Versione tradotta del De Officiis di Cicerone: Libro 2, Par. da 1 a 5
Paragrafo 1
Quemadmodum officia ducerentur ab honestate Marce
fili atque ab omni genere virtutis satis explicatum arbitror libro superiore. Sequitur ut haec officiorum genera persequar quae
pertinent ad vitae cultum et ad earum rerum quibus utuntur homines facultatem ad opes ad copias [; in quo tum quaeri dixi quid
utile quid inutile tum ex utilibus quid utilius aut quid maxime utile]. De quibus dicere adgrediar si pauca prius de instituto
ac de iudicio meo dixero.
Paragrafo 2
Quamquam enim libri nostri complures non modo ad
legendi sed etiam ad scribendi studium excitaverunt tamen interdum vereor ne quibusdam bonis viris philosophiae nomen sit
invisum mirenturque in ea tantum me operae et temporis ponere. Ego autem quam diu res publica per eos gerebatur quibus se ipsa
commiserat omnes meas curas cogitationesque in eam conferebam. Cum autem dominatu unius omnia tenerentur neque esset usquam
consilio aut auctoritati locus socios denique tuendae rei publicae summos viros amisissem nec me angoribus dedidi quibus essem
confectus nisi iis restitissem nec rursum indignis homine docto voluptatibus.
Paragrafo
3
Atque utinam res publica stetisset quo coeperat statu nec in homines non tam commutandarum quam evertendarum rerum
cupidos incidisset! Primum enim ut stante re publica facere solebamus in agendo plus quam in scribendo operae poneremus deinde
ipsis scriptis non ea quae nunc sed actiones nostras mandaremus ut saepe fecimus. Cum autem res publica in qua omnis mea cura
cogitatio opera poni solebat nulla esset omnino illae scilicet litterae conticuerunt forenses et
senatoriae.
Paragrafo 4
Nihil agere autem cum animus non posset in his studiis ab
initio versatus aetatis existimavi honestissime molestias posse deponi si me ad philosophiam retulissem Cui cum multum
adulescens discendi causa temporis tribuissem posteaquam honoribus inservire coepi meque totum rei publicae tradidi tantum erat
philosophiae loci quantum superfuerat amicorum et rei publicae tempori. Id autem omne consumebatur in legendo scribendi otium
non erat.
Paragrafo 5
Maximis igitur in malis hoc tamen boni assecuti videmur ut ea
litteris mandaremus quae nec erant satis nota nostris et erant cognitione dignissima. Quid enim est per deos optabilius
sapientia quid praestantius quid homini melius quid homine dignius? Hanc igitur qui expetunt philosophi nominantur nec quicquam
aliud est philosophia si interpretari velis praeter studium sapientiae. Sapientia autem est ut a veteribus philosophis
definitum est rerum divinarum et humanarum causarumque quibus eae res continentur scientia cuius studium qui vituperat haud
sane intellego quidnam sit quod laudandum putet.
Versione tradotta
In qual modo i doveri derivino dall'onesto, o Marco figlio mio, e da ogni genere di
virtù, penso di averlo abbastanza spiegato nel libro precedente. Ne consegue la trattazione di questi generi di doveri che
riguardano il tenor di vita e il possesso di quei mezzi di cui si servono gli uomini, la potenza e le richezze; [a tal riguardo
allora ho detto che ci si chiede che cosa è utile e cosa inutile, e tra due cose utili quale sia la più utile o cosa sia
massimamente utile] . Inizierò a trattare di tali argomenti; dopo aver detto poche cose sulle mie intenzioni e sul mio
criterio.
Benché, infatti, i miei libri abbiano stimolato parecchi non
solo a leggerli ma anche a scrivere, tuttavia temo talora che ad alcuni uomini dabbene il nome di filosofia sia odioso e si
meraviglino che io dedichi ad essa tanta applicazione e tanto tempo. In verità io, per tutto il tempo in cui lo Stato era
governato da coloro ai quali da se stesso si era affidato, gli dedicavo ogni mia preoccupazione e pensiero; ma quando tutto il
potere fu accentrato nelle mani di un solo uomo e non essendovi più posto per il consiglio e per l'autorità, avendo perso
infine quanti erano stati miei colleghi nel proteggere la repubblica, tutti ottimi uomini, io non mi abbandonai al dolore, che
mi avrebbe travolto, se non avessi resistito, ma d'altra parte non mi diedi ai piaceri, che sono indegni di un uomo
dotto.
Ah, se fosse rimasta in piedi la repubblica nello stato in cui
aveva incominciato ad essere e non si fosse imbattuta in uomini desiderosi non tanto di mutare la situazione quanto di
sovvertìrla. In primo luogo mì sarei dedicato più all'azione - come solevo fare quando vigeva ancora la repubblica - che non
allo scrivere, e poi avrei affidato agli scritti stessi non queste osservazioni, ma le nostre azioni - come spesso ha fatto. Ma
quando finì di esistere lo Stato, nel quale solevo riporre ogni mia cura, pensiero e attività, tacque anche quella mia forense
e senatoria.
Ma poiché il mio spirito non poteva rímanere inattivo ho
ritenuto, poìché sono stato versato in questi studi sia dalla fanciullezza, che avrei potuto alleviare nel modo più onorevole
il mio affanno se mi fossi rivolto alla filosofia. Da giovane le avevo dedicato molto tempo per imparare, ma quando incominciai
a dedicarmi alla carriera politica e mi diedi tutto alla cura dello Stato, per la filosofia non c'era altro tempo se non
quanto avanzava dagli amici e dallo Stato; e questo lo trascorrevo tutto leggendo, e non ne avevo un po' libero per
scrivere.
Dunque in queste sciagure così gravi, questo bene almeno mi
sembra di aver conseguito, di affidare agli scritti quelle teorie filosofiche che non erano abbastanza note ai nostri
concittadiní ed erano assai degne di conoscenza. Che cosa c'è infatti - per gli dei - di più deciderabile della saggezza, che
cosa di più nobile e di più adatto all'uomo, che cosa di più degno di lui? Dunque coloro che la ricercano sono chiamati
filosofi, e la filosofìa altro non è, se tu vuoi attenerti al significato etimologico, che amore della sapienza; ma la sapienza
è - secondo la definizione degli antichi filosofi - la scienza del divino e dell'umano e dei nessi causali che li regolano; e
se qualcuno biasima lo studio di tale scienza, invero non riesco a comprendere quale sia cosa quella che egli possa stimare
degna di lode.
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