De Officiis, Libro 3, Par. da 101 a 105 - Studentville

De Officiis, Libro 3, Par. da 101 a 105

Paragrafo 101
At stulte qui non modo non censuerit captivos remittendos verum etiam dissuaserit. Quo

modo stulte? etiamne si rei publicae conducebat? Potest autem quod inutile rei publicae sit id cuiquam civi utile esse?

Pervertunt homines ea quae sunt fundamenta naturae cum utilitatem ab honestate seiungunt. Omnes enim expetimus utilitatem ad

eamque rapimur nec facere aliter ullo modo possumus. Nam quis est qui utilia fugiat? aut quis potius qui ea non studiosissime

persequatur? Sed quia nusquam possumus nisi in laude decore honestate utilia reperire propterea illa prima et summa habemus

utilitatis nomen non tam splendidum quam necessarium ducimus.

Paragrafo 102
Quid est

igitur dixerit quis in iure iurando? num iratum timemus Iovem? At hoc quidem commune est omnium philosophorum non eorum modo

qui deum nihil habere ipsum negotii dicunt nihil exhibere alteri sed eorum etiam qui deum semper agere aliquid et moliri volunt

numquam nec irasci deum nec nocere. Quid autem iratus Juppiter plus nocere potuisset quam nocuit sibi ipse Regulus? Nulla

igitur vis fuit religionis quae tantam utilitatem perverteret. An ne turpiter faceret? Primum minima de malis? Non igitur

tantum mali turpitudo ista habebat quantum ille cruciatus. Deinde illud etiam apud Accium:
“Fregistin

fidem?
Neque dedi neque do infideli cuiquam.”
quamquam ab impio rege dicitur luculente tamen

dicitur.

Paragrafo 103
Addunt etiam quemadmodum nos dicamus videri quaedam utilia quae

non sint sic se dicere videri quaedam honesta quae non sunt ut hoc ipsum videtur honestum conservandi iuris iurandi causa ad

cruciatum revertisse sed fit non honestum quia quod per vim hostium esset actum ratum esse non debuit. Addunt etiam quicquid

valde utile sit id fieri honestum etiam si antea non videretur. Haec fere contra Regulum. Sed prima

videamus.

Paragrafo 104
Non fuit Juppiter metuendus ne iratus noceret qui neque irasci

solet nec nocere. Haec quidem ratio non magis contra Reguli quam contra omne ius iurandum valet. Sed in iure iurando non qui

metus sed quae vis sit debet intellegi. Est enim ius iurandum affirmatio religiosa; quod autem affirmate quasi deo teste

promiseris id tenendum est. Iam enim non ad iram deorum quae nulla est sed ad iustitiam et ad fidem pertinet. Nam praeclare

Ennius:
“O Fides alma apta pinnis et ius iurandum Iovis.”
Qui ius igitur iurandum violat is fidem violat quam in

Capitolio vicinam Iovis optimi maximi ut in Catonis oratione est maiores nostri esse

voluerunt.

Paragrafo 105
At enim ne iratus quidem Juppiter plus Regulo nocuisset quam

sibi nocuit ipse Regulus. Certe si nihil malum esset nisi dolere. Id autem non modo non summum malum sed ne malum quidem esse

maxima auctoritate philosophi affirmant. Quorum quidem testem non mediocrem sed haud scio an gravissimum Regulum nolite quaeso

vituperare. Quem enim locupletiorem quaerimus quam principem populi Romani qui retinendi officii causa cruciatum subierit

voluntarium? Nam quod aiunt minima de malis id est ut turpiter potius quam calamitose; an est ullum maius malum turpitudine?

Quae si in deformitate corporis habeat aliquid offensionis quanta illa depravatio et foeditas turpificati animi debet videri?

