De Rerum Natura, Libro 1, vv. 215-264 - Studentville

De Rerum Natura, Libro 1, vv. 215-264

Huc accedit uti quicque in sua corpora rursum
dissoluat natura neque

ad nihilum interemat res.
nam siquid mortale e cunctis partibus esset,
ex oculis res quaeque repente erepta

periret;
nulla vi foret usus enim, quae partibus eius
discidium parere et nexus exsolvere posset.

quod nunc, aeterno quia constant semine quaeque,
donec vis obiit, quae res diverberet ictu
aut intus penetret

per inania dissoluatque,
nullius exitium patitur natura videri.
Praeterea quae cumque vetustate amovet aetas,

si penitus peremit consumens materiem omnem,
unde animale genus generatim in lumina vitae
redducit Venus,

aut redductum daedala tellus
unde alit atque auget generatim pabula praebens?
unde mare ingenuei fontes externaque longe

flumina suppeditant? unde aether sidera pascit?
omnia enim debet, mortali corpore quae

sunt,
infinita aetas consumpse ante acta diesque.
quod si in eo spatio atque ante acta aetate fuere
e quibus haec

rerum consistit summa refecta,
inmortali sunt natura praedita certe.
haud igitur possunt ad

nilum quaeque reverti.
Denique res omnis eadem vis causaque volgo
conficeret, nisi materies aeterna teneret,
inter se

nexus minus aut magis indupedita;
tactus enim leti satis esset causa profecto,
quippe

ubi nulla forent aeterno corpore, quorum
contextum vis deberet dissolvere quaeque.
at nunc, inter se quia nexus

principiorum
dissimiles constant aeternaque materies est,
incolumi remanent res corpore,

dum satis acris
vis obeat pro textura cuiusque reperta.
haud igitur redit ad nihilum res ulla, sed omnes
discidio

redeunt in corpora materiai.
postremo pereunt imbres, ubi eos pater aether
in gremium matris

terrai praecipitavit;
at nitidae surgunt fruges ramique virescunt
arboribus, crescunt ipsae fetuque gravantur.
hinc

alitur porro nostrum genus atque ferarum,
hinc laetas urbes pueris florere videmus

frondiferasque novis avibus canere undique silvas,
hinc fessae pecudes pinguis per pabula laeta
corpora deponunt et

candens lacteus umor
uberibus manat distentis, hinc nova proles
artubus infirmis teneras lasciva per herbas
ludit

lacte mero mentes perculsa novellas.
haud igitur penitus pereunt quaecumque

videntur,
quando alit ex alio reficit natura nec ullam
rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena.

Versione tradotta

A questo si

aggiunge che la natura disgrega di nuovo ogni corpo
nei suoi elementi essenziali e non fa perire le cose fino ad

annientarle.
Infatti se ci fosse qualcosa di mortale in tutte le parti,
ogni cosa perirebbe d’improvviso rapita allo

sguardo.
Infatti non ci sarebbe bisogno di alcuna forza che potesse procurare la scissione delle sue parti e di scioglierne

i legami.
Ma invece, poiché tutte le cose consistono di eterni semi,
fino a che non interviene una

forza che le spezzi
con l’urto o penetri all’interno per i vuoti e le dissolva,
la natura non lascia che si veda la

fine di nessuna.
Inoltre, se il tempo toglie via per la vecchiaia,
distrugge completamente

consumandone tutta la materia,
da dove Venere riconduce alla luce della vita il genere animale
specie per specie, o, dopo

averlo portato in vita, la terra industriosa
li alimenta e li accresce, offrendo il cibo specie per specie?
Con che cosa

le fonti native e dall’esterno fiumi
provenienti di lontano riforniscono il mare?
Con che

cosa l’etere nutre gli astri?
Infatti il tempo infinito e i giorni trascorsi
avrebbero dovuto consumare tutto ciò che

ha un corpo mortale.
Ma se in quello spazio di tempo trascorso esistettero
gli elementi di cui

consiste, dopo essersi rinnovato, questo
universo, sono certamente dotati di natura immortale:
dunque le singole cose non

possono convertirsi nel nulla.
Per di più, una stessa forza e causa distruggerebbe indistintamente
tutte le cose, se non

le tenesse insieme la materia eterna,
intrecciata nelle sue parti con nessi più o meno forti.
Un contatto

infatti sarebbe certo causa sufficiente di morte,
poiché non ci sarebbero elementi dotati di sostanza eterna,
dei quali

solo una forza appropriata potrebbe dissolvere l’aggregazione. Ma ora, poiché connessioni dissimili stringono tra loro i

principi, e la materia è eterna,
le cose conservano incolume il corpo, fino a

che non intervenga
una forza che sia abbastanza intensa in rapporto alla densità di ciascuna. Nessuna cosa dunque ritorna,

ma tutte
per disgregazione ritornano agli elementi della materia.
Infine, scorrono via le piogge, quando

il padre etere
le ha precipitate nel grembo della madre terra; ma nascono
splendide messi, e i rami degli alberi

verdeggiano,
gli alberi stessi crescono e si caricano di frutti;
di qui poi si alimentano la nostra specie e quella delle

fiere,
di qui vediamo le città prospere fiorire di fanciulli,
e frondose selve risuonare da ogni parte dei

canti di nuovi uccelli;
di qui le greggi appesantite dalla pinguenide stanche distendono i corpi sui pascoli rigogliosi, e

l’umor del candido latte
stilla dalle mammelle tese; di qui la nuova prole
sulle incerte membra allegramente saltella tra

l’erba
tenera, con la mente giovane inebriata di latte puro.
Non muore dunque del tutto ogni cosa

che sembra morire,
poiché la natura ricrea una cosa dall’altra e non comporta
che alcuna si generi se aiutata dalla

morte di un’altra.

  • Letteratura Latina
  • De rerum natura di Lucrezio
  • Lucrezio

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