Paragrafo 11
Quam ob rem de iudicio Panaetii dubitari non
potest; rectene autem hanc tertiam partem ad exquirendum officium adiunxerit an secus de eo fortasse disputari potest. Nam sive
honestum solum bonum est ut Stoicis placet sive quod honestum est id ita summum bonum est quemadmodum Peripateticis vestris
videtur ut omnia ex altera parte collocata vix minimi momenti instar habeant dubitandum non est quin numquam possit utilitas
cum honestate contendere. Itaque accepimus Socratem exsecrari solitum eos qui primum haec natura cohaerentia opinione
distraxissent. Cui quidem ita sunt Stoici assensi ut et quicquid honestum esset id utile esse censerent nec utile quicquam quod
non honestum.
Paragrafo 12
Quodsi is esset Panaetius qui virtutem propterea colendam
diceret quod ea efficiens utilitatis esset ut ii qui res expetendas vel voluptate vel indolentia metiuntur liceret ei dicere
utilitatem aliquando cum honestate pugnare. Sed cum sit is qui id solum bonum iudicet quod honestum sit quae autem huic
repugnent specie quadam utilitatis eorum neque accessione meliorem vitam fieri nec decessione peiorem non videtur debuisse
eiusmodi deliberationem introducere in qua quod utile videretur cum eo quod honestum est
compararetur.
Paragrafo 13
Etenim quod summum bonum a Stoicis dicitur convenienter
naturae vivere id habet hanc ut opinor sententiam cum virtute congruere semper cetera autem quae secundum naturam essent ita
legere si ea virtuti non repugnarent. Quod cum ita sit putant quidam hanc comparationem non recte introductam nec omnino de eo
genere quicquam praecipiendum fuisse. Atque illud quidem honestum quod proprie vereque dicitur id in sapientibus est solis
neque a virtute divelli umquam potest. In iis autem in quibus sapientia perfecta non est ipsum illud quidem perfectum honestum
nullo modo similitudines honesti esse possunt.
Paragrafo 14
Haec enim officia de
quibus his libris disputamus media Stoici appellant; ea communia sunt et late patent quae et ingenii bonitate multi assequuntur
et progressione discendi. Illud autem officium quod rectum idem appellant perfectum atque absolutum est et ut idem dicunt omnes
numeros habet nec praeter sapientem cadere in quemquam potest.
Paragrafo 15
Cum autem
aliquid actum est in quo media officia compareant id cumulate videtur esse perfectum propterea quod vulgus quid absit a
perfecto non fere intellegit; quatenus autem intellegit nihil putat praetermissum quod idem in poematis in picturis usu venit
in aliisque compluribus ut delectentur imperiti laudentque ea quae laudanda non sint ob eam credo causam quod insit in his
aliquid probi quod capiat ignaros qui idem quid in unaquaque re vitii sit nequeant iudicare. Itaque cum sunt docti a peritis
desistunt facile sententia. Haec igitur officia de quibus his libris disserimus quasi secunda quaedam honesta esse dicunt non
sapientium modo propria sed cum omni hominum genere communia.
Versione tradotta
Per questo motivo non si può dubitare delle intenzioni di Panezio; si potrà forse
discutere se a giusta ragione oppure no abbia aggiunto questa terza parte per trattare a fondo il dovere: infatti, vuoi che
l'onesto sia il solo bene, come ritengono gli Stoici, vuoi che, come sembra ai vostri Peripatetici, ciò che è onesto sia il
sommo bene - sicché tutti gli altri beni posti nell'altre piatto della bilancia abbiano appena un piccolissimo peso -, non si
deve mettere in dubbio che l'utile non possa mai essere in conflitto con 1'onesto. Perciò sappiamo che Socrate era solito
contestare violentemente quelli che per la prima volta avevano operato una distinzione teorica tra questi concetti, per natura
collegati tra di loro. In realtà gli Stoici furono talmente d'accordo con lui, da ritenere che tutto ciò che è onesto è utile,
e non è utile ciò che non è onesto.
E se Panezio fosse un uomo tale da
affermare che la virtù si deve praticare proprio perché essa è produttrice di utilità, come quelli che misurano le cose da
desiderare o in base al piacere o in base alla assenza di dolore, sarebbe possibile per lui affermare che l'utilità contrasta
qualche volta con l'onestà. Ma poiché egli è tale che giudica unico bene ciò che è onesto, e ritiene che le cose in contrasto
con l'onesto, pur con una certa apparenza di utile, non rendano la vita migliore con il loro apporto, né la rendano peggiore
con la loro mancanza, perciò non sembra che egli avrebbe dovuto introdurre un discorso di tal genere, nel quale ciò che sembra
utile viene messo a paragone con ciò che è onesto.
Infatti ciò che è
chiamato dagli Stoici il sommo bene - il vivere secondo natura - ha questo significato, secondo il mio parere, di conformarsi
sempre alla virtù e a tutte le altre cose che sono secondo natura, di sceglierle in quanto non siano in contrasto con la virtù.
Poiché la questione sta in tali termini, alcuni ritengono che questa comparazione sia stata introdotta senza una giusta ragione
e che, quindi, non si dovrebbero dare affatto insegnamenti. Inoltre quella onestà (ideale), si afferma con giusta proprietà, si
trova nei soli sapienti e non può mai essere disgiunta dalla virtù. In coloro, invece, nei quali la sapienza non è perfetta,
non è in alcun modo perfetta neppure quella stessa onestà, ma vi possono essere elementi ad essa
somiglianti.
Questi doveri, appunto, di cui sto trattando in questi
libri, gli Stoici li chiamano mediani (relativi); sono doveri comuni e si estendono in ogni campo, e molti giungono a
conoscerli per mezzo della bontà della loro indole e per progressiva educazione; invece quel dovere che chiamiamo retto è
perfetto ed assoluto e, come dicono essi stessi, ha tutti i pregi e non si può trovare in alcun altro tranne che nel
sapiente.
Quando però si compie qualche azione nella quale si presentino
i doveri di mezzo (relativi), essa sembra assolutamente perfetta, proprio perché la gente comune in genere non comprende quanto
sia lontana dalla perfezione e, fino al punto in cui arriva la sua intelligenza, non pensa di aver trascurato niente.
L'identica cosa è divenuta usuale in fatto di poesia, di dipinti e in molti altri campi, sicché i profani traggono diletto e
apprezzano quelle cose che non devono essere apprezzate, per il motivo - credo - che è insito in esse un qualcosa di onesto,
che affascina gli inesperti, i quali d'altra parte non possono giudicare i difetti propri di ciascuna opera; perciò, quando
sono illuminati da esperti, facilmente cambiano la loro opinione. Questi doveri, dunque, dei quali sto discutendo in questi
libri, sono - secondo gli Stoici - cose oneste di secondo grado, non proprie solamente dei sapienti, ma comuni a tutto il
genere umano.
- Letteratura Latina
- De Officiis di Cicerone
- Cicerone