Quid enim censemus superiorem illum Dionysium quo cruciatu timoris angi solitum, qui cultros metuens tonsorios candente
carbone sibi adurebat capillum? quid Alexandrum Pheraeum quo animo vixisse arbitramur? qui, ut scriptum legimus, cum uxorem
Theben admodum diligeret, tamen ad eam ex epulis in cubiculum veniens barbarum, et eum quidem, ut scriptum est, conpunctum
notis Thraeciis destricto gladio iubebat anteire praemittebatque de stipatoribus suis qui scrutarentur arculas muliebres et, ne
quod in vestimentis telum occultaretur, exquirerent. O miserum, qui fideliorem et barbarum et stigmatiam putaret, quam
coniugem. Nec eum fefellit; ab ea est enim ipsa propter pelicatus suspicionem interfectus. Nec vero ulla vis imperii tanta est,
quae premente metu possit esse diuturna.
Versione tradotta
E che? Possiamo noi comprendere da qual tormentoso timore veniva di solito assalito
il famoso Dionigi il Vecchio, che temendo il rasoio del barbiere si bruciava da sé la barba con un tizzone ardente? E che? Con
quale animo pensiamo che sia vissuto Alessandro di Fere? Costui - come si legge - pur amando molto la propria moglie, Tebe,
tuttavia quando dal banchetto si recava nella sua stanza ordinava ad un barbaro, addirittura tatuato - come è scritto al modo
dei Traci, di andare avanti con la spadà sguainata e si faceva precedere da alcuni sgherri, incaricati di perquisire gli
scrigni della donna e di accertarsi che non fosse nascosta un' arma tra le vesti. 0 infelice, che riteneva più fedele un
barbaro tatuato che la propria moglie! E non si sbagliò: fu ucciso per mano della moglie, per sospetto d'infedeltà. Non
c'è, in verità, alcuna forza di potere tanto grande che possa resistere a lungo sotto l'oppressione del timore.
- Letteratura Latina
- De Officiis di Cicerone
- Cicerone