Ab urbe condita - Libro 3, Par. 38 - Studentville

Ab urbe condita - Libro 3, Par. 38

Idus Maiae uenere. Nullis subrogatis

magistratibus, priuati pro decemuiris, neque animis ad imperium inhibendum imminutis neque ad speciem honoris insignibus

prodeunt. Id uero regnum haud dubie uideri. Deploratur in perpetuum libertas, nec uindex quisquam exsistit aut futurus uidetur.

Nec ipsi solum desponderant animos, sed contemni coepti erant a finitimis populis, imperiumque ibi esse ubi non esset libertas,

indignabantur. Sabini magna manu incursionem in agrum Romanum fecere; lateque populati cum hominum atque pecudum inulti praedas

egissent, recepto ad Eretum quod passim uagatum erat agmine castra locant, spem in discordia Romana ponentes: eam impedimentum

dilectui fore. Non nuntii solum sed per urbem agrestium fuga trepidationem iniecit. Decemuiri consultant quid opus facto sit,

destituti inter patrum et plebis odia. Addidit terrorem insuper alium fortuna. Aequi alia ex parte castra in Algido locant

depopulanturque inde excursionibus Tusculanum agrum; legati ea ab Tusculo, praesidium orantes, nuntiant. Is pauor perculit

decemuiros ut senatum, simul duobus circumstantibus urbem bellis, consulerent. Citari iubent in curiam patres, haud ignari

quanta inuidiae immineret tempestas: omnes uastati agri periculorumque imminentium causas in se congesturos; temptationemque

eam fore abolendi sibi magistratus, ni consensu resisterent imperioque inhibendo acriter in paucos praeferocis animi conatus

aliorum comprimerent. Postquam audita uox in foro est praeconis patres in curiam ad decemuiros uocantis, uelut noua res, quia

intermiserant iam diu morem consulendi senatus, mirabundam plebem conuertit quidnam incidisset cur ex tanto interuallo rem

desuetam usurparent; hostibus belloque gratiam habendam quod solitum quicquam liberae ciuitati fieret. Circumspectare omnibus

fori partibus senatorem, raroque usquam noscitare; curiam inde ac solitudinem circa decemuiros intueri, cum et ipsi suum

inuisum consensu imperium, et plebs, quia priuatis ius non esset uocandi senatum, non conuenire patres interpretarentur; iam

caput fieri libertatem repetentium, si se plebs comitem senatui det et quemadmodum patres uocati non coeant in senatum, sic

plebs abnuat dilectum. Haec fremunt plebes. Patrum haud fere quisquam in foro, in urbe rari erant. Indignitate rerum cesserant

in agros, suarumque rerum erant amissa publica, tantum ab iniuria se abesse rati quantum a coetu congressuque impotentium

dominorum se amouissent. Postquam citati non conueniebant, dimissi circa domos apparitores simul ad pignera capienda

sciscitandumque num consulto detractarent referunt senatum in agris esse. Laetius id decemuiris accidit quam si praesentes

detractare imperium referrent. Iubent acciri omnes, senatumque in diem posterum edicunt; qui aliquanto spe ipsorum frequentior

conuenit. Quo facto proditam a patribus plebs libertatem rata, quod iis qui iam magistratu abissent priuatisque si uis abesset,

tamquam iure cogentibus, senatus paruisset.

Versione tradotta

Le Idi di maggio arrivarono. Senza preoccuparsi di far

eleggere altri magistrati al loro posto, i decemviri - ora privati cittadini - apparvero in pubblico facendo capire di non

voler assolutamente rinunciare alla gestione del potere, né di volersi privare delle insegne che erano il distintivo della

carica. Senza dubbio il loro sembrava un vero e proprio dispotismo. Si piange la libertà come perduta per sempre; non c'è, e

sembra che non ci possa essere nemmeno in futuro, chi sappia rivendicarla. Non si trattava soltanto di uno scoramento generale

della popolazione: i paesi dei dintorni avevano infatti cominciato a disprezzare i Romani, ritenendo indegno che l'egemonia

toccasse a un popolo privo di libertà. I Sabini fecero un'incursione in territorio romano con un largo spiegamento di

