Paragrafo 6
Nam sive oblectatio quaeritur animi requiesque curarum
quae conferri cum eorum studiis potest qui semper aliquid anquirunt quod spectet et valeat ad bene beateque vivendum? sive
ratio constantiae virtutisque ducitur aut haec ars est aut nulla omnino per quam eas assequamur. Nullam dicere maximarum rerum
artem esse cum minimarum sine arte nulla sit hominum est parum considerate loquentium atque in maximis rebus errantium. Si
autem est aliqua disciplina virtutis ubi ea quaeretur cum ab hoc discendi genere discesseris. Sed haec cum ad philosophiam
cohortamur accuratius disputari solent quod alio quodam libro fecimus. Hoc autem tempore tantum nobis declarandum fuit cur
orbati rei publicae muneribus ad hoc nos studium potissimum contulissemus.
Paragrafo
7
Occuritur autem nobis et quidem a doctis et eruditis quaerentibus satisne constanter facere videamur qui cum percipi
nihil posse dicamus tamen et aliis de rebus disserere soleamus et hoc ipso tempore praecepta officii persequamur. Quibus vellem
satis cognita esset nostra sententia. Non enim sumus ii quorum vagetur animus errore nec habeat umquam quid sequatur. Quae enim
esset ista mens vel quae vita potius non modo disputandi sed etiam vivendi ratione sublata? Nos autem ut ceteri alia certa alia
incerta esse dicunt sic ab his dissentientes alia probabilia contra alia dicimus.
Paragrafo
8
Quid est igitur quod me impediat ea quae probabilia mihi videantur sequi quae contra improbare atque adfirmandi
arrogantiam vitantem fugere temeritatem quae a sapientia dissidet plurimum? Contra autem omnia disputantur a nostris quod hoc
ipsum probabile elucere non possit nisi ex utraque parte causarum esset facta contentio. Sed haec explanata sunt in Academicis
nostris satis ut arbitror diligenter. Tibi autem mi Cicero quamquam in antiquissima nobilissimaque philosophia Cratippo auctore
versaris iis simillimo qui ista praeclara pepererunt tamen haec nostra finituma vestris ignota esse nolui. Sed iam ad instituta
pergamus.
Paragrafo 9
Quinque igitur rationibus propositis officii persequendi quarum
duae ad decus honestatemque pertinerent duae ad commoda vitae copias opes facultates quinta ad eligendi iudicium si quando ea
quae dixi pugnare inter se viderentur honestatis pars confecta est quam quidem tibi cupio esse notissimam. Hoc autem de quo
nunc agimus id ipsum est quod utile appellatur. In quo verbo lapsa consuetudo deflexit de via sensimque eo deducta est ut
honestatem ab utilitate secernens constitueret esse honestum aliquid quod utile non esset et utile quod non honestum qua nulla
pernicies maior hominum vitae potuit afferri.
Paragrafo 10
Summa quidem auctoritate
philosophi severe sane atque honeste haec tria genera confusa cogitatione distinguunt: quicquid enim iustum sit id etiam utile
esse censent itemque quod honestum idem iustum ex quo efficitur ut quicquid honestum sit idem sit utile. Quod qui parum
perspiciunt ii saepe versutos homines et callidos admirantes malitiam sapientiam iudicant. Quorum error eripiendus est
opinioque omnis ad eam spem traducenda ut honestis consiliis iustisque factis non fraude et malitia se intellegant ea quae
velint consequi posse.
