Ab urbe condita - Libro 3, Par. 39 - Studentville

Ab urbe condita - Libro 3, Par. 39

Sed magis oboedienter

uentum in curiam esse quam obnoxie dictas sententias accepimus. L. Valerium Potitum proditum memoriae est post relationem Ap.

Claudi, priusquam ordine sententiae rogarentur, postulando ut de re publica liceret dicere, prohibentibus minaciter decemuiris

proditurum se ad plebem denuntiantem, tumultum exciuisse. Nec minus ferociter M. Horatium Barbatum isse in certamen, decem

Tarquinios appellantem admonentemque Valeriis et Horatiis ducibus pulsos reges. Nec nominis homines tum pertaesum esse, quippe

quo Iouem appellari fas sit, quo Romulum, conditorem urbis, deincepsque reges, quod sacris etiam ut sollemne retentum sit:

superbiam uiolentiamque tum perosus regis. Quae si in rege tum aut in filio regis ferenda non fuerint, quem eadem laturum in

tot priuatis? Viderent ne uetando in curia libere homines loqui extra curiam etiam mouerent uocem; neque se uidere qui sibi

minus priuato ad contionem populum uocare quam illis senatum cogere liceat. Ubi uellent experirentur quanto fortior dolor

libertate sua uindicanda quam cupiditas in iniusta dominatione esset. De bello Sabino eos referre, tamquam maius ullum populo

Romano bellum sit quam cum iis qui legum ferendarum causa creati nihil iuris in ciuitate reliquerint; qui comitia, qui annuos

magistratus, qui uicissitudinem imperitandi, quod unum exaequandae sit libertatis, sustulerint; qui priuati fasces et regium

imperium habeant. Fuisse regibus exactis patricios magistratus; creatos postea post secessionem plebis plebeios; cuius illi

partis essent, rogitare. Populares? Quid enim eos per populum egisse? Optimates? Qui anno iam prope senatum non habuerint, tunc

ita habeant ut de re publica loqui prohibeant? Ne nimium in metu alieno spei ponerent; grauiora quae patiantur uideri iam

hominibus quam quae metuant.

Versione tradotta

Ma l'obbedienza dimostrata nel presentarsi in senato fu, a quanto si dice, superiore alla remissività con la quale esposero

il proprio punto di vista. Si racconta che Lucio Valerio Potito, dopo la proposta avanzata da Appio Claudio e prima che i

senatori venissero chiamati in successione a esporre le proprie opinioni, chiese di essere autorizzato a parlare della

situazione in cui versava lo Stato. Ma siccome i decemviri cercavano di impedirglielo ricorrendo all'intimidazione, Valerio

fece scoppiare un pandemonio dichiarando di volersi presentare di fronte al popolo. Nel dibattito Marco Orazio Barbato non

dimostrò minor veemenza: chiamò i decemviri dieci Tarquini, ricordando loro che erano stati i Valeri e gli Orazi a scacciare i

re. E non era stato il nome di re ciò che allora aveva disgustato la gente, in quanto proprio con quel nome era consuetudine

chiamare Giove, così come Romolo, fondatore della città, e in séguito i suoi successori, e il nome poi si era mantenuto come

titolo solenne in àmbito religioso. No, quello che il popolo aveva detestato nelle persone dei re erano state l'arroganza e

la crudeltà. E se queste caratteristiche si erano allora rivelate insopportabili in un re o nel figlio di un re, adesso chi le

avrebbe potute tollerare in tanti privati cittadini? Che stessero quindi bene attenti a non privare della libertà di parola i

presenti in curia, costringendoli ad alzare la voce fuori dalla curia. E poi non riusciva a vedere come fosse meno lecito a lui

- un privato cittadino - convocare il popolo in assemblea di quanto non lo fosse a loro costringere il senato. Avrebbero potuto

verificare in qualsiasi momento quanto più forte potesse essere l'esasperazione di un uomo chiamato a rivendicare la propria

libertà rispetto alla smodata ingordigia di chi difende un potere fondato sull'ingiustizia. E loro, i decemviri, venivano

poi a parlare della guerra contro i Sabini, come se per il popolo romano qualunque guerra potesse essere più importante di

quella da combattersi contro coloro che, eletti proprio per proporre delle leggi, non avevano lasciato nemmeno le tracce della

legalità all'interno del paese, spazzando via le regolari assemblee, le magistrature annue, l'avvicendamento del potere -

unica garanzia di uguale libertà -, arrivando fino a insignirsi delle fasce e del potere dei re, pur essendo privati cittadini.

Dopo la cacciata dei re, c'erano stati dei magistrati patrizi, mentre a séguito della secessione della plebe la nomina era

toccata anche ai plebei: ma loro, i decemviri - si domandava Valerio -, di quale parte erano? Popolare? Ma cosa avevano mai

fatto per il popolo? O erano forse degli aristocratici? Loro che, per quasi un anno, non avevano convocato il senato, ora che

lo avevano riunito impedivano di dibattere il problema dello Stato? Che non ponessero troppa speranza nell'altrui terrore:

quello di cui ora soffriva sembrava ormai alla gente più gravoso di quello che temeva per il futuro.

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