Eneide, Libro 1, traduzione vv. 520-560 - Studentville

Eneide, Libro 1, traduzione vv. 520-560

Postquam

introgressi et coram data copia fandi,
maximus Ilioneus placido sic pectore coepit:
‘o regina, novam cui condere

Iuppiter urbem
iustitiaque dedit gentis frenare superbas,
Troes te miseri, ventis maria omnia vecti,
oramus: prohibe

infandos a navibus ignis,
parce pio generi et propius res aspice nostras.
non nos aut ferro Libycos populare penatis

venimus, aut raptas ad litora vertere praedas;
non ea vis animo nec tanta superbia victis.
est locus, Hesperiam

Grai cognomine dicunt,
terra antiqua, potens armis atque ubere glaebae;
Oenotri coluere viri; nunc fama minores

Italiam dixisse ducis de nomine gentem.
hic cursus fuit,
cum subito adsurgens fluctu nimbosus Orion
in vada

caeca tulit penitusque procacibus Austris
perque undas superante salo perque invia saxa
dispulit; huc pauci vestris

adnavimus oris.
quod genus hoc hominum? quaeve hunc tam barbara morem
permittit patria? hospitio prohibemur harenae;

bella cient primaque vetant consistere terra.
si genus humanum et mortalia temnitis arma,
at sperate deos memores

fandi atque nefandi.
rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter
nec pietate fuit, nec bello maior et armis.
quem si fata

virum servant, si vescitur aura
aetheria neque adhuc crudelibus occubat umbris,
non metus, officio nec te certasse

priorem
paeniteat. sunt et Siculis regionibus urbes
armaque Troianoque a sanguine clarus Acestes.
quassatam ventis

liceat subducere classem
et silvis aptare trabes et stringere remos,
si datur Italiam sociis et rege recepto

tendere, ut Italiam laeti Latiumque petamus;
sin absumpta salus, et te, pater optime Teucrum,
pontus habet Libyae

nec spes iam restat Iuli,
at freta Sicaniae saltem sedesque paratas,
unde huc advecti, regemque petamus Acesten.’

talibus Ilioneus; cuncti simul ore fremebant
Dardanidae.

Versione tradotta

Dopo che furono entrati e

data la facoltà di parlare apertamente, il più vecchio Ilioneo così cominciò con animo calmo: “O regina, cui Giove
concesse

fondare una nuova città e moderar con giustizia popoli fieri, (noi) miseri Troriani, portati in tutti i venti mari ,
ti

preghiamo: allontana dalle navi gli orribili fuochi,
risparmia un popolo pio e più da vicino guarda i nostri casi.
Noi

non siamo venuti o a saccheggiare con l’arma i penati
libici, o portare sui lidi le prede rubate;
il cuore non (ha)

quella forza né i vinti così tanta superbia.
C’è un luogo, i Grai lo chiamano col nome d’Esperia,
terra antica, potente

per armi e per ricchezza di terra;
(la) curarono uomini enotri; ora è fama che i più giovani
l’hanno chiamata Italia il

popolo dal nome del capo.
questa fu la rotta,
quando Orione burrascoso sorgendo da flutto improvviso
(ci) portò in

secche cieche e completamente ci disperse
coi violenti Austri e tra l’onde e tra rocce inaccessibili
col mare vincente;

qui pochi nuotammo alle vostre spiagge.
Che razza di uomini questa? o quale patria così barbara permette
simile usanza?

siamo respinti dall’ospitalità della sabbia;
dichiarano guerre e vietano di fermarsi sulla terra più vicina.
Se

disprezzate il genere umano e le armi mortali,
sperate almeno gli dei memori del bene e del male.
Ci era re Enea, di cui

non ci fu altro più giusto
per virtù, né superiore in guerra ed in armi.
Ma se i fati conservano quell’eroe, se si nutre

di aria
celeste né ancora giace nell’ombre crudeli,
non (c’è) paura, né ti dispiaccia di aver gareggiato per prima
in

un favore. Anche le regioni sicule hanno città
ed armi ed il famoso Aceste da sangue troiano.
Sia permesso attraccare la

flotta sconvolta dai venti
e coi boschi preparare travi e tagliare remi,
se è dato tendere all’Italia coi compagni,

ripreso
il re, per dirigerci lieti in Italia e nel Lazio;
se la salvezza è troncata, ed il mare di Libia tiene

te,
ottimo padre dei Teucri né resta la speranza di Iulo,
ma almeno cerchiamo gli stretti e le sedi pronte di Sicilia

donde qui sbalzati, ed il re Aceste.”
Così Ilioneo; tutti insieme i Dardanidi fremevano
in volto.

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