Paragrafo 41
Quibus ex locis cum longius esset progressus confecto
iam labore exercitu XII milium spatio constitit. Dat suis signum Saburra aciem constituit et circumire ordines atque hortari
incipit; sed peditatu dumtaxat procul ad speciem utitur equites in aciem immittit. Non deest negotio Curio suosque hortatur ut
spem omnem in virtute reponant. Ne militibus quidem ut defessis neque equitibus ut paucis et labore confectis studium ad
pugnandum virtusque deerat; sed hi erant numero CC reliqui in itinere substiterant. Hi quamcumque in partem impetum fecerant
hostes loco cedere cogebant sed neque longius fugientes prosequi neque vehementius equos incitare poterant. At equitatus
hostium ab utroque cornu circuire aciem nostram et aversos proterere incipit. Cum cohortes ex acie procucurrissent Numidae
integri celeritate impetum nostrorum effugiebant rursusque ad ordines suos se recipientes circuibant et ab acie excludebant.
Sic neque in loco manere ordinesque servare neque procurrere et casum subire tutum videbatur. Hostium copiae submissis ab rege
auxiliis crebro augebantur; nostros vires lassitudine deficiebant simul ei qui vulnera acceperant neque acie excedere neque in
locum tutum referri poterant quod tota acies equitatu hostium circumdata tenebatur. Hi de sua salute desperantes ut extremo
vitae tempore homines facere consuerunt aut suam mortem miserabantur aut parentes suos commendabant si quos ex eo periculo
fortuna servare potuisset. Plena erant omnia timoris et luctus.
Paragrafo 42
Curio ubi
perterritis omnibus neque cohortationes suas neque preces audiri intellegit unam ut in miseris rebus spem reliquam salutis esse
arbitratus proximos colles capere universos atque eo signa inferri iubet. Hos quoque praeoccupat missus a Saburra equitatus.
Tum vero ad summam desperationem nostri perveniunt et partim fugientes ab equitatu interficiuntur partim integri procumbunt.
Hortatur Curionem Cn. Domitius praefectus equitum cum paucis equitibus circumsistens ut fuga salutem petat atque in castra
contendat et se ab eo non discessurum pollicetur. At Curio numquam se amisso exercitu quem a Caesare fidei commissum acceperit
in eius conspectum reversurum confirmat atque ita proelians interficitur. Equites ex proelio perpauci se recipiunt; sed ei quos
ad novissimum agmen equorum reficiendorum causa substitisse demonstratum est fuga totius exercitus procul animadversa sese
incolumes in castra conferunt. Milites ad unum omnes interficiuntur.
Paragrafo 43
His
rebus cognitis Marcius Rufus quaestor in castris relictus a Curione cohortatur suos ne animo deficiant. Illi orant atque
obsecrant ut in Siciliam navibus reportentur. Pollicetur magistrisque imperat navium ut primo vespere omnes scaphas ad litus
appulsas habeant. Sed tantus fuit omnium terror ut alii adesse copias Iubae dicerent alii cum legionibus instare Varum iamque
se pulverem venientium cernere quarum rerum nihil omnino acciderat alii classem hostium celeriter advolaturam suspicarentur.
Itaque perterritis omnibus sibi quisque consulebat. Qui in classe erant proficisci properabant. Horum fuga navium onerariarum
magistros incitabat; pauci lenunculi ad officium imperiumque conveniebant. Sed tanta erat completis litoribus contentio qui
potissimum ex magno numero conscenderent ut multitudine atque onere nonnulli deprimerentur reliqui hoc timore propius adire
tardarentur.
Paragrafo 44
Quibus rebus accidit ut pauci milites patresque familiae qui
aut gratia aut misericordia valerent aut naves adnare possent recepti in Siciliam incolumes pervenirent. Reliquae copiae missis
ad Varum noctu legatorum numero centurionibus sese ei dediderunt. Quarum cohortium milites postero die ante oppidum Iuba
conspicatus suam esse praedicans praedam magnam partem eorum interfici iussit paucos electos in regnum remisit cum Varus suam
fidem ab eo laedi quereretur neque resistere auderet. Ipse equo in oppidum vectus prosequentibus compluribus senatoribus quo in
numero erat Ser. Sulpicius et Licinius Damasippus paucis quae fieri vellet Uticae constituit atque imperavit diebusque post
paucis se in regnum cum omnibus copiis recepit.
Versione tradotta
Dopo essersi allontanato dalle alture per un buon tratto, poiché
le truppe erano ormai sfinite per una marcia di sedici miglia, si ferma. Saburra dà ai suoi il segnale, forma lo schieramento e
comincia a percorrere le linee esortando i soldati. Ma fa un uso solo secondario della fanteria, lanciando nel combattimento
soltanto la cavalleria. Curìone non viene meno al suo compito ed esorta i suoi a riporre ogni speranza nel proprio valore.
