Ab urbe condita - Libro 3, Par. 35 - Studentville

Ab urbe condita - Libro 3, Par. 35

Postquam uero comitia decemuiris creandis in trinum nundinum indicta sunt, tanta exarsit ambitio, ut primores quoque

ciuitatis–metu, credo, ne tanti possessio imperii, uacuo ab se relicto loco, haud satis dignis pateret–prensarent homines,

honorem summa ope a se impugnatum ab ea plebe, cum qua contenderant, suppliciter petentes. Demissa iam in discrimen dignitas ea

aetate iisque honoribus actis stimulabat Ap. Claudium. Nescires utrum inter decemuiros an inter candidatos numerares; propior

interdum petendo quam gerendo magistratui erat. Criminari optimates, extollere candidatorum leuissimum quemque humillimumque,

ipse medius inter tribunicios, Duillios Iciliosque, in foro uolitare, per illos se plebi uenditare, donec collegae quoque, qui

unice illi dediti fuerant ad id tempus, coniecere in eum oculos, mirantes quid sibi uellet: apparere nihil sinceri esse;

profecto haud gratuitam in tanta superbia comitatem fore; nimium in ordinem se ipsum cogere et uolgari cum priuatis non tam

properantis abire magistratu quam uiam ad continuandum magistratum quaerentis esse. Propalam obuiam ire cupiditati parum ausi,

obsecundando mollire impetum adgrediuntur. Comitiorum illi habendorum, quando minimus natu sit, munus consensu iniungunt. Ars

haec erat, ne semet ipse creare posset, quod praeter tribunos plebi–et id ipsum pessimo exemplo–nemo unquam fecisset. Ille

enimuero, quod bene uertat, habiturum se comitia professus, impedimentum pro occasione arripuit; deiectisque honore per

coitionem duobus Quinctiis, Capitolino et Cincinnato, et patruo suo C. Claudio, constantissimo uiro in optimatium causa, et

aliis eiusdem fastigii ciuibus, nequaquam splendore uitae pares decemuiros creat, se in primis, quod haud secus factum

improbabant boni quam nemo facere ausurum crediderat. Creati cum eo M. Cornelius Maluginensis M. Sergius L. Minucius Q. Fabius

Vibulanus Q. Poetelius T. Antonius Merenda K. Duillius Sp. Oppius Cornicen M’. Rabuleius.

Versione tradotta

Ma quando venne annunciato che le elezioni dei

decemviri si sarebbero tenute il terzo giorno di mercato, si scatenarono a tal punto le ambizioni che anche i cittadini più in

vista - credo per paura che un simile potere, una volta lasciato libero il campo, potesse finire in mani non sufficientemente

degne - cominciarono a sollecitare gli elettori, implorando da quella stessa plebe, con la quale avevano avuto non pochi

scontri, una carica che avevano avversato con ogni mezzo. La prospettiva di dover lasciare in quel momento la posizione

raggiunta, alla sua età, e dopo le cariche occupate, spronava Appio Claudio. Non si sapeva se annoverarlo tra i decemviri o tra

i candidati. A volte si comportava come un aspirante alla magistratura e non come chi già la deteneva; diffamava gli ottimati,

portava alle stelle i candidati più insignificanti e di bassi natali, andava girando qua e là per il foro in compagnia di ex-

tribuni, con Duilii e Icilii, facendosi raccomandare da questi ultimi alla plebe. Finché anche i colleghi, i quali fino ad

allora avevano dimostrato una straordinaria devozione nei suoi confronti, cominciarono a guardarlo stupiti, domandandosi che

cosa gli passasse per la testa. Era chiaro che non agiva sinceramente: in un'indole così altezzosa tanta affabilità non era

di certo senza scopo. Il suo troppo abbassarsi e il mescolarsi con privati cittadini non erano tanto gli atteggiamenti di uno

ansioso di abbandonare una magistratura, quanto di uno che cercasse la strada migliore per prorogare la sua carica. Non osando

opporsi apertamente alla sua sfrenata ambizione, cercano di frenarne gli slanci, assecondandolo. Essendo egli il collega più

giovane, concordemente gli impongono di convocare i comizi. Si trattava di uno stratagemma per impedirgli di autoeleggersi,

cosa che al di fuori dei tribuni della plebe - e questo era di per sé il peggiore dei precedenti - non aveva mai osato fare

nessuno. Ma Appio, in realtà, pur avendo promesso con una preghiera augurale di presiedere le elezioni, riuscì a trasformare un

ostacolo in un'occasione propizia. In un primo tempo, grazie ad alleanze elettorali, mise da parte nella corsa alla

candidatura i due Quinzi, Capitolino e Cincinnato, suo zio paterno Gaio Claudio, da sempre partigiano della causa

aristocratica, nonché altri cittadini dello stesso rango. Proclamò decemviri invece degli individui che per eccellenza di vita

non stavano alla pari degli esclusi, e primo se stesso, cosa questa che i cittadini onesti disapprovarono: nessuno avrebbe

creduto che osasse arrivare a tanto. Insieme a lui furono eletti Marco Cornelio Maluginense, Marco Sergio, Lucio Minucio,

Quinto Fabio Vibulano, Quinto Petilio, Tito Antonio Merenda, Cesone Duilio, Spurio Oppio Cornicino e Manio Rabuleio.

  • Letteratura Latina
  • Ab urbe condita
  • Livio
  • Ab urbe condita

Ti potrebbe interessare

Link copiato negli appunti