Erant eiusmodi fere situs oppidorum, ut posita in extremis lingulis promunturiisque neque pedibus aditum haberent, cum ex alto se aestus incitavisset, quod bis accidit semper horarum duodenarum spatio, neque navibus, quod rursus minuente aestu naves in vadis adflictarentur. Ita utraque re oppidorum oppugnatio impediebatur. Ac si quando magnitudine operis forte superati extruso mari aggere ac molibus atque his oppidi moenibus adaequatis suis fortunis desperare coeperant, magno numero navium adpulso, cuius rei summam facultatem habebant, sua deportabant omnia seque in proxima oppida recipiebant; ibi se rursus isdem loci opportunitatibus defendebant. Haec eo facilius magnam partem aestatis faciebant, quod nostrae naves tempestatibus detinebantur summaque erat vasto atque aperto mari, magnis aestibus, raris ac prope nullis portibus difficultas navigandi.
Versione tradotta
La posizione delle città era quasi di tal genere, che poste sulla punta di lingue (di terra) e promontori non avevano accesso per le truppe di fanteria, se la marea si fosse alzata in alto, cosa che capita due volte nello spazio di dodici ore, ma neppure per le navi, perché diminuendo di nuovo la marea le navi si sarebbero rovinate nelle secche. Così per entrambi i motivi era impedito l’assedio. E se mai vinti per caso dalla grandiosità della fortificazione, bloccato il mare con un terrapieno e dighe e rese queste uguali alle mura della città avessero cominciato a disperare dei loro beni, fatto approdare gran numero di navi, e di tale materiale avevano una altissima disponibilità, portavano via tutte le loro cose e si ritiravano in città vicine; li con le stesse opportunità della posizione si difendevano di nuovo. Queste cose le facevano tanto più facilmente per gran parte dell’estate, perché le nostre navi erano trattenute dalle tempeste e grandissima era la difficoltà di navigare per un mare vasto e aperto, per le grandi maree, per i porti rari o quasi nulli.
- Letteratura Latina
- Libro 3
- Cesare
- De Bello Gallico