truppe. Dopo aver devastato la campagna in lungo e in largo, riuscirono a portarsi via il bottino di uomini e bestiame, in

tutta sicurezza. Quindi, al termine di varie scorrerie nel circondario, si andarono a chiudere ad Ereto, dove si accamparono,

nella speranza che le discordie a Roma ostacolassero l'arruolamento. A creare scompiglio e agitazione non contribuivano

soltanto i messaggeri in arrivo, ma anche le masse di contadini riversatesi in città dalle campagne. I decemviri, abbandonati

al loro destino dall'odio tanto dei patrizi quanto dei plebei, si interrogano sul da farsi. La cattiva sorte aggiunse un

altro motivo di terrore: gli Equi, provenienti da un'altra direzione, si andarono ad accampare sull'Algido e di lì, con

rapide incursioni, si misero a devastare la zona di Tuscolo. Queste notizie arrivarono a Roma con i messaggeri inviati da

Tuscolo per implorare aiuto. I decemviri furono così spaventati - due guerre contemporaneamente incombevano sulla città - che

convocarono il senato. Ordinano di far chiamare i senatori nella curia, pur non ignorando quale ondata di risentimento covava

nei loro confronti: tutti li avrebbero ritenuti responsabili delle devastazioni subite dalle campagne e dei pericoli che

incombevano. Ciò avrebbe portato al tentativo di abolire la loro magistratura, se di comune accordo non avessero opposto

resistenza e se, esercitando pesantemente la loro autorità nei confronti dei pochi veramente accaniti, non avessero represso le

velleità degli altri. Quando nel foro si sentì la voce del banditore convocare i senatori nella curia presso i decemviri come

se fosse una novità - l'usanza di consultare il senato era stata da tempo abbandonata - questo annuncio attirò una folla

stupita che si domandava cosa mai fosse successo per spingere i decemviri a ripristinare una pratica da tempo desueta.

Bisognava dire grazie ai nemici e alla guerra se succedeva qualcosa di assolutamente normale per una città libera. Si guardava

in tutte le parti del foro per individuare dei senatori, ma raramente se ne vedeva qualcuno. Poi si guardava dentro la curia

dove i decemviri se ne stavano tutti soli. Si interpretava in maniera diversa il fatto che i senatori non si fossero

presentati: i decemviri sostenevano che ciò dipendesse dall'odio unanime nei confronti della loro carica, mentre la plebe

sosteneva che i decemviri, essendo dei privati cittadini, non avevano il diritto di convocare il senato. Un vero passo avanti

coloro che rivendicavano la libertà lo avrebbero fatto se la plebe avesse collaborato col senato, e se, come i senatori che non

si erano presentati in senato, pur essendo stati convocati, così la plebe avesse rifiutato di arruolarsi. Questo vociferava la

gente. Quasi nessuno dei senatori era nel foro, pochi erano presenti in città. Indignati per la situazione, si erano ritirati

in campagna, e si curavano dei loro affari privati trascurando invece l'interesse della comunità. I senatori pensavano

infatti che tanto più sarebbero stati sicuri quanto più avessero evitato contatti e rapporti con i tirannici padroni al potere.

Quando, nonostante la convocazione, essi non si presentarono, vennero inviati alle loro case dei pubblici ufficiali con il

duplice cómpito di effettuare pignoramenti a titolo di sanzione e di chiedere se quelle assenze erano deliberate. I messi

tornarono riferendo che i senatori erano in campagna. I decemviri accolsero la notizia con maggiore piacere di quanto ne

avrebbero avuto se fosse stato annunciato loro che si trovavano in città, ma non avevano intenzione di attenersi alle

disposizioni. Ordinano quindi una convocazione generale e fissano una seduta del senato per il giorno successivo; e i senatori

vennero più numerosi di quanto essi non avessero sperato. Ma proprio per questo motivo la plebe pensava che la libertà era

stata tradita dai senatori: essi, come se l'ingiunzione fosse legale, avevano obbedito a uomini che non erano più magistrati

e che, senza l'uso della forza, sarebbero stati dei privati cittadini.

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