“Arcem tu quidem Stoicorum” inquam “Quinte defendis siquidem ista sic reciprocantur ut et si divinatio sit di sint et si di sint sit divinatio. Quorum neutrum tam facile quam tu arbitraria conceditur. Nam et natura significari futura sine deo possunt et ut sint di potest fieri ut nulla ab iis divinatio generi humano tributa sit.” Atque ille: “Mihi vero” inquit “satis est argomenti et esse deos et eos consulere rebus humanis quod esse clara et perspicua divinationis genera iudico. De quibus quid ipse sentiam si placet exponam ita tamen si vacas animo neque habes aliquid quod huic sermoni praevertendum putes.” “Ego vero” inquam “philosophiae Quinte semper vaco; hoc autem tempore cum sit nihil aliud quod lubenter agere possim multo magis aveo audire de divinatione quid sentias.” “Nihil” inquit “equidem novi nec quod praeter ceteros ipse sentiam; nam cum antiquissimam sententiam tum omnium populorum et gentium consensu comprobatam sequor. Duo sunt enim divinandi genera quorum alterum artis est alterum naturae. Quae est autem gens aut quae civitas quae non aut extispicum aut monstra aut fulgora interpretantium aut augurum aut astrologorum aut sortium (ea enim fere artis sunt) aut somniorum aut vatìcinationum (haec enim duo naturale putantur) praedictione moveatur? Quarum quidem rerum eventa magis arbitror quam causas quaeri oportere. Est enim vis et natura quaedam quae tum observatis longo tempore significationibus tum aliquo instinctu inflatuque divino futura praenuntiat.
Versione tradotta
«Tu difendi la roccaforte degli Stoici, Quinto,» io risposi, «se davvero c'è reciproca dipendenza tra questi due enunciati; se c'è la divinazione, ci sono gli dèi, e se gli dèi ci sono, c'è la divinazione. Ma né l'uno né l'altro enunciato vien dato per vero con tanta facilità quanto tu credi. Da un lato, il futuro può essere indicato da eventi naturali, senza l'intervento della divinità; dall'altro, anche ammesso che gli dèi esistano, può darsi che essi non abbiano concesso al genere umano alcuna capacità di divinazione. » E Quinto: «Ma il fatto stesso che vi siano generi di divinazione chiari ed evidenti, a mio giudizio costituisce una prova sufficiente dell'esistenza degli dèi e della loro provvidenza nei riguardi delle cose umane. Ti esporrò volentieri il mio parere su tutto ciò, a patto che tu sia libero da altre occupazioni e non abbia qualcosa da preferire a questa nostra conversazione.» «Per la filosofia,» risposi, «io ho sempre l'animo ben disposto, caro Quinto; e poiché adesso non ho nient'altro a cui possa dedicarmi volentieri, tanto più sono desideroso di sentire il tuo parere sulla divinazione.» «Non dirò nulla di nuovo,» incominciò Quinto, «né opinioni mie divergenti da quelle altrui: io seguo una dottrina antichissima e, per di più, confermata dal consenso di tutti i popoli e di tutte le genti.
Due sono i generi di divinazione, l'uno che riguarda l'arte, l'altro la natura. Quale popolo c'è, d'altronde, o quale città, che non rimanga impressionata dalla predizione degli indagatori delle viscere di animali o degli interpreti dei prodìgi e dei lampi o degli àuguri o degli astrologi o di coloro che estraggono le sorti (questi che ho elencato si riferiscono all'arte), ovvero dai presagi dei sogni e delle grida profetiche (questi due si considerano naturali)? Io credo che di tutto ciò vadano indagati i risultati piuttosto che le cause. C'è, difatti, una dote naturale che, o dopo lunga osservazione degl'indizi profetici, o per qualche istinto e ispirazione di origine divina, preannuncia il futuro.
- Letteratura Latina
- De Divinatione di Cicerone
- Cicerone