Versione tradotta

Paragrafo 101
"Ma

fu stolto, perché non solo non propose la restituzione dei prigionieri, ma anche dissuase dal farlo". E come stolto? Anche se

recava giovamento allo Stato? E' possibile che quanto è inutile allo Stato possa essere utile a qualche cittadino? Gli uomini

sovvertono i fondamenti della natura nel separare l'utilità dall'onestà. Tutti, infatti, desideriamo ciò che è utile e siamo

trascinati verso di esso, senza poter fare in alcun modo diversamente. Chi c'è che si terrebbe lontano dall'utile? 0 chi,

piuttosto, che non lo ricercherebbe con il massimo impegno? Ma poiché possiamo trovarlo soltanto nella gloria, nella dignità,

nell'onestà, per tale motivo riteniamo questi come i primi e maggiori beni, mentre consideriamo il termine 'utilità, non

tanto magnifico quanto necessario.

Paragrafo 102
Che cosa c'è, dunque, potrebbe

dire qualcuno, in un giuramento? Forse temiamo l'ira di Giove? Ma è opinione comune di tutti i filosofi (non solo di quelli

che affermano che il dio non si cura di nulla e non procura alcuna preoccupazione ad altri, ma anche di coloro che sostengono

che la divinità compie e prepara sempre qualche cosa), che il dio non si adira mai e non reca nocumento. In che cosa, poi,

Giova irato avrebbe potuto nuocere a Regolo, più di quanto egli nocque a se stesso? Non c'era, dunque, alcuna forza della

religione che potesse mandare in a una tanto grande utilità. Forse per non agire indegnamente? In primo luogo, tra due mali

bisogna scegliere il minore: questa vergogna recava forse con sé tanto male, quanto ne recavano quelle torture? In secondo

luogo anche presso Accio si legge:
'Hai violato la parola data? Non l'ho mai data né la do ad alcuno sleale.'
E'

vero che ciò è detto da un re empio, ma detto, tuttavia, splendidamente.

Paragrafo

103
Aggiungono anche che, come noi diciamo che ci sembrano utili alcune cose che non lo sono, così essi dicono che

sembrano oneste alcune cose che non lo sono; ad esempio può apparire onesto proprio l'esser tornato al supplizio per mantenere

un giuramento, ma finisce coi divenire non onesto, perché quanto si fa costretti dai nemici non avrebbe dovuto esser mantenuto.

Aggiungono anche che tutto ciò che è molto utile diventa onesto, anche se in precedenza non sembrava tale. Queste,

all'incirca, sono le obiezioni rivolte a Regolo. Ma esaminiamo la prima.

Paragrafo

104
Non bisogna temere che Giove, adirato, nuocesse, perché non è solito adirarsi né fare del male. Questo argomento

non è valido tanto contro il giuramento di Regolo, quanto contro ogni giuramento. Ma nel giuramento bisogna considerare non il

timore (in caso di violazione), ma il suo significato; il giuramento è, difatti, un'affermazione religiosa: quello che uno ha

promesso solennemente, come se il dio ne fosse testimone, deve esser mantenuto. Non si tratta, difatti, dell'ira divina, che

non esiste, ma della giustizia e della fede; dice benissimo Ennio:
'O alma Fede, fornita d'ali, e giuramento di Giove'

Chi, dunque, viola un giuramento, viola la Fede, che i nostri antenati vollero stesse sul Campidoglio accanto a Giove

Ottimo Massimo, come si dice in un'orazione di Catone.

Paragrafo 105
Ma neppure

Giove adirato avrebbe potuto nuocere a Regolo, più di quanto proprio Regolo nocque a se stesso. Certo, se non esistesse altro

male al di fuori del dolore fisico; ma i filosofi più autorevoli affermano che non solo non è il male maggiore, ma non è

neppure un male. Non biasimate, di grazia, Regolo, testimone non mediocre, anzi forse importantissimo (della fondatezza delle

loro asserzioni). Difatti quale testimone più autorevole andiamo cercando di uno dei più insigni cittadini romani, che affrontò

volontariamente il supplizio per mantenersi fedele al dovere? Si dice, poi, 'il minore tra i mali' - scegliere, cioè, la

vergogna piuttosto che la sventura -, ma esiste un male più grande della vergogna? Se essa nella deformità fisica ha qualche

cosa di repellente, quanto ci deve apparire grande la deformità e la bruttezza di un animo corrotto?

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