Paragrafo 76
Laudat
Africanum Panaetius quod fuerit abstinens. Quidni laudet? Sed in illo alia maiora; laus abstinentiae non hominis est solum sed
etiam temporum illorum. Omni Macedonum gaza quae fuit maxima potitus [est] Paulus; tantum in aerarium pecuniae invexit ut unius
imperatoris praeda finem attulerit tributorum. At hic nihil domum suam intulit praeter memoriam nominis sempiternam. Imitatus
patrem Africanus nihilo locupletior Carthagine eversa. Quid? qui eius collega fuit in censura L. Mummius num quid copiosior cum
copiosissimam urbem funditus sustulisset? Italiam ornare quam domum suam maluit; quamquam Italia ornata domus ipsa mihi videtur
ornatior.
Paragrafo 77
Nullum igitur vitium taetrius est ut eo unde digressa est
referat se oratio quam avaritia praesertim in principibus et rem publicam gubernantibus. Habere enim quaestui rem publicam non
modo turpe est sed sceleratum etiam et nefarium. Itaque quod Apollo Pythius oraclum edidit Spartam nulla re alia nisi avaritia
esse perituram id videtur non solum Lacedaemoniis sed etiam omnibus opulentis populis praedixisse. Nulla autem re conciliare
facilius benivolentiam multitudinis possunt ii qui rei publicae praesunt quam abstinentia et
continentia.
Paragrafo 78
Qui vero se populares volunt ob eamque causam aut agrariam
rem temptant ut possessores pellantur suis sedibus aut pecunias creditas debitoribus condonandas putant labefactant fundamenta
rei publicae concordiam primum quae esse non potest cum aliis adimuntur aliis condonantur pecuniae deinde aequitatem quae
tollitur omnis si habere suum cuique non licet. Id enim est proprium ut supra dixi civitatis atque urbis ut sit libera et non
sollicita suae rei cuiusque custodia.
Paragrafo 79
Atque in hac pernicie rei publicae
ne illam quidem consequuntur quam putant gratiam. Nam cui res erepta est est inimicus; cui data est etiam dissimulat se
accipere voluisse et maxime in pecuniis creditis occultat suum gaudium ne videatur non fuisse solvendo. At vero ille qui
accipit iniuriam et meminit et prae se fert dolorem suum nec si plures sunt ii quibus inprobe datum est quam illi quibus
iniuste ademptum est idcirco plus etiam valent. Non enim numero haec iudicantur sed pondere. Quam autem habet aequitatem ut
agrum multis annis aut etiam saeculis ante possessum qui nullum habuit habeat qui autem habuit amittat?
Paragrafo 80
Ac propter hoc iniuriae genus Lacedaemonii Lysandrum ephorum expulerunt
Agim regem quod nunquam antea apud eos acciderat necaverunt exque eo tempore tantae discordiae secutae sunt ut et tyranni
existerent et optumates exterminarentur et praeclarissime constituta res publica dilaberetur. Nec vero solum ipsa cecidit sed
etiam reliquam Graeciam evertit contagionibus malorum quae a Lacedaemoniis profectae manarunt latius. Quid? nostros Gracchos
Ti. Gracchi summi viri filios Africani nepotes nonne agrariae contentiones perdiderunt?
Versione tradotta
Panezio loda l'Africano per il fatto che fu disinteressato. Ma perché mai? In
lui ci furono altre doti maggiori. La lode di integrità non è solo propria di quell'uomo, ma anche di quei tempi. Paolo
s'impadronì di tutto il tesoro dei Macedoni, che era enorme, e versò nell'erario tanto denaro che il bottino di un solo
generale permise di mettere fine alle tasse; ma egli non portò niente a casa sua, tranne il ricordo eterno del nome.
L'Africano imitò il padre, e, abbattuta Cartagine, non fu per niente piu ricco. E che? Colui che fu suo collega nella pretura,
Lucio Mummio, forse che diventò più ricco dopo aver distrutto sin dalle fondamenta una città ricchissima? Preferì abbellire
l'Italia piuttosto che la sua casa; benché, abbellita l'Italia, la sua stessa casa mi sembra più
ornata.
Nessun vizio, dunque, è più vergognoso (per riportare il discorso
là donde si è allontanato), dell'avidità, soprattutto nei capi e negli amministratori di uno Stato. Considerare, difatti, lo
Stato come fonte di guadagno non solo è vergognoso, ma anche scellerato ed empio. Perciò quell'oracolo proferito da Apollo
Pizio, e cioè che Sparta non sarebbe perita per nessun'altra causa se non per l'avidità, mi sembra che sia stato predetto non
solo per gli Spartani, ma anche per ogni popolo ricco. Coloro che sono a capo di uno Stato non possono con alcun altro mezzo
procacciarsi più facilmente la benevolenza della moltitudine che con l'integrità morale e la
moderazione.
Quelli, invero che vogliono essere popolari e sollevano,
perciò, o la questione agraria, per scacciare i proprietari dai loro possessi, o pensano che si debbano condonare i debiti dì
denaro ai debitori, sconvolgono le fondamenta dello Stato, in primo luogo la concordia, che non può sussistere quando si
strappa agli uni e si condona denaro agli altri; in secondo luogo l'equità, che è eliminata completamente se non è lecito a
ciascuno avere il suo. Ciò, infatti, cosituisce la caratteristica specifica - come ho già detto prima - di una città e di uno
Stato, che ciascuno abbia libero e tranquillo possesso dei propri averi.
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In questa rovina dello Stato essi non conseguono neppure quella popolarità che si aspettano. Infatti è loro nemico
colui al quale i beni sono stati strappati; colui al quale è stato elargito, finge anche di non aver mai voluto accettare, e
soprattutto nel caso del condono dei debiti nasconde la sua gioia, perché non sembri che egli non era stato in grado di
pagarli. Ma colui che ha ricevuto l'ingiustizia, la ricorda e porta ben manifesto il suo risentimento, e, se sono più quelli
ai quali è stato dato ingiustamente di quelli ai quali si è tolto ingiustamente, non per questo hanno più forza: queste cose
non si giudicano dal numero, ma dalla gravità. E poi quale giustizia c'è nel fatto che un campo posseduto per molti anni o
anche per secoli lo abbia chi non ne ha mai avuto uno e lo perda chi l'ha sempre avuto?
A causa di un'ingiustizia di tal genere gli Spartani cacciarono
l'eforo Lisandro e uccisero il loro re Agide (un tal fatto non era mai accaduto prima presso di loro) e da quel tempo si
susseguirono così grandi discordie che sorsero i tiranni, gli ottimati furono cacciati e quello Stato così saggiamente ordinato
andò in rovina. E non soltanto esso cadde, ma sconvolse anche tutta la Grecia con il contagio di quei mali che, partiti dagli
Spartani, si diffusero in più ampio spazio. E che? Forse che le lotte agrarie non furono la rovina dei nostri Gracchi, figli di
quel grande Tiberio Gracco e nipoti dell'Africano?
- Letteratura Latina
- De Officiis di Cicerone
- Cicerone