De Officiis, Libro 3, Par. da 111 a 115 - Studentville

De Officiis, Libro 3, Par. da 111 a 115

Paragrafo 111
Sed ex tota hac laude Reguli unum illud est

admiratione dignum quod captivos retinendos censuit. Nam quod rediit nobis nunc mirabile videtur illis quidem temporibus aliter

facere non potuit. Itaque ista laus non est hominis sed temporum. Nullum enim vinculum ad astringendam fidem iure iurando

maiores artius esse voluerunt. Id indicant leges in duodecim tabulis indicant sacratae indicant foedera quibus etiam cum hoste

devincitur fides indicant notiones animadversionesque censorum qui nulla de re diligentius quam de iure iurando

iudicabant.

Paragrafo 112
L. Manlio A. f. cum dictator fuisset M. Pomponius tr. pl.

diem dixit quod is paucos sibi dies ad dictaturam gerendam addidisset; criminabatur etiam quod Titum filium qui postea est

Torquatus appellatus ab hominibus relegasset et ruri habitare iussisset. Quod cum audivisset adulescens filius negotium

exhiberi patri accurisse Romam et cum primo luci Pomponii domum venisse dicitur. Cui cum esset nuntiatum qui illum iratum

allaturum ad se aliquid contra patrem arbitraretur surrexit e lectulo remotisque arbitris ad se adulescentem iussit venire. At

ille ut ingressus est confestim gladium destrinxit iuravitque se illum statim interfecturum nisi ius iurandum sibi dedisset se

patrem missum esse facturum. Iuravit hoc terrore coactus Pomponius; rem ad populum detulit docuit cur sibi causa desistere

necesse esset Manlium missum fecit. Tantum temporibus illis ius iurandum valebat. Atque hic T. Manlius is est qui ad Anienem

Galli quem ab eo provocatus occiderat torque detracto cognomen invenit cuius tertio consulatu Latini ad Veserim fusi et fugati

magnus vir in primis et qui perindulgens in patrem idem acerbe severus in filium.

Paragrafo

113
Sed ut laudandus Regulus in conservando iure iurando sic decem illi quos post Cannensem pugnam iuratos ad senatum

misit Hannibal se in castra redituros ea quorum erant potiti Poeni nisi de redimendis captivis impetravissent si non redierunt

vituperandi. De quibus non omnes uno modo; nam Polybius bonus auctor inprimis ex decem nobilissimis qui tum erant missi novem

revertisse dicit re a senatu non impertrata; unum ex decem qui paulo post quam erat egressus e castris redisset quasi aliquid

esset oblitus Romae remansisse. Reditu enim in castra liberatum se esse iure iurando interpretabatur non recte. Fraus enim

distringit non dissolvit periurium. Fuit igitur stulta calliditas perverse imitata prudentiam. Itaque decrevit senatus ut ille

veterator et callidus vinctus ad Hannibalem duceretur.

Paragrafo 114
Sed illud

maximum: octo hominum milia tenebat Hannibal non quos in acie cepisset aut qui periculo mortis diffugissent sed qui relicti in

castris fuissent a Paulo et a Varrone consulibus. Eos senatus non censuit redimendos cum id parva pecunia fieri posset ut esset

insitum militibus nostris aut vincere aut emori. Qua quidem re audita fractum animum Hannibalis scribit idem quod senatus

populusque Romanus rebus afflictis tam excelso animo fuisset. Sic honestatis comparatione ea quae videntur utilia

vincuntur.

Paragrafo 115
C. Acilius autem qui Graece scripsit historiam plures ait

fuisse qui in castra revertissent eadem fraude ut iure iurando liberarentur eosque a censoribus omnibus ignominiis notatos. Sit

iam huius loci finis. Perspicuum est enim ea quae timido animo humili demisso fractoque fiant quale fuisset Reguli factum si

aut de captivis quod ipsi opus esse videretur non quod rei publicae censuisset aut domi remanere voluisset non esse utilia quia

sint flagitiosa foeda turpia.

Versione tradotta

Paragrafo 111
Ma in tutto questo glorioso comportamento di Regolo un atto è specialmente degno

di ammirazione, il fatto che egli propose di trattenere i prigionieri. L'esser tornato, difatti, sembra a noi straordinario

adesso, ma in quei tempi non avrebbe potuto comportarsi diversamente; di conseguenza questa è una lode che va rivolta non

all'uomo, ma ai tempi: i nostri antenati vollero che nessun vincolo fosse più saldo del giuramento per impegnare a rispettare

la parola data. Lo indicano le leggi delle dodici tavole, le leggi esecratoríe, lo indicano i trattati, con i quali s'impegna

la parola anche con i nemici, lo indicano le ammonizioni e i rimproveri dei censori, che non giudicavano con maggiore scrupolo

alcuna colpa come quelle riguardanti il giuramento.

