non è
soldato, combatta col nemico".]Voglio anche osservare che, chi doveva chiamarsi, con vocabolo proprio, perduellis ("nemico di
guerra"), era invece chiamato hostis ("straniero"), temperando così con la dolcezza della parola la durezza della cosa. Difatti
i nostri antenatii chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus ("forestiero"). Ne danno prova le dodici tavole:
Aut status dies cum hoste ("o il giorno fissato, per un giudizio, con uno straniero"), e cosi ancora: Adversus hostem aeterna
auctoritas ("Verso lo straniero l'azione giuridica non è soggetta a prescrizione"). Che cosa si può aggiungere a una così
grande mitezza? Chiamare con un nome così benigno colui col quale si combatte! E' ben vero che ormai il lungo tempo trascorso
ha reso questo vocabolo assai più duro: esso ha perduto il significato di forestiero per indicare propriamente colui che ti
vien contro con l'armi in pugno.
Quando, poi, si combatte
per la supremazia, e con la guerra si cerca la gloria, occorre che anche allora le ostilità siano aperte per quelle stesse
ragioni che, come ho detto poco fa anzi, sono giuste ragioni di guerra. Queste guerre, però, che hanno come scopo la gloria del
primato, si devono condurre con meno asprezza. Come, con un cittadino, si contende in un modo, se è un nemico personale, in un
altro, se è un competitore politico (con questo la lotta è per l'onore e la dignità, con quello per la vita e il buon nome),
cosi coi Celtiberi e coi Cimbri si guerreggiava come con veri nemici, non per il primato, ma per l'esistenza; per contro, coi
Latini, coi Sabini, coi Sanniti, coi Cartaginesi, con Pirro si combatteva per il primato. Fedifraghi e spergiuri furono i
Cartaginesi, crudele fu Annibale; più giusti gli altri. Splendida fu davvero la risposta che Pirro diede ai nostri legati sul
riscatto dei prigionieri: "Io non chiedo oro per me, e voi a me non offrirete riscatto. Noi non facciamo la guerra da mercanti,
ma da soldati: non con l'oro, ma col ferro decidiamo della nostra vita e della nostra sorte. Sperimentiamo col valore se la
Fortuna, arbitra delle cose umane, conceda a voi o a me l'impero; o vediamo se altro ci arrechi la sorte. E ascolta anche
queste altre parole: è mio fermo proposito lasciare la libertà a tutti quelli, al cui valore la fortuna delle armi lasciò la
vita. Ecco, riprendeteli con voi: io ve li offro in dono col favore del cielo". Parole veramente regali e degne di un
Eacida.
Ancora. Se le singole persone, costrette dalle
circostanze, fanno qualche promessa al nemico, devono scrupolosamente mantenerla. Così, per esempio, nella prima guerra punica,
Regolo, caduto in mano dei Cartaginesi, fu mandato a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri, sotto giuramento che sarebbe
ritornato. Come giunse, per prima cosa, dichiarò in senato che non bisognava restituire i prigionieri; poi, benché i parenti e
gli amici cercassero di trattenerlo, egli volle tornare al supplizio piuttosto che violare la parola data al
nemico.
Ancora. Se le singole persone, costrette dalle
circostanze, fanno qualche promessa al nemico, devono scrupolosamente mantenerla. Così, per esempio, nella prima guerra punica,
Regolo, caduto in mano dei Cartaginesi, fu mandato a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri, sotto giuramento che sarebbe
ritornato. Come giunse, per prima cosa, dichiarò in senato che non bisognava restituire i prigionieri; poi, benché i parenti e
gli amici cercassero di trattenerlo, egli volle tornare al supplizio piuttosto che violare la parola data al
nemico.
- Letteratura Latina
- De Officiis di Cicerone
- Cicerone