Versione tradotta
E se si ricerca il diletto dell'animo e la
tranquillità degli affanni, quale diletto e qua le tranquillìtà si possono paragonare con la co stante applicazione di coloro
che ricercano sempre qualche cosa che riguardi e valga per vivere bene e felicemente? Se si ricerca la norma della coerenza e
della virtù, o è questa l'arte filosofica per mezzo della quale poterle perseguire o non ve ne è affatto alcuna. Il sostenere
che non esista alcuna scienza dei massimi problemi, mentre dei minimi non ve ne è alcuno senza la sua specifica regola, è
considerazione degna di uomini che parlano senza riflettere e che sbagliano proprio sui massimi problemi. Se esiste una
disciplina della virtù, dove la ricercheremmo, qualora ci allontanassimo da questo genere di studi? Ma queste tesi di solito
sono più accuratamente dibattute, quando esortiamo alla filosofia; ciò che abbiamo fatto in un altro libro. Ma a questo punto
volevo soltanto dichiarare, perchè privato delle cariche dello Stato mi fossi rivolto soprattutto a questo
studio.
Mi si obietta invero, e la richiesta è da parte di uomini dotti e
eruditi, se mi sembra di agire con sufficiente coerenza, in quanto io, pur affermando che niente può esser conosciuto con
certezza, tuttavia sono solito discutere intorno ad altre tesi, e proprio nello stesso momento miro a trattare i precetti del
dovere. Vorrei che costoro conoscessero bene il mio pensiero. Io non sono tale che il mio animo se ne vada vagando
nell'incertezza e non abbia mai una norma da seguire. Quale sarebbe codesto intelletto o piuttosto quale la nostra vita, se si
eliminasse ogni regola non solo di discussione, ma anche di vita? Io, per parte mia, come alcuni sostengono esservi alcune cose
certe ed altre incerte, esprimendo un'opinione diversa da questi, dico che alcune cose sono probabili, altre
improbabili.
Quale ragione mi potrebbe impedire di seguire quelle cose che
mi paiono probabili e rigettare ciò che mi sembra improbabile, e, coll'evitare le affermazioni assolute, fuggire quella
presunzione che è la più lontana dalla vera sapienza? Invece la nostra scuola pone in discussione tutto, perché questo stesso
probabile non potrebbe esser palese se non si facesse un confronto delle ragioni dall'una e dall'altra parte. Ma questi
criteri di metodo sono stati abbastanza diligentemente chiariti, come credo, nei miei 'Accademici'. E invero, o mio Cicerone,
benché tu, sotto la guida di Cratippo, dal pensiero assai affine a coloro che elaborarono queste teorie famose, ti stia
dedicando a questa filosofia che è una delle più antiche e nobili, tuttavia non voglio che questa mia dottrina così vicina alla
tua ti sia sconosciuta. Ma proseguiamo nel nostro proposito.
Sono cinque,
dunque, i principi f issati per la ricerca del dovere, dei quali due riguardano il conveniente e l'onesto, due i beni della
vita, le ricchezze, il potere, le risorse, il quinto il criterio di scelta, nel caso in cui quelle norme sopra menzionate
sembrino contrastare tra di loro; la parte riguardante l'onestà è terminata; proprio essa desidero che ti sia notissima. Il
tema del quale ora trattiamo è quello stesso che si chiama utile; per questo termine l'uso comune, scivolando, deviò dalla
retta via e a poco a poco giunse a tal punto che, dividendo nettamente l'onesto dall'utile, definì onesto ciò che non era
utile e utile ciò non era onesto; nessun danno maggiore di questo poteva mai essere apportato alla vita
umana.
Certo i filosofi, con la loro grandissima autorità, distinguono in
astratto, con rigore ed onestà, queste tre categorie confuse (nella realtà): qualsiasi cosa, difatti, sia giusta, pensano che
sia anche utile, e allo stesso modo ciò che è onesto anche giusto; da ciò si deduce che qualsiasi cosa sia onesta è anche
utile. Coloro che comprendono poco le distinzioni filosofiche, grandi ammiratori degli uomini astuti e furbi, giudicano la
furberia come sapienza. L'errore di costoro deve essere estirpato ed ogni opinione si deve rivolgere alla speranza di far loro
comprendere che essi possono conseguire ciò che vogliono, con intenti onesti e con azioni giuste, non con l'inganno e la
malizia.
- Letteratura Latina
- De Officiis di Cicerone
- Cicerone