Nemmeno ai soldati, sebbene spossati, né ai cavalieri, per quanto pochi e stremati dalla fatica, mancavano volontà di
combattere e coraggio; ma i cavalieri erano solo duecento: gli altri erano rimasti lungo il cammino. Dovunque essi
attaccassero, costringevano il nemico alla ritirata, ma non potevano portare a fondo l'inseguimento dei fuggitivi, né lanciare
i cavalli con sufficiente impeto. La cavalleria nemica, invece, cominciava a circondare il nostro schieramento sui due fianchi
e a schiacciare i nostri, presi alle spalle. Quando le coorti muovevano all'attacco, staccandosi dallo schieramento, i Numidi,
freschi di forze, evitavano lo scontro arretrando rapidamente, per poi circondarli e tagliarli fuori dalle linee, mentre
tornavano nelle loro file. Appariva quindi rischioso, tanto mantenere la posizione serrando le file, quanto andare all'attacco
tentando la sorte. Le truppe nemiche andavano continuamente ingrossandosi per i rinforzi inviati dal re; per la stanchezza, ai
nostri mancavano le forze, e inoltre i feriti non potevano né portarsi fuori dalle linee né essere trasportati al riparo,
perché tutto lo schieramento era circondato e bloccato dalla cavalleria nemica. Essi, perduta ogni speranza di salvezza, come
sogliono fare gli uomini negli ultimi istanti della loro vita, o commiseravano la propria morte o raccomandavano i propri
genitori a quanti la sorte avesse concesso di scampare a quel pericolo. Non vi era tutt'intorno che terrore e
pianto.
Quando Curione comprese che, nel generale terrore, le sue
esortazioni e le sue preghiere non venivano nemmeno udite, ritenendo che, pur in una situazione così disastrosa, non rimanesse
che una sola speranza di salvezza, ordina a tutti di occupare i colli più vicini e fa rivolgere in quella direzione le insegne.
Ma anche in questa manovra vengono preceduti dalla cavalleria inviata da Saburra. Allora i nostri toccano il fondo della
disperazione: parte di loro, in fuga, viene massacrata dalla cavalleria, parte cade per lo sfinimento. Gneo Domizio, prefetto
della cavalleria, esorta Curione, facendogli scudo con pochi cavalieri, a trovare scampo nella fuga e a raggiungere il campo,
promettendo di non abbandonarlo. Ma Curione giura che giammai, dopo aver perduto l'esercito che era stato affidato da Cesare
alla sua lealtà, ritornerà al suo cospetto, e cade combattendo. Pochissimi cavalieri riescono a mettersi in salvo dalla
battaglia; ma quelli che, come si è detto, si erano fermati nelle retrovie per far riposare i cavalli, vedendo da lontano
l'intero esercito in fuga, si ritirano incolumi nell'accampamento. La fanteria viene annientata fino all'ultimo
uomo.
Conosciuti tali fatti, il questore Marco Rufo, lasciato da Curione
nel campo, esorta i suoi a non perdersi d'animo. Quelli lo pregano e lo scongiurano di riportarli in Sicilia con le navi. Lo
promette e ordina ai comandanti delle navi di tenere, sul fare della sera, tutte le lance ancorate presso il lido. Ma il
terrore di tutti fu così grande che gli uni dicevano che le truppe di Giuba erano vicine, gli altri che Varo era addosso con le
legioni e già scorgevano la polvere di quelli che sopraggiungevano, mentre non accadeva proprio nulla di tutto ciò, altri
ancora supponevano che la flotta nemica in breve tempo sarebbe giunta al volo. E così, poiché erano tutti sconvolti, ognuno
pensava a se stesso. Coloro che erano sulle navi da guerra acceleravano la partenza. La loro fuga istigava i comandanti delle
navi da carico; solo poche barchette si radunavano per eseguire il loro compito, come era stato ordinato. E sul lido affollato
tanta era la gara a chi, in tale moltitudine, per primo riuscisse a imbarcarsi, che alcune imbarcazioni affondavano per il peso
della gente, altre tardavano ad avvicinarsi, temendo la stessa fine.
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Accadde quindi che solo pochi soldati o capifamiglia, che godevano di favori o suscitavano pietà o avevano potuto
raggiungere le navi a nuoto, furono raccolti e raggiunsero in salvo la Sicilia. Il resto delle truppe, mandata durante la notte
a Varo un'ambasceria di centurioni, gli si consegnò. Il giorno dopo, Giuba, viste le coorti di questi soldati davanti alla
città, sostenendo che erano sua preda di guerra, ordinò di ucciderne gran parte e mandò nel suo regno pochi elementi scelti,
mentre Varo, pur lamentando che venivano così violati gli impegni da lui assunti, non osava opporsi. Giuba entrò in città a
cavallo, con parecchi senatori al seguito, tra i quali Servio Sulpicio e Licinio Damasippo in pochi giorni, diede disposizioni
e ordini ad Utica a suo arbitrio. E ugualmente dopo pochi giorni si ritirò nel suo regno con tutto
l'esercito.
- Letteratura Latina
- De Bello Civili di Giulio Cesare
- Cesare