Paragrafo 112
Il tribuno della

plebe Marco Pomponio citò in giudizio Lucio Manlio, figlio di Aulo, che era dittatore, perché aveva prolungato di pochi giorni

il periodo della sua dittatura; lo si accusava anche di aver allontanato dal consorzio umano ed aver costretto a vivere in

campagna il figlio Tito, quello che in seguito fu soprannominato Torquato. Quando il giovane figlio apprese che il padre aveva

delle noie, si dice che accorresse a Roma e sul far del giorno si recasse in casa di Pomponio. Essendogli stata annunziata la

sua visita, Pomponio, pensando che Tito adirato venisse a riferirgli qualche cosa contro il padre, si alzò dal letto e,

allontanati i testimoni. ordinò che venisse fatto entrare il giovane. Ma questi, appena entrato, sguainò la spada e giurò che

lo avrebbe ucciso immediatamente se non gli avesse giurato di liberare da ogni accusa il padre. Pomponio giurò, costretto dal

terrore; portò la questione dinanzi al popolo, lo informò del motivo che lo costringeva a desistere dall'accusa e lasciò

libero Manlio. Tanto grande era il valore del giuramento in quei tempi. [E questo Tito Manlio è lo stesso che prese il cognome

dall'aver strappato, nella battaglia dell'Aniene, il monile a un Gallo che l'aveva sfidato; durante il suo terzo consolato i

Latini furono sbaragliati e messi in fuga presso Veseri, eroe, tra i più grandi, che, indulgentissimo nei confronti del padre,

fu severissimo nei confronti del figlio.]

Paragrafo 113
Ma, come è degno di lode

Regolo per aver rispettato il giuramento, così sono degni di biasimo, se non ritornarono, quei dieci che, dopo la battaglia di

Canne, Annibale inviò al senato, dietro giuramento che sarebbero tornati nell'accampamento, di cui s'erano impadroniti i

Cartaginesi, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri. Sul loro comportamento non tutti sono d'accordo. Difatti

Polibio, storico tra i più autorevoli, dice che dei dieci più nobili allora inviati, ne ritornarono nove per non avere ottenuto

il consenso del senato; uno dei dieci, che aveva fatto ritorno negli accampamenti poco dopo esserne uscito, quasi avesse

dimenticato qualche cosa, rimase a Roma, perché giudicava, e a torto, d'essersi liberato dal giuramento con quel suo ritorno

nell'accampamento. La frode, difatti, aggrava e non elimina lo spergiuro. Si trattò, dunque, d'una sciocca astuzia, che imitò

malamente la prudenza. Il senato decise, quindi, che quel furbo imbroglione fosse ricondotto in catene ad

Annibale.

Paragrafo 114
Ma questo è il lato più importante. Annibale teneva

prigionieri ottomila uomini, che non erano stati catturati in battaglia né erano fuggiti di fronte al pericolo di morte, ma

erano stati lasciati nell'accampamento dai consoli Paolo e Varrone. Il senato stabilì che non si doveva pagare il riscatto,

benché lo si potesse fare con un'esigua somma di denaro, perché fosse ben radicato nell'animo dei nostri soldati il concetto

che bisognava vincere o morire. Lo stesso storico scrive che, udito il fatto, l'animo di Annibale ne restò molto turbato,

perché il senato e il popolo romano avevano dimostrato una tale grandezza d'animo nelle avversità. Così, al paragone con

l'onestà, le azioni che sembrano utili finiscono con l'essere superate.

Paragrafo

115
[Gaio Acilio, invece, che scrisse una storia di Roma in greco, dice che furono molti a ritornare negli

accampamenti con lo stesso inganno, per esser liberati dal giuramento, e furono bollati dai censori con ogni nota d'infamia.]

Mettiamo fine, oramai, a questo argomento. E' chiaro, infatti, che tutto ciò che viene fatto con animo pavido, umile, depresso

ed avvilito (come sarebbe stata l'azione di Regolo, se avesse proposto, riguardo ai prigionieri, quello che gli sembrava

opportuno per sé, non per lo Stato, o avesse voluto restare in patria) non è utile, perché è dannoso, disonorevole,

ripugnante.

  • Letteratura Latina
  • De Officiis di Cicerone
  • Cicerone

Ti potrebbe interessare

Link copiato negli appunti